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La Croce di Cristo: Una Sfida ai Paradigmi di Forza e Sapienza

San Paolo è un gigante del Nuovo Testamento, del quale gli Atti degli Apostoli ci fanno conoscere parte della vita, e di cui risentiamo in qualche modo la voce nelle lettere, che erano quasi sempre scritti occasionali. Vale a dire che il loro autore non immaginava di scrivere dei trattati da pubblicare, ma rispondeva a problemi che gli vengono sottoposti o che gli riferiscono.

La comunità di Corinto

Ai tempi di Paolo, Corinto era una città importante e ricca. Situata in mezzo alla Grecia, occupa una sottile striscia di terra che unisce la penisola del Peloponneso al resto del continente. E quel piccolo istmo è sempre stata una tentazione per evitare alle navi il periplo della penisola, piena di scogli, mare agitato e venti forti. Se qualche anno dopo si tenterà di scavare un canale, ai tempi di Paolo i due porti della città erano uniti da una specie di linea di binari, incavati nella roccia, che permettevano a specie di vagoni ferroviari di essere trainati da un porto all’altro, per caricare poi di nuovo delle specie di container sulle navi, risparmiando così almeno una settimana di navigazione e molti pericoli.

Corinto, di conseguenza, era davvero un porto di mare, pieno di gente e di soldi di passaggio, pieno di lavoro, da quello pesante e mal retribuito a quello più redditizio ma non sempre onesto. Sempre in quegli anni, la battuta che girava nel Mediterraneo è che “non è da tutti vivere alla corinzia”, pensando a una vita fatta di instabilità e piaceri e molto dispendiosa.

In questa città, ci dice Luca negli Atti degli Apostoli (At 18), Paolo arriva dopo un’esperienza molto deprimente ad Atene, dove aveva tentato di impostare un discorso molto colto e raffinato per annunciare il Vangelo, ma si era trovato davanti ascoltatori sarcastici riguardo alla risurrezione…

A Corinto probabilmente Paolo pensava di non fermarsi a lungo, ma trova evidentemente un contesto favorevole all’annuncio. E il motivo, forse, lo spiega lui stesso.

Foto da Pixabay
Il vangelo della croce

«Quando venni presso di voi, fratelli, non venni con la pretesa di chissà quale linguaggio o sapienza nell’annunciarvi il mistero di Dio. Infatti non stimai di sapere altro tra voi, se non Gesù Cristo e lui crocifisso» (1 Cor 2,1-2).

Paolo ha appena spiegato che apparentemente la figura di Gesù non risponde alle attese del mondo.

Il mondo religioso del tempo, soprattutto per Paolo, è nettamente diviso tra “ebrei e greci”. Gli ebrei erano portatori di un messaggio religioso rivelato, che trova la propria ragion d’essere fuori dal mondo, che si muove nell’intimo della coscienza, disposto per questo a rinunciare anche a tante opportunità del mondo. Questo contesto culturale e religioso cercava conforto alle proprie rinunce e alle proprie scelte in un Dio potente che si sarebbe imposto sul mondo, mostrando la correttezza delle impostazioni di vita che richiedeva ai suoi fedeli.

I “greci”, dall’altra parte, erano coloro che, pienamente inseriti nel flusso di moda dell’ellenismo, volevano mostrarsi ed essere acuti, intelligenti, intuitivi, arguti… Come ad Atene, cercavano i ragionamenti raffinati, capaci di affascinare e stupire l’interlocutore. Non sembravano particolarmente interessati a ciò che non era mondano ed umano, lo schernivano come irrilevante (come si era sentito dire Paolo, «su questo ti sentiremo un’altra volta» (At 17,32).

L’annuncio cristiano è però la vicenda e la croce di Gesù. La croce diceva la sconfitta, la debolezza, la maledizione da parte dello stesso Dio (Gal 3,13), e non poteva che sconvolgere e sconfortare “gli ebrei”. Nello stesso tempo, però, era un discorso estremamente umano, concreto, ma che guardava oltre, che cercava il proprio senso nell’affidamento al Padre, sconfessando la pretesa di autonomia dei “greci”.

Paolo, però, rimarca che quel tipo di discorso può essere, per chi lo coglie in profondità, forte e sapiente, perché dice lo stile di Dio, che pur essendo creatore e Signore onnipotente, decide di entrare in relazione profonda e paritaria con l’essere umano, al punto da farsi come lui, accettando addirittura il passaggio più triste ed umiliante della vita umana, che è la sua fine, la sua sconfitta. È la forza di chi non ha bisogno di dimostrare di essere forte ma sa chinarsi al debole per portarlo con sé. Ed è il discorso più profondamente intelligente e saggio, perché proprio il farsi uomo di Dio dice che l’essere umano è importante, è fondamentale, è il cuore della creazione divina, è ciò che lo stesso Dio ha dovuto imparare ad essere. Dice, insomma, che tutta la ricerca umana potrà non bastare a sé stessa, ma è preziosa e ineliminabile.

In Gesù, sostiene Paolo, se guardiamo in profondità, troviamo la forza e la sapienza di Dio.

E per noi?

Potrebbe venire da chiederci che cosa dica a noi una pagina del genere e in che cosa possa esserci utile.

Se ci pensiamo bene, questi due approcci di fondo continuano a essere presenti tra noi.

Nessuno si senta offeso, ma tra noi, e addirittura in ognuno di noi continua a essere presente il “giudeo”, che pensa di essere nel giusto ad ubbidire a delle regole che non si è dato da sé, e sotto sotto spera che gli altri, i “cattivi”, vengano un giorno puniti per dimostrare che avevamo ragione noi. Una fede indossata come un’arma, a muso duro, per imporci sulla malvagità altrui. E c’è in noi anche il “greco”, che vuole essere affascinante, che in fondo non si fa guidare da Dio nelle proprie scelte anche quando si dice credente, che pensa che essere alla moda e mostrarsi intelligenti e “scafati” sia più importante delle scelte eticamente corrette.

Ad entrambi la figura di Gesù ripete che lo stile divino non è di imposizione, non è di battaglia per vincere, ma di vicinanza e ascolto, addirittura di violenza subita, se non si riesce a farsi ascoltare. Senza vendetta, senza ritorsioni (il Gesù risorto non si presenta al grido di “Avete visto che avevo ragione?”, ma ripetendo “Pace a voi”). Senza imporsi mai, sempre pronto ad accogliere e comprendere.

E, insieme, è un Gesù che non vive da solo, che si mette sempre in rapporto di fiducia verso il Padre, che accoglie la sua volontà anche quando sembra inutile restare lì, a farsi mettere in croce.

Quel Gesù crocifisso è colui che risorge, che vive per sempre, che batte anche l’ultimo nemico, la morte, senza bisogno di sterminare nessuno, di umiliare nessuno, ma sempre con la dolcezza e l’umanità di chi l’umanità la ama.

Angelo Fracchia

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