Suor Claudia Gavarini, missionaria della Consolata italiana, vive a Birmingham, in Alabama (Stati Uniti). In questo stato, segnato da una storia di segregazione razziale, le Missionarie della Consolata vivono la missione di consolazione da circa 50 anni. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Suor Claudia, che ci ha raccontato la consolazione a doppia corsia e luminosi segni di speranza.
Che tipo di servizio svolgi in Birmingham, in Alabama?
Insieme alle mie consorelle portiamo avanti per la Diocesi un centro tipo Caritas, dove le persone che hanno bisogno di pagare la bolletta della luce o dell’acqua, o hanno bisogno di cibo, vestiario… si rivolgono a noi.
Dopo un colloquio in cui presentano la propria situazione di bisogno, vengono aiutati. La Diocesi finanzia a seconda degli aiuti che riceve, e poi ci sono tante persone che fanno offerte, contribuiscono con alimenti, vestiario, materiale scolastico. Quella è una cosa bellissima, che mi ha colpito subito: la generosità della gente, che dice: “Fate un lavoro bellissimo” e ci ringraziano. Ma io dico: “Se non c’eravate voi, faremmo ben poco!”.
Il centro è per emergenze, per esempio una persona che ha perso il lavoro, oppure le vittime degli incendi. Si danno risposte puntuali a emergenze, e non c’è un accompagnamento prolungato. Ci sono molti centri oggigiorno, perciò il flusso è diminuito. Ma il nostro è molto apprezzato, anche perché noi rispondiamo al telefono. Altri centri non hanno il contatto diretto.
In che modo si può dire che questo servizio è un ministero di consolazione?
E’ una consolazione a doppia corsia: ricevuta e data. Io vedo per esempio la gioia delle persone che donano. E poi la gioia delle persone che ricevono, la gratitudine. E’ vero, è una goccia nell’oceano, ma per quel mese lì l’aiuto è un sollievo. Può sembrare poco, ma in quel momento la persona non si preoccupa. Negli occhi delle persone uno vede il sollievo, la gioia, la gratitudine. Ma anche quando non possiamo aiutare e diciamo “No”, però, anche solo se uno risponde al telefono e dice di no, la persona è contenta perché un essere umano le ha risposto, lo stesso quando bussano alla porta, sono fatti entrare e sono accolti personalmente.
Di recente mi è capitato di incontrare una coppia di sordomuti. Con carta e penna ci siamo comunicati. Alla fine la signora mi ha abbracciato con le lacrime agli occhi.
In questo momento, qual è la sfida più grande che dovete affrontare?
La sfida più grande è sempre la stessa, che però aumenta: l’emergenza dei migranti che continuano ad arrivare, il discorso del razzismo e della discriminazione, per il quale bisogna ancora camminare tanto.
Conciliare le diverse realtà: tensione tra bianchi e neri, tra neri e latinoamericani, e questi con i bianchi, tra i diversi gruppi di America Latina. C’è violenza, sfruttamento. C’è proprio da fare da ponte e invitare alla fratellanza.
Mi racconti un episodio di speranza
Si, anche due!
Il primo: una mamma afroamericana con sei figli suoi, dai 16 ai 7 anni di età, che porta avanti la famiglia da sola, ha adottato un settimo. Le ho detto: “Ma tu con 6 figli tuoi ne hai adottato un settimo!”. E lei mi ha risposto: “Io ringrazio il Signore che mi ha dato questa opportunità”. E’ il figlio di un’amica con grossi problemi, e lei l’ha preso come figlio suo, numero 7. L’ho ringraziata per questo gesto.
Il secondo: una mamma single, che ha un figlio quattordicenne, che da poco ha avuto un bimbo. Aveva un compagno che le ha detto di abortire, e lei ha voluto tenere il bambino. L’uomo se n’è andato. Questo bambino non era previsto, ma il Signore me l’ha dato e io l’ho accolto. Nei tempi in cui Kamala predicava il diritto di aborto, questa donna mi ha toccato profondamente. Lei ha detto di sì alla vita. L’ho ringraziata e incoraggiata, perché davanti tanti NO alla vita, trovi queste madri coraggio.