Un Dio inflessibile?
Il libro del profeta Osea ci pone davanti a una presentazione che può spiazzarci. Prima tre capitoli in prosa, che raccontano la storia matrimoniale del profeta, e poi undici capitoli in poesia che sembrano poco comprensibili e comunque non avere nulla in comune con quella che finiamo con il ritenere una (bizzarra) introduzione biografica.
Ma è davvero così?
Un matrimonio sfortunato?
«Va’, e prenditi per moglie una prostituta, perché il mio paese continua a prostituirsi» (Os 1,2).
Il libro di Osea si apre così, ed è un inizio strano, indubbiamente. La tradizione ebraica, come peraltro molte altre, è ossessionata dalla purità della discendenza, perché chi eredita la benedizione divina sulla terra ne abbia davvero diritto. Prendere in moglie una prostituta sembra davvero una follia… La frase inizia però subito a tradire la questione: non si parla solo del profeta, quanto anche del popolo ebraico e di Dio. Il profeta è chiamato a mettere in scena ciò che ha fatto e fa Dio, nella sua vita umana parla di Lui.
I nomi che Dio lo invita a dare ai figli, in effetti, sono particolari. Il primo si chiama “Izreèl”, come la valle nella quale era stato distrutto dai filistei l’esercito ebraico di Saul (1 Sam 29,11; 2 Sam 4,4), primo a essere unto re, o in cui si trovava la vigna che un altro re, Acab, desiderava e che la regina, Gezabele, riuscì a strappare a Nabot facendolo ingiustamente condannare a morte (1 Re 21) e dove la stessa Gezabele venne uccisa e abbandonata ai cani (2 Re 9). Non un posto di buon auspicio, insomma, ma un luogo in cui si erano verificati episodi di ingiustizia che Dio vuole vendicare (Os 1,4-5).
Anche gli altri figli, peraltro, porteranno nomi “difficili”: “Non-amata” e “Non-popolo-mio” (1,6-9).
Un marito vendicativo?
La moglie di Osea non smette di prostituirsi, come il popolo di Israele non smette di allontanarsi da Dio. Che cosa farà allora il profeta/Dio?
Secondo la tradizione e la legge, il marito avrebbe potuto mandare a morte la moglie infedele. Secondo gli antichi scritti sulla gelosia divina, Dio non sopporta che gli si mettano accanto altre divinità.
Ma la reazione di vendetta è sì minacciata (Os 2,11-15) ma poi non realizzata: Dio, dopo aver minacciato, finisce con l’immaginare di “parlare al cuore” della moglie, portando Israele in quel deserto dove non aveva garanzie e doveva fidarsi solo di Dio, che peraltro si era dimostrato affidabile (Os 2,16); per condurvi la moglie/popolo, il profeta/Dio non la costringe, non la forza, come peraltro secondo la legge avrebbe potuto fare, ma vuole “sedurla”, per convincerla a non chiamarlo più “mio Signore”, ossia colui che mi comanda (ed era il titolo che si dava anche alle divinità alternative a Dio), bensì “mio uomo”, in un legame non comandato più dalla legge, ma dall’affetto, dalla passione.
Questa parte narrativa del libro di Osea si chiude (cap. 3) con il profeta che è invitato da Dio a “comprare” la propria moglie, chiedendole di non prostituirsi più. Non sappiamo come andrà a finire, perché rispondere spetta alla moglie, al popolo, ossia a noi… Ma il profeta/Dio è disposto a non pretendere il suo diritto con la forza della legge, bensì a “sedurre” la moglie, o al limite a comprarla. È disposto a scendere a patti per ciò che gli sta più a cuore.

Un Dio sfortunato?
Ma nel resto del libro, che è scritto in poesia quindi più difficile da seguire, ritorna la stessa idea, quella di un Dio per cui la cosa più importante è il rapporto con l’uomo.
È un Dio che riconosce che tutto l’amore di Giacobbe e Israele è in realtà instabile, esteriore e legati ai riti (Os 4-5), nonostante Dio cerchi l’interiorità («voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti»: 6,6); al contrario, però, il popolo d’Israele cerca il modo di ingraziarsi le divinità, si fa incisioni per guadagnarsene il favore (7,14). Si cerca la compravendita quando Dio vuole regalare.
Il discorso si fa però più intenso nel capitolo 11, anche se il linguaggio poetico a volte non ci aiuta nel cogliere il cuore del discorso: «Quando Israele era un ragazzino, io l’ho amato e l’ho portato fuori dall’Egitto» (v. 1), ossia non quando era un uomo fatto dal quale avrei potuto essere sostenuto o protetto, ho amato Israele fin da quando era fragile, l’ho scelto personalmente, in un legame personale e intimo. «Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me» (v. 2).
«A Efraim insegnavo a camminare tenendolo per le ascelle» (v. 3), come un genitore che non abbandona il figlio che inizia a essere autonomo, ma lo fa da dietro, per non farsi vedere, per dare la sensazione al bambino di fare tutto da solo, benché continui a sostenerlo per sicurezza… «Li traevo con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla guancia», gesto non di dominio ma di affetto, di tenerezza.
Eppure, Israele è andato verso altri dèi. Che cosa dovrebbe fare chi ha amato tanto e si vede tradito? Non fatichiamo certo a capire chi in casi del genere si incattivisce, rompe ogni relazione. E Dio stesso ammette che dovrebbe rispondere con la strage (vv. 5-6). Quando però riconosce che il suo popolo non è in grado di guardare verso l’alto (v. 7), non ne deduce che quindi deve abbandonarlo: «Come potrei abbandonarti? Come consegnarti ad altri? dovrei ridurti come Admà e Zeboìm?», due città che la tradizione ebraica univa a Sodoma e Gomorra (Dt 29,22), distrutte per la loro malvagità. «Si sciolgono i miei intestini per la commozione» (Os 11,8). Dio ammette che il suo popolo non ha risposto al suo amore, e che quindi dovrebbe essere giustamente abbandonato; ma, semplicemente, Dio non ce la fa. Ama troppo, non sopporta di vedere il male dell’amato. Messo alle strette tra la vergogna di non essere rispettato e la sofferenza di vedere soffrire chi ama… decide di passare piuttosto per stupido e ingenuo, rompe le proprie stesse condizioni e decide che tiene più al legame con l’uomo che alla propria stessa legge.
Quello della Bibbia è un Dio che preferisce essere svergognato, anziché perdere il legame con l’essere umano.
Un caso, o recidivo?
Non è l’unica volta nella Bibbia che Dio preferisce rompere la propria stessa legge a patto di salvare l’amicizia con l’uomo.
Tra i tanti, può essere significativo riprendere due esempi tratti dai primi undici capitoli della Genesi, da quei capitoli, cioè, che non sono pensati per i credenti ma per tutti gli uomini (vengono prima della vicenda di Abramo…). Nei capitoli dal 6 al 9 Dio, stufo della malvagità del mondo, manda il diluvio per distruggerlo. Ma intanto avvisa Noè, lo informa come dovrà essere fatta l’arca, aspetta che lui sia pronto e gli sigilla addirittura la porta dall’esterno perché non imbarchi acqua (Gen 7,16) e lo fa posare sul monte più alto della terra per garantirgli che l’arca sia il primo oggetto ad asciugarsi dopo il diluvio…
D’altronde anche quando aveva scacciato Adamo ed Eva dal giardino, dopo il loro peccato, li aveva rivestiti di pelli di animali (Gen 3,21). Questo perché i due, dopo aver mangiato la mela, percepivano come una vergogna e una minaccia la propria nudità (Gen 3,7). Peccato che poco prima, nel creare, Dio avesse stabilito che la vita era sacra, e che persino tutti gli animali dovevano essere solo vegetariani (Gen 1,29-30). Ma Dio è il primo a uccidere, per fare tuniche di pelle a chi aveva appena diffidato di lui. Al rispetto della legge buona che ha dato lui stesso, Dio preferisce la relazione con le sue creature umane.
E d’altronde è ciò che si celebra anche sulla croce: quel supplizio che dichiarava maledetto (da Dio) chiunque vi morisse sopra («Maledetto colui che pende dal legno»: Dt 21,22-23; Gal 3,13) è vissuto da Dio stesso, che preferisce passare da maledetto (da se stesso!) piuttosto che lasciare intendere che il suo amore per l’uomo si fermi di fronte al rifiuto violento della relazione. La croce dice che Dio è disposto a farsi non solo massacrare ma anche svergognare, ma non vuole assolutamente chiudere la porta in faccia all’essere umano.
Angelo Fracchia