«I giudei non mangiano se non si sono lavati accuratemente le mani, attenendosi alle tradizioni degli antichi, e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti…» (Mc 7,3-4).
Gli ebrei, già dai tempi antichi, erano noti per il rispetto rigoroso di una serie di norme, che riguardavano, come dice Marco, le abluzioni, ma anche e soprattutto i cibi e il modo di nutrirsene. Persino i romani sapevano che i giudei non mangiavano alcuni alimenti, tra cui soprattutto il maiale, che i romani infilavano in qualunque piatto, tanto che non potevano non averlo notato. Perché tutte queste regole alimentari?
Una spiegazione sbagliata
Si pensa spesso che la ragione dei divieti alimentari imposti dalle religioni sia igienica. Quello che l’esperienza aveva dimostrato essere pericoloso, senza che se ne cogliesse la ragione, veniva vietato da leggi religiose che, in quanto tali, non erano tenute a spiegare scientificamente i motivi delle proibizioni.
Ad esempio, si dice e si legge che l’impurità del maiale deriverebbe dalla difficoltà di conservarne la carne in maniera sana in ambienti caldi come il Vicino Oriente. Sembrerebbe quasi una spiegazione sensata e ragionevole, se non fosse che motivare razionalmente gli elenchi degli animali puri o impuri sfidi la logica: perché dovrebbero essere puri la cavalletta, la pecora, la capra, la mucca e impuri il cammello, il coniglio, il cavallo, l’astice?
D’altronde, a smentire quella convinzione potrebbe semplicemente essere la constatazione che a essere puri sono i pesci “con squame e pinne” (Lv 11,9): sostenere che la conservazione di un pesce sia igienicamente più semplice di quella di carne di maiale, sfida logica ed esperienza umana.
Allora? Quale può essere la ragione di quella divisione?
Ordine animale
Se iniziamo a passare in rassegna gli animali puri e impuri e le ragioni che si offrono nei testi biblici per il loro inserimento in uno o nell’altro catalogo, qualche idea inizia però a raccogliersi.
Scopriamo tra gli animali puri uccelli che non siano carnivori (cfr. Dt 14,12-18), animali marini che abbiano pinne e squame (Dt 14,9, ossia i pesci, ciò che disegnerebbe un bambino di ciò che trova in un lago o in un mare: probabilmente non gli verrebbe in mente di aggiungere granchi e calamari…), quadrupedi che siano o ruminanti “con l’unghia divisa in due” oppure non ruminanti che non abbiano l’unghia di quel tipo. In effetti, è vero che la maggior parte degli animali che camminano su due unghie sono ruminanti, gli altri per lo più no. E questa osservazione sarebbe risultata probabilmente più semplice per una società contadina e agricola come quella ebraica antica. È questa, peraltro, la ragione per cui il maiale, con l’unghia divisa in due ma non ruminante, o il cavallo, con l’unghia unita ma ruminante, sono impuri.
Cogliamo, ossia, che una logica c’è: gli animali che potremmo definire più “normali” sono ritenuti puri, gli altri no.
Ancora una volta, però, abbiamo colto una logica, ma non una ragione. Possiamo andare più in profondità?
Un capretto e il latte
Possiamo avanzare di qualche passo se iniziamo a ragionare su una regola molto diffusa e rispettata persino oggi tra gli ebrei, e che ci può sembrare assolutamente strana.
Nelle cucine del mondo ebraico osservante, infatti, troviamo regolarmente due insiemi di stoviglie, distinti e assolutamente da non mescolare, al punto che si preferisce anche non lavarli insieme: un insieme è destinato a cucinare piatti a base di carne, l’altro piatti che comportino latticini. Nessuna possibilità di mescolare un insieme di cibi con l’altro (niente ragù col parmigiano!).
La ragione di partenza di questa norma che ci può sembrare curiosissima è una breve affermazione riportata in Dt 14,21 (come pure in Es 23,19; 34,26): «Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre». Possiamo già iniziare a comprendere meglio il senso di un comando che non viene spiegato ma il cui senso, intuibile, viene poi chiarito bene da molti rabbini.
Il latte, infatti, è un cibo particolare, che anche simbolicamente indica una promessa di vita: è il primo cibo dei mammiferi, serve a sfamare e dissetare ma è anche una apertura alla crescita, è in fondo l’unico cibo che non comporti di privare di vita altri (anche chi si nutre di vegetali consuma ciò che avrebbe un’autonomia di vita propria). Nel mondo in cui viviamo, dove il male è presente, anche Dio ha concesso, secondo Gen 9,2-6, di nutrirsi anche della vita altrui, per sopravvivere. Persino di quella giovane che potrebbe avere davanti a sé lunghi anni di crescita. Utilizzare però, per rendere commestibile o gradevole la carne, quel latte che prometteva vita al cucciolo, appare una crudeltà non necessaria. Non importa che né il capretto né la madre, ovviamente, siano consapevoli di questa crudeltà: la conosce chi cucina. E se è vero che ciò non accrescerebbe la sofferenza dei due animali, è pur vero che non tenere conto di questa delicata attenzione abituerebbe l’essere umano che cucina a non badare più al rispetto di ciò che è messo a disposizione dell’uomo per nutrirsi, ma che è un’espressione di quella vita donata solo da Dio e a lui sacra.
Per essere sicuri di evitare ogni tipo di simile contaminazione, poi, la tradizione è arrivata alla separazione completa di carne da una parte e latte e latticini dall’altra.
Il senso di una norma
Quella breve, apparentemente insensata e mai motivata regola, quindi, ci permette di entrare all’interno della logica delle norme tutte di alimentazione.
Alcune di queste hanno alla base un’attenzione delicata, di rispetto della vita che pure viene utilizzata per sopravvivere. Altre sembrano seguire semplicemente dei criteri molto superficiali ed esteriori di “ordine”.
Tutte queste regole, però, hanno in comune il fatto che, nel momento in cui ci si trova davanti a una vita che potrebbe essere utilizzata per nutrirsi, non può non sorgere la domanda se quella fonte di energia sia pura o impura.
Ossia, occorre essere consapevoli di ciò che si fa. Il senso più profondo delle norme alimentari sembra allora quello. Il Dio che ama l’umanità e la vita ha concesso all’umanità di servirsi della vita per restare vivi, ma chiede all’essere umano di essere consapevole di questo dono, e servirsene con coscienza, con cura e attenzione. Nessun vincolo insostenibile, ma nessuna superficialità.
Angelo Fracchia