«Apparve a Zaccaria un angelo del Signore» (Lc 1,11), e un altro (chiamato per nome: Gabriele) appare a Maria. Entrambi annunciano la nascita di un bambino, inatteso da entrambe, per motivi opposti.
Sono gli angeli del Natale, di cui sentiamo nuovamente parlare in questi giorni ma che ci sono discretamente familiari. Di angeli, però, parrebbe essere abbastanza piena la Bibbia intera.
Gli angeli nella Scrittura
Sono infatti molti i passi biblici in cui si immagina Dio circondato da angeli, come se fosse attorniato da una corte regale: «mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano», riassume il profeta Daniele (7,11).
Altri angeli, però, sono più utilmente inviati a compiere diverse missioni: perlustrare la città di Sodoma prima della sua distruzione (Gen 19), consolare e indirizzare Agar (Gen 21,17), evitare che Abramo sacrifichi il figlio Isacco (Gen 22,11-18), accompagnare il popolo nell’esodo dall’Egitto (Es 14,19; 23,20.23), ma anche difendere il popolo in battaglia (Es 33,2; 2 Re 19,35). Può capitare che svolgano incarichi duri e sanguinosi, come contro i primogeniti d’Egitto (Es 12,23) o con la peste contro Israele (2 Sam 24,16-17) o contro gli assiri (2 Re 19,35), ma solitamente incarnano un intervento divino benevolo.
Nel corso del tempo si distingueranno alcuni con incarichi particolari, come funzionari di corte, i “cherubini” (1 Sam 4,4 e altri testi) e i “serafini”, cioè “gli ardenti”, di cui parla il profeta Isaia (6,2-7).
Non stupisce, allora, che li ritroviamo nel Nuovo Testamento, non solo negli annunci delle nascite di Giovanni il Battista e di Gesù, ma anche nella visione che annuncia ai pastori la nascita di un salvatore (Lc 2,13-14) e nelle parole di Gesù, oltre che nell’Apocalisse.
Sarà solo nelle apocalissi, che né ebrei né cristiani ritengono ispirate, e nelle elucubrazioni medioevali, che gli angeli diventeranno davvero miriadi, organizzati in gerarchie rigide e molti di loro chiamati per nome.
Che cosa dobbiamo pensarne? Se davvero fossero una presenza così imponente nel mondo che non vediamo, perché così tante parole sono dedicate nel Primo Testamento a Dio e all’uomo e così poche, comunque, per gli angeli? Come inserirli nel nostro quadro del mondo?
Una premessa linguistica
Prima di tutto, può essere opportuno segnalare una caratteristica delle lingue che parliamo e del modo con cui le utilizziamo.
Tutti noi, infatti, veniamo al mondo in un ambiente che è fatto anche di una lingua che gli adulti intorno a noi parlano e che, ascoltando, impariamo. E nella lingua le formule restano vive anche molto tempo dopo la loro nascita, anche quando non sono più comprese nella loro origine. Anche se ben pochi di noi hanno esperienza della vita in monastero, continuiamo a dire di “non avere voce in capitolo” (cioè di non poter parlare là dove si prendevano le decisioni, nel Capitolo monastico, appunto); non abbiamo partecipato alle aste nella Firenze del Cinquecento, eppure continuiamo a dire di “essere al verde” (come la base delle candele che, quando finivano, indicavano la fine dell’asta, e il momento di dover pagare); o continuiamo a minacciare di “fare un quarantotto” anche se non ci ricordiamo che rimanda a un anno pieno di rivolte. E gli esempi potrebbero continuare a decine.
Più seriamente, continuiamo a parlare di “testa e cuore” pur sapendo benissimo che anche i sentimenti partono dalla testa. O diciamo che “il sole tramonta”, anche se non crediamo che la terra stia ferma al centro dell’universo. Addirittura, e soprattutto in questo periodo dell’anno, possiamo consultare gli oroscopi anche senza immaginare che gli astri rappresentino divinità che condizionano il nostro futuro.
Nella lingua, infatti, continuiamo a portare i segni dei secoli che ci hanno preceduto, anche quando non ne condividiamo più le premesse. Restano parte di noi, rimangono come forme a cui non facciamo particolarmente attenzione ma che continuamo a ripetere.
Le divinità dei semiti
Qualcosa di simile succedeva anche agli autori biblici e a Gesù, che accettavano nella propria parlata delle premesse che ci possono sembrare problematiche.
Gli autori del Primo Testamento, così come Gesù e i suoi discepoli, parlavano quasi tutti lingue semitiche. Queste avevano condiviso la convinzione che tutto ciò che succede fosse causato da qualcuno di non visibile, e che quel mondo non visibile fosse organizzato in una rigida e lunga gerarchia, in cima alla quale stavano delle divinità che neppure si accorgevano del mondo. Scendendo, si trovavano gli dèi da venerare, e poi tutta una serie di intermediari, sul modello delle corti imperiali.
Da una parte questo significava che non si poteva mai arrivare a conoscere davvero il dio supremo, ma dall’altra il mondo degli spiriti era pensato sul modello della gerarchia imperiale, nella quale i funzionari non avevano libertà di decisione, compivano solo ciò che era stato ordinato dal loro capo, che ubbidiva al suo, fino ad arrivare all’imperatore. Disubbidire a un funzionario anche di rango bassissimo equivaleva a disubbidire all’imperatore in persona, e lo stesso poteva dirsi per qualunque offesa che il funzionario dovesse subire. Un po’ come ci comportiamo noi oggi con gli ambasciatori.
Anche nel mondo non visibile, quindi, si immaginavano gli angeli come intermediari senza autonomia, che si limitavano ad adempiere a degli ordini ricevuti. Si poteva quindi immaginare che l’intermediario rappresentasse chi lo aveva inviato, lo impersonasse.
Le formulazioni ebraiche
Su queste radici linguistiche, anche il mondo ebraico può riprendere l’idea di tali intermediari. Non è un caso che la parola che utilizzavano indicasse semplicemente un “messaggero”, con un nome comune che non significava niente di più. E la traduzione in greco, in effetti, “angelo”, non voleva dire nulla di diverso.
Nel mondo della Bibbia non sembra esserci particolare spazio per esseri intermedi tra Dio e il mondo, come si vede nei capitoli dedicati dalla Genesi alla creazione, dove Dio fa tutto da solo. Ma la lingua portava a parlare di questi “angeli” che, d’altronde, sarebbero stati pensati come semplici tramiti della volontà divina. E in tal modo si evitava anche di mancare di rispetto a Dio, indicandolo come troppo facilmente presente nel mondo. In ogni caso, non sarebbe cambiato nulla, perché i preconcetti semiti avrebbero facilmente fatto pensare che non ci sarebbe stata differenza tra la presenza di un angelo o del Dio che lo aveva inviato. E infatti alcuni brani biblici sembrerebbero fare confusione tra angeli e Dio: ad Abramo appare un angelo che si definisce Dio (Gen 22,15-17), così come succede in sogno a Giacobbe (Gen 31,11-13), e anche a Mosè dapprima si dice che nel roveto gli appare l’angelo di Dio (Es 3,2-6).
E quindi?
Che cosa dobbiamo allora pensare? Gli angeli esistono o no?
Possiamo fissare alcuni punti chiari. Primo, mai si immaginano esseri non visibili che possano mettere in dubbio o incrinare l’unicità di Dio, o minacciarne la potenza e la volontà. Secondo, il modo con cui gli autori biblici si esprimono risente di formule che immaginavano invece una marea di esseri invisibili. Terzo, in ogni caso quando nella Bibbia si parla di angeli si immagina Dio stesso che agisce.
È d’altronde coerente con il Dio presentato dalla Bibbia che non abbia paura di “immischiarsi” con l’umanità, entrando con essa in relazione diretta. Le formule più espressive, poetiche, narrative cercano però di spiegare in termini comprensibili ciò che accade, senza voler essere definizioni teologiche. Esattamente come un innamorato che dica alla sua amata che il suo cuore è tutto per lei, senza con ciò avanzare ipotesi cardiologiche.
Ma se ogni volta che sentiamo parlare di angeli è Dio stesso che agisce, è allora commovente immaginare Dio stesso che aspetta da Maria, con pazienza e trepidazione, il suo “sì”, per entrare più profondamente nella storia umana.
Angelo Fracchia