In preparazione alla Canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, è stato lanciato l’invito a comporre nuovi canti al prossimo santo. La risposta è stata entusiasta, e da tutte le parti del mondo sono giunte numerose composizioni musicali, e continuano ad arrivarne! Sarà un repertorio prezioso da utilizzare nel percorso che ci porterà all’altro evento significativo legato al Padre Fondatore: il centenario della sua morte, il 16 febbraio 2026. Una piccola equipe di Missionari e Missionarie ne hanno scelti due come inni della Canonizzazione: MUNGU BABA TWAKUSHUKURU KWA ZAWADI YA ALLAMANO composto da Padre Mshobolozi D. da Iringa in Tanzania. “Pregevole la melodia e l’armonizzazione per il coro. Il testo ci sembra metta in evidenza gli elementi fondamentali della spiritualità del nostro Fondatore. La melodia è semplice, litanica, immediata e può essere cantata anche camminando, anche a una sola voce” commenta l’equipe. LUZ DE SANTIDAD composto dal Colegio Santa Teresita di Mendoza in Argentina. “Testo chiaro e brillante, melodia capace di creare un’atmosfera di allegria e di festa. È interessante il fatto che sia stata composta non direttamente dai missionari/e ma da un collegio di studenti, a dimostrazione del fatto che il bene che l’Allamano irradia va molto più lontano dei confini degli istituti” Ecco i testi con traduzione e le registrazioni MUNGU BABA TWAKUSHUKURU KWA ZAWADI YA ALLAMANO Mungu Baba twakushukuru kwa zawadi hii nzuri Mtakatifu Allamano kuwa msimamizi wetu x2 1.Kaanziisha WaConsolata – Baba yetu AllamanoWamisionari kike kiume – Baba yetu AllamanoIli waende kufariji – Baba yetu Allamano 2.Nawataka watakatifu – Baba yetu AllamanoNdipo muwe wamisionari – Baba yetu AllamanoHapo mtawafariji wengi -Baba yetu Allamano 3.Kila kitu mfanye vema – Baba yetu Allamano Tena vema bila kelele – Baba yetu AllamanoYote kwa upendo wa Mungu – Baba yetu Allamano 4. Mpende sana litrujia – Baba yetu Allamano Litrujia ya Ekaristi – Baba Yetu AllamanoImani yenu ikakuzwe – Baba yetu Allamano 5.Biblia kitabu chenu – Baba yetu Allamano Somo lenu la kila siku – Baba yetu AllamanoLa kujenga mioyo yenu – Baba yetu Allamano 6. Maria ndiye Mama yenu – Baba yetu Allamano Tena Maria wa Consolata – Baba yetu Allamano Igeni unyenyekevu wake – Baba yetu Allamano 0:00 / 0:00 MUNGU BABA TWAKUSHUKURU KWA ZAWADI YA ALLAMANO TRADUZIONE: Dio padre ti ringraziamo per questo bel dono che Sant’Allamano sia il nostro Patrono Lui ha fondato la famiglia Consolata – padre nostro AllamanoI missionari e le missionarie – padre nostro Allamanoperché possano andare a consolare – padre nostro Allamano. Vi voglio santi – padre nostro Allamanocosì potete essere missionari – padre nostro Allamanoe così consolerete tanta gente – padre nostro Allamano Fate bene ogni cosa – padre nostro Allamanoma fatelo senza rumore – padre nostro Allamanotutto per l’amore di Dio – padre nostro Allamano Amate le liturgia – padre nostro AllamanoLa liturgia dell’Eucaristia – padre nostro Allamanovi aiuterà la crescite della fede – padre nostro Allamano La Bibbia sia il vostro libro – padre nostro Allamanoleggetela tutti i giorni – padre nostro Allamanofarà crescere la vostra anima – padre nostro Allamano Maria è la vostra Madre – padre nostro Allamanoin modo speciale Maria Consolata – padre nostro Allamanoimitate la sua umiltà – padre nostro Allamano LUZ DE SANTIDAD Allamano padre y maestro ,Tú nos enseñaste a caminarjunto a María Consolatapara evangelizar. Tu amada Madre CelestialTe guió para que mostraraslo maravilloso delamor de Dios a toda la humanidad. San José Allamano, tú eresLuz de Santidad,guíanos en nuestro caminar. Allamano , padre fundadorno permaneciste en Turíntuvo tu presencia la Amazoniacuando Sorino te necesitóallí estabas haciendo un milagrocon verdadera humildadcon corazón misioneropleno de esperanza y caridad. San José Allamano, tú eresLuz de Santidad,guíanos en nuestro caminar. Nuestro mundo elige hoy tus virtudes y tu amor.Toda tu obra vive aquíPor toda la eternidad. 0:00 / 0:00 LUZ DE SANTIDAD Allamano, Padre e MaestroTu ci insegnasti a camminareCon María ConsolataPer evangelizzare.La tua amata Madre CelesteTi guidò per rivelareLa bellezza dell’amore di Dio per tutta l’umanità. San Giuseppe AllamanoTu sei luce di Santità,Guidaci nel nostro cammino. Allamano, Padre FondatoreNon rimanesti in TorinoIn Amazzonia eri presenteQuando Sorino ti necessitòLà stavi facendo un miracoloCon vera umiltàCon cuore missionarioColmo di speranza e carità. San Giuseppe Allamano Tu sei luce di santità,Guidaci nel nostro cammino. Il nostro mondo sceglie oggiLe tue virtù e il tuo amore.Tutta la tua opera vive quiPer tutta l’eternità.
Cuore di Padre: Giuseppe Allamano formatore di Missionarie
Suor Melania Lessa riporta un ricordo di vivo di Suor Tecla Imboldi, missionaria della Consolata del gruppo fondante. Durante un tempo di vacanza a Sant’Ignazio, un gruppo di giovani suore non ubbidì alle indicazioni del Fondatore e visse un momento di pericolo in aperta montagna. Come reagì Giuseppe Allamano, l’uomo che insegnava l’obbedienza e la viveva radicalmente? Scoprilo nel video:
Giuseppe Allamano, “Uomo di carità squisita”
Noi sappiamo che gli esseri umani puntano generalmente il loro interesse verso tre diverse realtà che considerano “valori” della vita: il possesso dei beni e la potenza; la conoscenza e la scienza; l’amore e la bontà. Il cristianesimo mira a questo terzo livello di valori. Giuseppe Allamano, sacerdote torinese e rettore del celebre Santuario della Madonna Consolata, fin dalla sua giovinezza impara a indirizzare il suo vivere cristiano verso ciò che il vangelo indica come nucleo fondamentale: amare Dio e il prossimo con tutto il cuore. Glielo insegna la mamma Marianna (sorella di S. Giuseppe Cafasso) quando incarica il suo Giuseppe di portare cibo o vestiti alle persone più bisognose del borgo di Castelnuovo d’Asti in cui la famiglia Allamano vive. Studente in Seminario a Torino, lascia scritto nel suo Diario spirituale: “Farò continui atti di distacco e frequenti piccole elemosine”. Da giovane sacerdote, le “piccole elemosine” diventano “grandi elemosine” a favore di innumerevoli persone bisognose, come scriverà il suo primo biografo, P. Lorenzo Sales. Infatti le sue elargizioni assumono con il passare del tempo orizzonti sempre più vasti. Dovunque scorge una necessità, nel limite del possibile, interviene con aiuti concreti, anche cospicui. Aiuto fraterno ai sacerdoti Uno dei primi impegni del giovane sacerdote Allamano è nel Convitto Diocesano, attiguo al Santuario della Consolata, dove studiano i giovani sacerdoti prima di iniziare il ministero pastorale parrocchiale. Egli ne è il Rettore e come un buon padre di famiglia sente il bisogno di intervenire a integrare la quota che ogni convittore doveva pagare. Lo fa in maniera molto discreta e da essi esige poi il segreto: “non dire niente a nessuno!” Attesta un sacerdote convittore: “Nei miei due anni di Convitto ecclesiastico tutti i mesi l’Allamano pagò del suo peculio per me L. 10 di pensione e quello che fece per me, posso ben credere che l’abbia fatto con altri miei compagni che non si trovavano in finanze floride” (Mons. Emilio Vacha). Allo stesso tempo il Rettore del Convitto non manca di formare i giovani sacerdoti a crescere nello spirito di carità. Dopo il terremoto di Messina del 1908, l’Allamano incoraggia i suoi sacerdoti a intervenire generosi nell’aiutare la gente colpita da quell’immane tragedia. Si congratula poi con loro per la generosità che hanno dimostrato in quella circostanza, stimolandoli ad essere sempre generosi e attenti a chi è nel bisogno. Apertura verso i poveri della città L’assorbente lavoro nel Santuario della Consolata e nel Convitto non impedisce all’Allamano di rispondere alle numerose richieste che gli giungono da ogni parte. È quello il tempo in cui Torino sperimenta una forte immigrazione di gente dalle campagne piemontesi in cerca di una vita migliore. La loro situazione di vita è molto precaria e i salari sono da fame. Il Canonico Allamano si lascia interpellare dalle richieste che giungono dai poveri che frequentano il Santuario. Attesta il Canonico Cappella, collaboratore dell’Allamano nel Santuario della Consolata: “Pagava la pigione a tante buone vecchierelle. A tanti poveri ammalati procurava lui stesso le medicine e qualunque cosa potesse tornare loro di sollievo; a qualcuno procurava anche un periodo di cura balneare, pagando del suo l’occorrente pensione. Particolare compassione dimostrava verso le famiglie decadute. So di una famiglia a cui passava più di mille lire al mese, per anni ed anni, affinché potesse avere il pane necessario, non solo, ma potesse pure mantenere un conveniente decoro. Altre volte mandava il suo domestico a portare aiuto ai poveri delle soffitte che erano suoi penitenti o erano stati a lui particolarmente raccomandati”. Collaborazione ad attività e iniziative sociali L’Allamano è pure molto attento alle iniziative sociali che sorgono all’interno della Chiesa torinese. Il giornalismo cattolico è da lui particolarmente privilegiato con aiuti concreti. Basta ricordare il sostegno dato alle pubblicazioni cattoliche torinesi, quali: “L’Italia Reale”, “Il Momento”, “La voce dell’Operaio”. Scrive Elio D’Aurora, autore di una piccola biografia dell’Allamano: “L’Allamano concorre pure alla fondazione del più famoso giornale cattolico europeo: “La Croix”. Pierre l’Ermite, che mi onora con la sua affettuosa amicizia, mi ha ricordato recentemente a Parigi un aneddoto in merito al Padre Bailly, fondatore del quotidiano cattolico francese. Quando mi parlava degli italiani, Bailly aveva parole di commozione per il Can. Allamano, Rettore della Consolata: Ai piedi dell’altare della Madonna mi è nata l’idea del titolo ‘La Croix’”. Al “Laboratorio della Consolata” l’Allamano offre la sua attiva collaborazione sotto forma sia di consigli sia di aiuti finanziari. Questo laboratorio, nato per iniziativa delle sorelle Franchetti, aveva lo scopo di sostenere le innumerevoli sarte, venute a Torino, che lavoravano in situazioni socialmente poco agevoli e moralmente esposte a pericoli. Attesterà la signorina Teresa Franchetti: “Il laboratorio della Consolata vuole pure far conoscere l’imperitura sua riconoscenza al Venerato Canonico Allamano, che fu per più di 20 anni il consigliere illuminato del Laboratorio, il benefattore generoso, sia nell’ordine temporale, sia in quello spirituale”. Le biografie dell’Allamano menzionano inoltre il contributo pecuniario da lui dato a favore di altre opere sociali che nascevano nella città di Torino come un Istituto per persone cieche, l’Oratorio S. Felice e altre opere a favore della gioventù. La Provvidenza Divina in aiuto alle missioni La carità dell’Allamano fa un salto di qualità con la nascita degli Istituti dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. Per rispondere alle ingenti spese della fondazione dei due Istituti sia in Italia che in Africa, l’Allamano elargisce tutto quanto possiede, mentre allo stesso tempo in lui cresce una grande fiducia nella Provvidenza e nella Madonna Consolata. Ripeteva ai suoi missionari: “per le spese ingenti dell’Istituto e delle missioni non ho mai perduto il sonno e l’appetito. Lascio l’incarico alla Consolata, dicendole: Pensaci tu! Se fai bella figura, sei tu!”. Dimostra questa fede nella Provvidenza quando si tratta di costruire la Casa Madre. G. Piovano narra un curioso episodio: “Durante la costruzione della Casa Madre, una volta si trovò in difficoltà a saldare una somma rilevante. L’impresario la richiedeva per il sabato seguente. Era mercoledì, e l’Allamano assicurò: Adesso non l’ho e non saprei nemmeno dove prenderla. Però, vi è ancora oggi,
Giuditta, la forza nella fragilità
Ci sono libri che non capiamo bene che cosa ci facciano nella Bibbia, e che infatti si leggono abbastanza di rado. Eppure, anche quelli hanno inteso comunicare un messaggio… Uno di questi libri prende il nome dalla protagonista, Giuditta. Una finzione storica È una figura che forse conosciamo più dai quadri che dal libro biblico, perché la sua storia, molto violenta e sensuale, si prestava a una resa artistica senza poter essere accusati di immoralità, dal momento che si metteva in scena un racconto della Scrittura. Il libro, in realtà, fa parte delle aggiunte greche alla Bibbia ebraica, benché il tema si presti a esaltare l’orgoglio ebraico. Si racconta infatti che l’assiro Nabucodonosor, irritato dalla mancata collaborazione di tutte le popolazioni del Vicino Oriente contro Arfacsad, re dei Medi che si era ribellato a lui, decide, dopo aver soggiogato il ribelle, di castigare tutte le altre popolazioni saccheggiandole e sterminandole. Oloferne, generale dell’esercito e secondo in grado nell’impero, arrivando nella regione di Israele, viene informato da Achior, comandante degli ammoniti, che gli ebrei erano difesi da Dio e non sarebbe stato possibile batterli. L’affermazione è particolare, perché gli ammoniti sono sempre stati nemici degli ebrei. Oloferne, però, ribatte: «Chi è dio se non Nabucodonosor?» (Gdt 6,2). Legato Achior, lo deposita alle porte di Betulia, città fortificata degli ebrei, che poi provvede ad assediare. I particolari storici sono intenzionalmente inventati, e qualunque lettore minimamente informato sulla storia del Vicino Oriente lo avrebbe facilmente capito: Nabucodonosor era stato un imperatore babilonese e non assiro, mentre il contesto imperiale ritratto, e il nome di Oloferne, sembrano rimandare ai persiani. I nomi ebraici citati sono vissuti in altri tempi o sono sconosciuti. La stessa protagonista, il cui nome potrebbe semplicemente significare “giudea”, riceve la più lunga genealogia riservata a una donna nel Primo Testamento (Gdt 8,1), ma con nomi che ci sono quasi tutti sconosciuti. In più, non è mai esistita nessuna città ebraica che si chiamasse Betulia. L’autore, però, non è uno sprovveduto: piuttosto, fa come chi oggi inventa una storia ambientandola in un medioevo mezzo inventato, per situarla in un passato impreciso ma evocativo e intanto raccontare una vicenda che possa parlare delle dinamiche umane che si danno sempre. Sempre, pare dirci, il potere assoluto si fa dio e trascura anche i consigli più avveduti, procurandosi la rovina. Nello stesso tempo, finché qualcuno non decide di contrapporsi a quel potere, quello sembrerà invincibile. Picture by Gustave Dore-The Holy Bible Judith showing the head of Holofernes Lo scontro Quando Oloferne arriva davanti a Betulia, sono i nemici tradizionali di Israele, ossia idumei, moabiti e “abitanti della costa”, a suggerire il da farsi: non attaccare la città, che è ben difesa dai monti (sembra la posizione di Gerusalemme…), ma assediarla e prendere possesso della sorgente che porta l’acqua all’interno delle mura, così da costringere gli assediati a morire di sete. E così accade: dopo trentaquattro giorni gli abitanti del paese chiedono al re Ozia di aprire le porte: meglio finire schiavi che morire. Il re chiede ancora cinque giorni di pazienza, dopo di che, se non accadrà nulla, si consegneranno al nemico. È a questo punto che entra in scena Giuditta, rimproverando i capi della città di aver voluto mettere alla prova Dio, con il dare un termine entro il quale avrebbero atteso la liberazione o si sarebbero arresi, e garantendo che entro quel termine lei avrebbe procurato l’intervento divino. Di Giuditta ci era stato detto che era vedova da poco più di tre anni, ricca e molto bella, e che non si era voluta risposare pur non avendo figli (contravvenendo quindi alla legge del levirato…), ma che aveva vissuto nel lutto e nella penitenza, esclusi i giorni di festa religiosa. Stavolta, però, si veste e agghinda in modo da mostrare tutta la propria bellezza prima di presentarsi all’accampamento di Oloferne. A lui spiega che in effetti lo sterminato esercito assiro non potrebbe aver ragione di Betulia, perché efficacemente difesi da Dio, se solo i suoi abitanti continuassero a rispettare le norme alimentari che però, con la carenza d’acqua, stanno già violando. In più, avrebbero chiesto a Gerusalemme la possibilità di nutrirsi dei beni sacri. Nel momento in cui inizieranno a farlo, dichiara Giuditta, non potranno più resistere di fronte all’esercito di Oloferne. Il comandante le crede e in più resta sedotto dalla sua bellezza, in modi molto maschilisti e grevi: «Sarebbe disonorevole per la nostra reputazione se lasciassimo andare una donna simile senza fare sesso con lei» (Gdt 12,12). Per questo la invita a una cena con l’intenzione di ubriacarla, ma finisce con il bere più di lei e con l’essere vinto dal sonno. È a questo punto che Giuditta, che aveva ricevuto l’autorizzazione di muoversi nell’accampamento nemico, penetra nella stanza del generale e lo decapita con la sua spada. Quindi ritorna a Betulia con la testa di Oloferne che, mostrata dalle mura della città, getta il panico nell’esercito avversario, che viene quindi assaltato e disperso. Il senso Perché raccontare una storia del genere, lunga e piena di violenza, inganni e ambiguità? Giuditta viene presentata come una donna modesta, rispettosa delle consuetudini di vedovanza e delle regole religiose. Nello stesso tempo, però, pare quasi distaccata dalla sorte dei suoi concittadini (non si era accorta della scarsità d’acqua?) e non si premura di fornire una discendenza al marito morto, secondo la legge del levirato. Quando poi si presenta davanti a Oloferne, dichiara di rispettare le norme religiose, ma si abbiglia e presenta come una donna disponibile a essere sedotta. Chi scrive questo libro, insomma, pensa certamente alla sorte di un popolo che si sente oppresso e assediato, intende difendere la sua autonomia e il suo legame con il Dio dei padri, ma pare anche insistere sul fatto che la fedeltà più autentica passa dall’intimo del cuore, dalle intenzioni più che dalle forme esteriori, che possono anche essere ambigue o non perfette. Nel racconto del libro si potrebbe addirittura dire che l’intervento salvifico di Dio non c’è (l’esercito assiro non viene sterminato da una
Il miracolo di Sorino Yanomami e l’opzione per i popoli indigeni
Per i Missionari e le Missionarie della Consolata in America, il riconoscimento del miracolo di Sorino Yanomami per intecessione del Beato Giuseppe Allamano ha un significato molto particolare: è il sigillo, la conferma di un’opzione che assunsero negli ultimi decenni e che caratterizza la missione nel continente: la missione con i popoli indigeni. Perché questa opzione? Perché si può dire con chiarezza oggi che l’ad gentes in America trova piena espressione in questa scelta apostolica? Per rispondere a queste domande, ripercorriamo a grandi linee la storia del movimento indigenista e il ruolo della Chiesa accanto ai popoli nativi. Un movimento che dà voce a chi non ha voce Il movimento indigenista in America Latina sorge attorno agli anni Settanta, quando si formano organizzazioni che agglutinano persone che si riconoscono in un’appartenenza etnica, più o meno direttamente (in Ecuador: la federazione SHUAR è una delle prime, fondata nel 1961, raggruppa popoli amazzonici; CRIC è un’associazione dei popoli andini della Colombia; il movimento katarista nella Bolivia andina e il CIDOB nell’area amazzonica). Prima d’allora, se escludiamo il caso dei Mapuche in Cile, che sempre sottolinearono l’elemento etnico, le organizzazioni popolari nei vari paesi latinoamericani si riunivano generalmente come associazioni rurali. Questo cambio di rotta è significativo: oltre al riconoscersi come un gruppo sociale di estrazione popolare, i membri di queste associazioni iniziarono a sottolinerare l’aspetto etnico, cambiando anche la prospettiva dei problemi e delle rivendicazioni. Un esempio molto significativo è la rivendicazione della terra, un problema sociale spinoso fino al giorno d’oggi in America Latina: molte persone si vedono private del diritto di possedere terra per coltivare, concentrata nelle mani di pochi latifondisti. Nel corso della riflessione e della rivendicazione, oltre a parlare di diritto alla terra, si inizia a considerare il territorio, che è un concetto molto più ampio e complesso. Il territorio non si riferisce solo a un’estensione geografica riservata a un gruppo etnico-sociale, ma contempla diversi punti di riferimento che un determinato spazio contiene: quelli simbolici, significativi per la cosmovisione del popolo e per la religiosità del gruppo (esempio: montagne o altri luoghi considerati sacri, per la presenza di spiriti o degli antenati, i luoghi di culto, tutto ciò che costituisce la “geografia simbolica” o “geografia sacra” di un popolo) come anche quelli produttivi per la vita concreta di lavoro e produzione (foresta, fiumi e laghi per la caccia, la pesca, il raccolto dei frutti, i campi per coltivare). Il momento storico che stava vivendo gran parte dell’America Latina era molto particolare: il movimento indigenista nasce durante il tempo delle dittature militari di estrema destra, che riducevano la libertà e opprimevano le classi più umili, a favore di un’oligarchia minoritaria. Sappiamo le atrocità commesse in tanti Paesi (i desaparecidos, cioè le persone scomparse, le torture, gli esili…) e i tanti martiri anche tra gli indigeni che furono trucidati per l’opposizione manifestata alla politica repressiva e oligarchica. Nello stesso periodo inizia la migrazione dalle aree rurali alle città di un consistente numero di famiglie; la conseguente urbanizzazione di masse di contadini per un certo verso facilita l’organizzazione e il reclutamento di membri per le nascenti organizzazioni indigene. L’apporto della Chiesa e di altre istituzioni Un aiuto grande per l’organizzazione di questi nuovi movimenti fu dato dalle ONG, sempre più presenti e vicine alle realtà locali. Si tratta di istituzioni di diversa posizione politica/ideologica/religiosa: dai “verdi” che iniziano a battersi per la difesa dell’Amazzonia, a ONG di stampo cristiano (inclusa la Chiesa cattolica), passando per una numerosa serie di altre posture ideologiche, inclusi i movimenti di sinistra estrema e moderata. Sono proprio queste organizzazioni internazionali che promuovono la formazione di leader locali a livello universitario che assumono quindi un ruolo da protagonisti nei negoziati tra Stato e movimenti indigeni. Negli anni Ottanta, con il graduale ritorno alla democrazia, il movimento indigenista continua le negoziazioni con i nuovi governi, fino ad ottenere importanti risultati, in modo speciale la riforma delle Costituzioni nazionali, in cui vengono inseriti articoli che riconoscono i popoli indigeni e i loro diritti (diritto alla terra, diritto all’istruzione bilingue…). E così la Chiesa cattolica, e in essa i Missionari e Missionarie della Consolata, che stette al fianco dei fratelli e sorelle nativi nella fatica della rivendicazione, potè condividere con loro anche la gioia immensa che diede questo risultato. Per quanto riguarda il Brasile, il 19 aprile 1989 fu creato il Coordinamento delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia Brasiliana (COIAB), un’organizzazione regionale del movimento indigeno che fa parte dell’Articolazione nazionale dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB) con 75 organizzazioni membri. In questo breve scorcio della realtà dell’ America Latina negli Anni Settanta/Ottanta/Novanta, possiamo adesso inserire le scelte che i Missionari e le Missionarie della Consolata hanno assunto, focalizzandoci sulla presenza consolatina in Roraima, stato del Nord de Brasile, in piena area amazzonica. L’opzione dei popoli indigeni dei Missionari e Missionarie della Consolata Le Missionarie della Consolata arrivarono in Roraima nel 1949, mentre i confratelli erano già arrivati nel 1948. Nei primi decenni le attività principali si svolgevano nel campo della sanità, dell’educazione e dell’assistenza sociale nella città di Boa Vista. Nell’epoca precedente il Concilio Vaticano II, i Missionari e le Missionarie visitavano l’area rurale per la “desobriga”, ovvero: per amministrare i Sacramenti e permettere a tutti i cristiani di confessarsi e fare la comunione almeno una volta all’anno per Pasqua, secondo il precetto della Chiesa. I Missionari della Consolata arrivano a Catrimani nel 1965. Già negli Anni Settanta le Sorelle raggiungevano l’area Yanomami per assistenza sanitaria; è nel 1990 che le Missionarie si stabiliscono come comunità in Catrimani, condividendo la vita con il popolo Yanomami e lavorando in modo speciale nella sanità e nell’educazione, insieme ai confratelli. La decisione di aprire questa comunità è stata presa come “ringraziamento per la beatificazione di Giuseppe Allamano, il Padre Fondatore”, che proprio quell’anno veniva beatificato. La scelta di vivere insieme ai popoli indigeni è stata abbracciata in diverse realtà dell’America Latina: per quanto riguarda le Missionarie della Consolata, nel 1991 in Bolivia aprono la presenza a Poopò con il popolo quechua e a Tencua, con il
20 anni di missione in Gibuti
Il 15 settembre 2024 le Missionarie della Consolata hanno compiuto 20 anni di missione in Gibuti. Per l’occasione proponiamo un’intervista a Suor Grace, missionaria della Consolata keniana, da 13 anni nel piccolo stato del Corno d’Africa, e un video celebrativo, dove le Sorelle della comunità attuale ci raccontano il significato di questa presenza ad gentes in un contesto totalmente musulmano. Suor Grace, raccontaci la tua vita missionaria in Gibuti Nei miei 13 anni di missione Gibuti ho fatto un’esperienza molto positiva in mezzo ai musulmani, sono persone diverse da me. Quando sono arrivata, ho faticato a comunicare in francese, ma poi, superato lo scoglio della lingua (ho imparato anche il somalo, che è la lingua più diffusa in Gibuti). Lavoro nell’ospedale con i malati, anche nella scuola: c’è accoglienza da parte della gente. Non possiamo “evangelizzare”, anzi: la gente si preoccupa perché noi non ci convertiamo all’Islam! Ma io sento che, mentre lavoriamo e stiamo con la gente, l’importante è che condividiamo la nostra esperienza di Dio. Non possiamo vedere il frutto. Ma dalle moschee, sentire la voce del muezin che invita alla preghiera, mi dà gioia, sento che sono a Gibuti come Missionaria della Consolata 13 anni sono molti! Non mi è mai venuto meno l’entusiasmo e l’energia di stare in Gibuti. Ci sono sfide, non ci sono cristiani, non possiamo proclamare la Parola di Dio apertamente, ma noi parliamo del Vangelo con le nostre vite e il nostro lavoro. Per esempio, i bambini disabili, di solito sono rifiutati dalla famiglia. Ma nella missione li acogliamo, vogliamo loro bene, e destiamo quindi domande nella gente: perché fate questo? Così nell’ospedale: ci sono persone accantonate, ma noi le serviamo e abbiamo cura di loro. Allora la gente capisce che lo facciamo per Dio, anche se continuano a rimanere nella fede incrollabile di Allah. Ma sono sicura che non ho perso il mio tempo a Gibuti! Quando sei entrata in Istituto, pensavi di ricevere una missione come questa? Non avrei mai pensato che avrei vissuto in paese musulmano. Per me era chiaro che sarei uscita dal mio Paese, il Kenya, ero pronta per questo, per andare in America, in Asia… ma… non pensavo proprio di andare in un Paese musulmano! Eppure, dapprima l’Istituto mi aveva destinato alla Libia, paese in cui non sono riuscita ad entrare; quindi, Gibuti: i Paesi musulmani mi inseguono! Quello che vedo, è che bisogna essere preparate per la missione nel mondo islamico: ci vuole tempo e riflessione. Studio ed esperienza. Nel momento del Ramadan, per esempio, mentre la gente fa digiuno, non si può mangiare o prendere acqua davanti a loro: è una forma di rispetto. Sono piccole cose che si imparano nella vita di ogni giorno. Anche sbagliando. Pensi che sia possibile il dialogo con il mondo musulmano? Per me è possibile, ma prenderà tempo. Sono persone con cui si può dialogare, ma bisogna vedere che tipo di dialogo. Un dialogo tra grandi, a un tavolo, penso sia difficile. Noi realizziamo il dialogo nel silenzio: per esempio, i giovani che vengono nella nostra scuola di alfabetizzazione, molte volte non hanno speranza per il futuro. Con gli anni, costruiamo insieme possibilità, e loro riconoscono il valore di questo servizio. Per noi è il valore della vita il punto centrla del dialogo che costruiamo con i musulmani: cerchiamo tutto ciò che ci unisce. Noi con la vita cerchiamo di fare piccoli passi. Oggi sta entrando tanto radicalismo Si, i maestri delle scuole coraniche, che provengono dall’Arabia Saudita, inculcano idee di odio verso i cristiani. Nella scuola cerchiamo di riprendere i valori, ma è difficile, perché hanno molta influenza sui bambini e giovani. Molti ci rispettano, rispettano il nostro discepolato verso Gesù Cristo, anche se lo considerano solo un profeta. Un altro punto che la gente fa fatica a comprendere, è che noi suore africane non siamo musulmane e non abbiamo marito e figli. Nella promozione della donna, insegnamo taglio e cucito, ma nel dialogo cerchiamo di far capire che le donne non hanno solo il dovere di procreare, sono persone che bisogna rispettare. Guarda il video
Beata Leonella, vera figlia dell’Allamano
Sr. Leonella Sgorbati ha sempre avuto con il Beato Giuseppe Allamano un legame di Padre-Figlia. Un rapporto profondo fondato sulla certezza che Lui era veramente Padre e che la sua Parola orientava la sua vita. Questo vincolo ha raggiunto una maggior profondità nel mese allamaniano che Sr. Leonella ha vissuto a Castelnuovo in febbraio 2006. In questo mese approfondendo la vita e la Parola dell’Allamano è riuscita a intuire e a immergersi nella profondità spirituale di Padre Fondatore e a confrontare la sua vita con quella di Lui. I suoi diari ci svelano quanto questo percorso ha inciso nella sua vita e nel dono di sé descrivendoci la giornata di preghiera vissuta nella Chiesa del Fondatore il 15 febbraio 2006. Sul sarcofago dell’Allamano Leonella ha detto il suo sì alla chiamata al dono della vita che in quei giorni il Signore gli aveva fatto sentire con insistenza. Ha pregato così Sr. Leonella: «Padre eccomi qui…a 80 anni della Tua entrata in Paradiso… Uomo di Dio, Uomo fedele, uomo del Dio solo. Tu non hai avuto paura di seguire il Signore sulla strada della sequela. Eccomi qui, appoggiata alla Tua tomba… Tu santo Fondatore della mia Famiglia aiutami a dire il mio sì… Qui su questa tomba di gloria io ti prego: Donami la grazia della sequela vera della perseverante sequela. Donami di donare nella verità la mia vita con Lui… ogni giorno…momento per momento con fedeltà – verità – in reciprocità, totale unione, per “Cristificare” “umanizzare” … Concedimi questa grazia, compi questo miracolo. Questo il dono che ti chiedo: di essere veramente tua figlia nella sequela di Cristo. Nella unione a Gesù Eucarestia. Mi consacro qui nelle Tue mani rinnovando i miei voti al Signore». Anche la sua relazione con la Consolata era mediata dall’Allamano perché attraverso questo rapporto Leonella si è immersa nella profondità del legame che il Beato Giusepe Allamano aveva con Maria. Ultima foto di Suor Leonella, al suo arrivo a Mogadiscio Scrive Leonella nel suo diario il 16/2/2006: «Il Fondatore contemplando la Consolata intravedeva “la Donna dell’ascolto…” che comprende…, che non lascia fuori nessuno perché la Consolata ti accoglie dentro il suo sguardo… ti capisce… . Maria sposa è Madre, Donna dell’accoglienza. Maria è accoglienza della persona, di ogni persona. Nessuno si sente a disagio con la Consolata. Questa relazione materna è la strada maestra, la via regale della Consolazione. Queste sono le qualità che noi Missionarie dovremmo avere. Il Fondatore guardando la Consolata vedeva noi… con queste caratteristiche di Maria: finezza, attenzione, rispetto…. Accoglienza… Oggi io sono chiamata a essere la “dimora della consolazione” dove la gente possa sperimentare la Consolazione. È la nostra spiritualità Mariana, voluta per noi da Padre Fondatore.» Tutta la vita Religiosa Missionaria della Beata Leonella ha avuto questo particolare tocco di adesione totale al progetto pensato per le sue figlie missionarie dall’Allamano. Possiamo affermare con certezza che la vita e il cammino spirituale della Beata Leonella è stato tracciato sulla falsa riga della vita e della spiritualità dell’Allamano. In Lui ha trovato l’indicatore sicuro verso l’amore totale, verso il dono di sé, verso quel sogno che Giuseppe Allamano aveva desiderato per le sue figlie. sr. Renata, mc
Chi è Giuseppe Allamano nella mia vita
Missionari e Missionarie della Consolata aprono il cuore e condividono la presenza del Beato Giuseppe Allamano, Padre e fondatore della famiglia Consolata, nelle loro vite. Giuseppe Allamano: padre e maestro, anche nelle lettere! Padre Giuseppe Inverardi, missionario della Consolata in Tanzania, sente Giuseppe Allamano come un padre e un maestro. Lo era nei confronti dei primi missionari, ai quali scriveva lettere cariche della sua paternità, e lo è anche oggi per ciascuno dei suoi figli. Giuseppe Allamano: un padre per la missione Ascoltiamo Suor Nicoletta Marete, missionaria della Consolata in Kenya. Giuseppe Allamano è PADRE PER LA MISSIONE, con una visione ampia, che precede i suoi tempi.
Scintille che ardono e illuminano. Conferenza della Regione Europa
Si è svolta a Torino, nella Casa Madre dell’Istituto Suore Missionarie della Consolata, la VI Conferenza della Regione Europa, a cui hanno partecipato 23 Sorelle, in rappresentanza di tutte le comunità in Italia e Portogallo. La Conferenza è un’assemblea decisionale molto importante, che segna il cammino delle comunità della Regione, attuando le linee che il Capitolo generale (celebrato nel 2023) per i prossimi sei anni. Il tema della Conferenza della Regione Europa riprende l’immagine del fuoco, che ha accompagnato il Capitolo generale: “Scintille che ardono e illuminano”. La scintilla è un fuoco piccolissimo, che deriva da un fuoco più grande, ma, seppur piccolo, può illuminare. E’ un’icona eloquente per descrivere la realtà della Regione Europa, composta per la maggior parte da Sorelle anziane e malate, ma che, anche nella fragilità, sono una presenza viva del Carisma missionario e dell’offerta della propria vita per il mondo intero. Davvero durante gli incontri e le riflessioni, è apparsa la presenza di piccole ma numerose scintille nella Regione, e la gratitudine è stata grande! Durante la Conferenza è stata eletta la Direzione regionale che guiderà le comunità in Europa per i prossimi sei anni: SUOR GENEROSA IRERI IRUMA, kenyana, Superiora regionaleSUOR ALESSANDRA PULINA, italiana, Consigliera regionaleSUOR GIOVANNA PANIER BAGAT, italiana, Consigliera regionaleSUOR MARGARITA DEL SOCORRO BEDOYA GARCIA, colombiana, Consigliera regionaleSUOR JOFRIDA SIMON NZASULE, tanzaniana, Consigliera regionale L’Assemblea ha quindi riflettuto sulle linee programmatiche per il sessennio entrante, considerando i seguenti ambiti: – piccolezza e corpo unico e unito: in profonda comunione con tutto l’Istituto, la piccolezza e l’unione del piccolo corpo, che è la congregazione, si tracciano cammini personali e comunitari per vivere la piccolezza come una benedizione e per saldare sempre più legami di unione tra tutte le Missionarie della Consolata. – cura delle Sorelle fragili: uno sguardo colmo di tenerezza, amore e riconoscenza verso le Sorelle anziane, uno sguardo che considera la persona in tutte le sue dimensioni: fisica, spirituale, psichica. Uno sguardo, cioè, che punta al bene maggiore verso le sorelle fragili; – economia di comunione: la riflessione sull’amministrazione apre l’orizzonte alle nuove economie e a uno stile di vita sobrio e sostenibile, per la cura della Casa Comune. – Carisma e missione in Europa: sono considerati tre ambiti di azione: l’Animazione Missionaria Vocazionale, la Pastorale Migranti e la Comunicazione. AUGURIAMO BUON CAMMINO A OGNI SORELLA!
Caino, il primo assassino
I primi tre capitoli della Genesi presentano l’immagine dell’uomo così come è pensata dai saggi religiosi di Israele. In questa presentazione spesso si taglia fuori il quarto capitolo, che pure è come una conseguenza. L’essere umano era nella piena comunione con Dio, ne ha diffidato e ha iniziato a diffidare innanzi tutto della donna, “osso delle mie ossa” che gli era accanto. Ma le conseguenze della sfiducia non finiscono lì, hanno portato alla frattura tra Dio e la natura (Gen 3,17) e conducono alla stessa sfiducia tra fratelli, che sfocerà nel primo omicidio. Iniziare a diffidare di Dio porta a non riconoscere più il fratello come fratello. Ma quel capitolo, come spesso succede, è ancora più ricco e profondo di quanto non sembri. Antefatto L’Israele che scrive la Genesi è un popolo sedentario, che però continua a rimpiangere i tempi antichi in cui era pastore e nomade. Quindi, quando parla dei nomadi, pastori, raccoglitori e cacciatori, li guarda con una certa simpatia, mentre se pensa ai costruttori di città, artigiani e coltivatori, li sente più infidi. Questo serve a dire che già nella presentazione dei personaggi, ci si aspetta che Caino sia il cattivo. La sensazione (sbagliata) che il racconto sia “ingenuo” come i vecchi western prosegue nei versetti 3-5: Dio “gradisce” l’offerta di Abele e non quella di Caino: perché? Il lettore moderno si chiede perché Dio sia così ingiusto. Ma in realtà è una domanda che si fa anche il lettore antico, è un interrogativo che il narratore vuole che ci facciamo, per scomodarci, per costringerci a prendere posizione. Un po’ come, nel vangelo di Luca, la parabola del padre buono (o del figliol prodigo: Lc 15,11-32), dove è l’ultima parte a non finire, a dare fastidio e a essere il cuore della parabola: che cosa farà il fratello maggiore? È il lettore a doverlo decidere, e la parabola vuole proprio rivolgersi ai “fratelli maggiori” della chiesa, sicuramente buoni e a posto ma chiamati a porsi con Dio in un rapporto non di schiavitù. Anche qui, la domanda passa al lettore, che in fondo si può identificare con Caino: perché Dio dovrebbe accettare un’offerta e non l’altra? Verrebbe addirittura da dire che è colpa di Dio se Caino ha ucciso Abele. A leggere in profondità, si può però notare quanto di questo capitolo sia giocato sui dialoghi. Solo un personaggio non parla, ed è Abele; e Dio parla solo a Caino. Insomma, il racconto pare dire che Dio privilegia l’offerta di qualcuno, ma ad un altro parla. I due fratelli sono diversi, ma non significa che Dio non abbia un rapporto particolare con ognuno di loro. Occorre coglierlo, al di là dei preconcetti (qui il preconcetto è che Dio si esprima solo in un rapporto liturgico, solo nel culto, nella preghiera. E magari è un preconcetto che abbiamo anche noi). In fondo, ancora una volta la colpa di Caino è in prima battuta di sfiducia: non si fida di Dio, non crede che l’attenzione di Dio per l’offerta di Abele possa unirsi a una simile (ma diversa) attenzione di Dio verso di lui. Avviso Dio parla a Caino prima della colpa: “Perché sei abbattuto? Se ti comporti bene, rialzerai” (v. 7). Il testo non chiarisce se Caino rialzerebbe il volto (cioè si rallegrerebbe), o se stesso… o anche l’offerta, che si “innalzava” al cielo. “Se non ti comporti bene, il peccato è alla tua porta come un robez in agguato”. Questa strana parola ebraica non significa soltanto “accovacciato”, anzi converrebbe pensare a un tarlo… è un “rosicchiatore” in agguato alla porta, è chi consuma, lavora, erode lasciando la sensazione di poter essere trascurato perché non opera danni travolgenti. “Verso di te è il suo desiderio, ma tu dominalo”. Sono le stesse parole di Gen 3,16, dove il desiderio/passione era un bene, perché era teso verso un pari, verso un altro essere umano. Qui il desiderio/passione è di chi è inferiore all’uomo, diverso… e infatti questo deve essere dominato (come faceva l’uomo con la donna, ma là si trattava di un errore). Il peccato non può essere eliminato. Resta come un tarlo alla porta, resta presente. Ma deve essere dominato, dall’alto verso il basso. Occorre esserne consapevoli e gestirlo. E Dio è lì a consigliare, a raccomandare. Non fa il lavoro al posto dell’uomo, ma neppure se ne sta alla finestra a guardare. È coinvolto, pur non agendo al posto dell’uomo. Fatto Anche Caino parla ad Abele (anzi, a “suo fratello” Abele: si insiste moltissimo sulla fratellanza). Ma la sua parola non è un appello di comunicazione, è invece un invito a seguirlo per porre termine per sempre alla comunicazione. Ha qualcosa del bacio traditore di Giuda: ciò che dice solitamente l’affetto, diceva lì il desiderio di morte. “E nei campi si alzò Caino verso suo fratello Abele”. Caino aveva tentato di far salire l’offerta. Dio gli aveva detto che avrebbe potuto sollevarla se avesse sollevato il volto, o se stesso. Caino preferisce sollevarsi sì, ma contro il fratello. Sono sempre gli stessi elementi della vita giocati contro o a favore della vita stessa, della comunione con il fratello e quindi con Dio. Sembra quasi dirci che una vita buona o cattiva non sono qualcosa di radicalmente diverso: la vita è questa, giocata più o meno negli stessi elementi, ma disponendoli nell’ordine e nei rapporti giusti. Conseguenze Anche Dio riparla a Caino, con (sostanzialmente) la domanda che aveva già fatto ad Adamo: “Dove?” “Dove è tuo fratello?”. Non è una semplice richiesta di informazioni. È un appello alla responsabilità. E la risposta di Caino suona come una condanna: “Sono forse il custode di mio fratello?”. Sì, ogni fratello è custode del fratello. Tutto in questo brano dice non solo come vanno le cose, ma anche come invece dovrebbero andare. “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra” (v. 10): un altro appello, un’altra parola, anche se questa è muta. È una voce che non può più parlare. E questo suo mutismo è un appello
La guarigione miracolosa di Sorino Yanomami: una prospettiva teologica
Nelle prime ore del 7 febbraio 1996, Sorino Yanomami partì per la caccia dalla sua maloca (abitazione collettiva Yanomami). Mentre era in foresta fu assalito e gravemente ferito da un giaguaro. Secondo la popolazione locale, questo fu il secondo caso di un attacco di un giaguaro nella regione della Missione Catrimani, situata a 150 chilometri da Boa Vista, nello stato di Roraima. Nel primo assalto, avvenuto alla fine del 1995, furono ritrovate solo resti del corpo della vittima. Come sappiamo, Sorino Yanomami è stato soccorso in gravi condizioni dai Missionari e le Missionarie della Consolata che operano nella Missione Catrimani. Fu necessario trasferirlo d’urgenza all’Ospedale Generale della città di Boa Vista con un aerotaxi. La gente rimase scioccata e spaventata, e tutti credettero che non potesse sopravvivere. Per questo chiesero che Sorino rimanesse nella sua maloca per morire in compagnia della sua famiglia. Con fede, fiducia e speranza, come coloro che nel Vangelo trasportarono il paralitico nella barella e lo calarono attraverso il buco nel tetto davanti a Gesù per essere guarito, così le Suore Missionarie della Consolata, dopo aver prestato il primo soccorso, rischiarono tutto per portare Sorino a Boa Vista. Cominciarono a pregare il Beato Giuseppe Allamano perché intercedesse per la sua guarigione. A Boa Vista, le suore fecero i turni all’Ospedale Generale per assistere Sorino e facilitare la visita e il soggiorno dei parenti. Il canonico Giuseppe Allamano fondò l’Istituto dei Missionari della Consolata nel 1901 e la congregazione delle Suore Missionarie della Consolata nel 1910. Perciò, lui è il Padre Fondatore, un uomo tutto per Cristo e per la missione. Nel contesto della storia della guarigione miracolosa di Sorino Yanomami, Giuseppe Allamano è quel “buco nel tetto” attraverso il quale i quattro uomini del Vangelo fecero passare il paralitico perché potesse raggiungere Gesù ed essere guarito. Le suore hanno pregato costantemente il Beato Giuseppe Allamano per la guarigione di Sorino. I quattro uomini del Vangelo (Mt 9,1-8; Mc 2,1-12, Lc 5,17-18) ebbero fede in Gesù, credettero nel suo potere di guarigione. Era una fede pratica che li spinse a cercare a tutti i costi la guarigione del loro amico paralitico. Il paralitico sulla barella è in una situazione di impotenza, ha bisogno di aiuto. I quattro amici si fanno carico di lui, con fede libera, viva, incarnata in vari gesti. Secondo San Giacomo, “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,17). La fede, la fiducia nell’incrollabile bontà della potenza di Dio e la speranza spingono i quattro uomini a compiere un’azione senza precedenti. Superando i loro limiti, scoperchiarono il tetto della casa aprendolo e calando il paralitico con la sua barella al centro della casa dove si trovava Gesù. Non hanno paura della reazione della gente. Vogliono vedere il loro amico guarito. La fiducia è la quinta essenza della speranza, diceva il padre Giuseppe Allamano ai suoi missionari e missionarie. Nella cosmologia greca, il quinto elemento è l’etere, qualcosa di magnifico, grande, molto più grande dell’aria che respiriamo. La quinta essenza è l’etere. Si può avere tutto: aria, fuoco, acqua e terra, ma se non si ha fiducia e speranza, si può morire. Nel Vangelo leggiamo che Gesù guarisce tutti i malati che incontra o che gli vengono portati. “… la gente gli portava tutti quelli che soffrivano di vari disturbi e tormenti: gli indemoniati, gli epilettici e i paralitici; ed egli li guariva” (Mt 4,24). Ma Gesù guarisce anche grazie alla fede di coloro che si rivolgono a lui per ottenere la guarigione, come nel caso dei quattro amici che, con fede, fiducia e speranza, fanno passare l’uomo paralitico attraverso il buco del tetto per ricevere la guarigione di Gesù. La guarigione miracolosa di Sorino, come quella del paralitico, mette in evidenza il valore della fede concreta, della fiducia e della speranza, dimostrando che Dio è attento a coloro che lo invocano e si rivolgono a Lui nel momento del bisogno. La guarigione dell’indigeno Sorino in piena foresta amazzonica è un segno visibile della presenza del Creatore nella vita del popolo Yanomami e conferma il Carisma della missione ad gentes lasciata in eredità dal Beato Giuseppe Allamano. Suor Mary Agnes, mc La testimonianza di Suor Felicita sull’ incidente e sulla guarigione miracolosa di Sorino Yanomami
Il regalo più grande della mia vita
Suor Hannah Wamboi, missionaria della Consolata keniana, da più di vent’anni vive in Argentina. Il dono più grande che ha ricevuto nella sua vita è tato l’incontro e la condivisione con i popoli nativi in America: i Wichi e i Kolla.
Il miracolo di Sorino Yanomami
Il miracolo riguarda la guarigione di Sorino Yanomami, assalito e gravemente ferito da un giaguaro, nella foresta amazzonica brasiliana, il 7 febbraio 1996. Sorino è guarito e ha recuperato completamente la salute grazie all’intercessione del Beato Giuseppe Allamano. Descrizione dell’evento Sorino Yanomami è un indigeno di etnia Yanomami, nato nella comunità di Maimasik (Roraima-Brasile), presumibilmente nel 1955 (giorno e mese non sono registrati). Residente nella comunità di Yaropi (nella regione del medio corso del fiume Catrimani), è sposato con Helena Yanomami, ma senza figli. L’ambiente in cui è inserita la sua comunità è l’immensa foresta amazzonica, da cui, come gli altri membri del suo popolo, può ottenere ciò che è fondamentale per vivere, tramite la raccolta, la caccia, la pesca e la coltivazione di grandi orti. La sua maloca (abitazione indigena, usando un termine tupi entrato nel vocabolario del portoghese brasiliano) è, tuttora, nei pressi di una “comunità missionaria della Consolata”, lì presente dal 1965 e costituita da religiosi (padri e fratelli coadiutori) e da suore missionarie. Il superiore di allora, Guglielmo Damioli, così ricorda Sorino: «Lungo gli anni, già sposato, col suo gruppo familiare, Sorino era venuto a costruire la sua maloca all’inizio della pista di atterraggio della missione. Appariva frequentemente alla missione, sempre accompagnato dalla sua giovane sposa. Uomo comune, semplice, con un sorriso perenne sul volto. Buon cacciatore, in foresta, sulla fragile canoa, gran lavoratore nella piantagione per contribuire col gruppo e sostenere la sua famiglia». Proprio nel cuore della foresta, quella mattina del 7 febbraio 1996, Sorino Yanomami subisce l’assalto di una femmina di giaguaro (onça pintada). Sempre Gugliemo Damioli, così racconta: «Il giaguaro, come di consueto, ha attaccato Sorino di sorpresa, alle spalle. Con una zampata, gli ha fratturato la scatola cranica. Sul posto, per terra, furono trovati dagli indigeni pezzi di osso e parte di massa encefalica. Nonostante la gravità estrema delle ferite, Sorino non perse i sensi; riuscì a svincolarsi, ad alzarsi e a usare l’arco come una lancia per tenere il giaguaro a una certa distanza, mentre gridava, chiedendo aiuto. In pochi minuti, con le grida e l’arrivo degli indigeni armati di archi e frecce, il giaguaro fuggiva». Il cognato di Sorino, B. (non riportiamo il nome, per rispetto delle usanze Yanomami che non pronunciano più il nome di una persona già morta), corre al piccolo dispensario della missione a cercare soccorso e l’infermiera titolare, suor Felicita Muthoni, missionaria della Consolata kenyana, si precipita sul luogo dell’incidente per rendersi conto della situazione e prestare le prime cure. Così, la suora ricorda quei primi momenti: «Ho visto Sorino per terra, in un bagno di sangue, sono rimasta impietrita, bloccata e tremante, non sapendo cosa fare. Ho chiamato sua madre e ho chiesto dell’acqua; poi ho capito che il cuoio capelluto sporgeva e che Sorino stava anche sanguinando molto; c’era molta sabbia, sporcizia e parte del cervello era fuoriuscito. Ho spinto dentro il cervello e poi ho preso il cuoio capelluto e l’ho rimesso a posto, ma continuava a sanguinare; era vivo, ma non parlava. Siccome non avevo portato niente con me, ho preso l’unica cosa che avevo, la maglietta che indossavo: me la sono tolta e l’ho avvolta alla testa di Sorino, per premere meglio e fermare un po’ l’emorragia. Ho poi mandato qualcuno a cercare la Toyota, in servizio alla nostra missione. Con dona Creuza, nostra aiutante, lo abbiamo messo in un’amaca e poi sistemato nella Toyota arrivata nel frattempo con fratel Antonio Costardi che si trovava anche nella missione. Sono rimasta con lui seduta nella parte posteriore, tenendogli la testa e ci siamo diretti al piccolo dispensario della missione». Riferisce ancora suor Felicita: «Ho guardato le sue mani, ma le vene non erano più visibili. Avevo del plasma e l’ho messo in un piede e, all’altro piede, una flebo di glucosio con un forte analgesico». Vista la situazione di estremo pericolo, suor Felicita chiede che Sorino venga trasportato all’ospedale di Boa Vista, capoluogo dello stato di Roraima. Riesce a contattare la CCPY (Commissione Pro Yanomami) e le viene assicurato un posto sul piccolo aereo che fa servizio nella vasta area indigena, anche se dovrà aspettare un po’, perché le richieste di aiuto sono numerose. Ma i compagni di Sorino si oppongono alla proposta di trasferire il paziente a Boa Vista. Come è frequente nella retorica che accompagna situazioni di tensione e preoccupazione, arrivano anche a proferire minacce; per loro, infatti, è inconcepibile che uno Yanomami possa morire fuori dal suo villaggio, senza l’accompagnamento dei parenti e di uno sciamano. Lo spirito di Sorino era pronto a fare il suo viaggio. Gridano: «No! Sorino resterà qui! Lo sciamano ha già detto che, quando il sole tramonterà, lui entrerà nella casa degli spiriti e salirà in alto». Alla fine, cedono alla richiesta di suor Felicita, ma con una minaccia terribile: se il loro compagno dovesse morire in città, lontano dalla foresta e tra “i bianchi”, uccideranno, con le loro frecce, i missionari presenti al Catrimani. Mentre si attende l’arrivo dell’aereo, un ragazzo porta una foglia di banano arrotolata, con dentro un frammento di osso della testa di Sorino, rinvenuto nel luogo dell’incidente, e formula una sua “diagnosi”: «Noi abbiamo visto bene quando Sorino è arrivato. Abbiamo visto il cervello, abbiamo visto l’osso, l’abbiamo tirato fuori e arrotolato e poi abbiamo parlato con gli xapuri, gli spiriti della foresta: Sorino non può vivere, perché il cervello è fuoriuscito!». Verso le 14,00, con l’arrivo dell’aereo, Sorino viene imbarcato, accompagnato dal tuxaua (capo del villaggio) C. Dopo circa un’ora di volo, all’aeroporto di Boa Vista, viene accolto da Suor Rosa Aurea e Suor Lisadele, che lo trasportano immediatamente all’Ospedale Generale. Ricordava il dott. José Nunes da Rocha, un medico che ha avuto in cura Sorino: «Quella di Sorino era una situazione molto grave e il paziente respirava con affanno, esalava miasma e non credevamo molto nella guarigione, perché il modo in cui era infetto, putrido e in un posto “nobile” come il cervello, avrebbe causato encefalite e meningite. Quindi, non avevamo davvero molte speranze, ma lui era arrivato
Perché Dio è il seminatore?
Sappiamo che Gesù ha narrato molte parabole, i vangeli ce ne raccontano tante. Spesso le pensiamo come raccontini un po’ ingenui, per bambini, brevi e leggere. Ciò non toglie che a volte vengano invece trattate dai vangeli come qualcosa di molto importante, vengano chiarite ed evidenziate. Una di queste è anche ripresa, spiegazione compresa, da ben tre vangeli. «Uscì il seminatore per seminare…» (Mc 4,3; Lc 8,5; Mt 13,3). Lo sfondo Proprio perché sono ben in tre i vangeli che narrano questa parabola, vale la pena cogliere dove ognuno degli evangelisti la sistema, perché per un narratore anche dove si inseriscono i “mattoni” narrativi è una parte del messaggio da trasmettere. Marco, ad esempio, raccoglie le parabole tutte in un solo capitolo, che inizia con questa, che viene ossia evidenziata come la più importante e fondamentale. In precedenza Marco si è dedicato a presentare un Gesù che con i suoi prodigi restituisce alle persone la capacità di entrare in relazione con gli altri, quindi che si distacca dai condizionamenti delle norme religiose (Mc 2,16-3,6) e delle superstizioni e convenzioni sociali (3,20-35). A questo punto giungono le parabole, che parrebbero concentrarsi soprattutto sul rischio di efficientismo (basta guardare Mc 4,27). Matteo dispone il suo materiale in cinque grandi tappe introdotte ognuna da un discorso di Gesù. Il terzo discorso, sul regno di Dio, comprende quasi solo parabole, di cui la nostra è, di nuovo, la prima. In Luca l’ordine dei singoli episodi ci sfugge di più, ma si direbbe che l’attenzione in questa parte del vangelo sia concentrata sulla contrapposizione tra i “giusti”, i “credenti”, “quelli di dentro”, e quelli che invece sono fuori: guarisce il servo di un centurione romano (7,1-10), con cui un ebreo non dovrebbe avere rapporti, poi interviene a risuscitare il figlio di una vedova, con un gesto di attenzione agli ultimi corrispondente invece alla tradizione ebraica (7,11-17), si confronta con la ebraicissima tradizione di Giovanni Battista (7,18-30) e ragiona con un fariseo, a tavola, sulle ragioni del perdono ai peccatori mescolandosi con loro (7,36-50). La versione di Luca è la più corta, il che per qualcuno significa che potrebbe essere la versione più “originaria”, ma anche in Luca questa parabola è l’occasione per spiegare il senso generale delle parabole. Per tutti, insomma, questo racconto è particolarmente importante. Racconto Il racconto è ben noto. «Uscì il seminatore per seminare». “La sua semente”, aggiunge Luca, come se non gli interessasse delle ripetizioni. Luca, in realtà, è uno scrittore abilissimo, per cui dobbiamo immaginare che in realtà quella ripetizione sia voluta. Il cuore del discorso è il seme, e la sua sorte. Non sappiamo chi sia a seminare, perché tutto quello che fa è seminare. Conta solo quello. Il seme finisce in tanti terreni diversi. Lo sappiamo, lo stile di semina e di coltivazione del Vicino Oriente antico era diverso dal nostro. A noi può stupire che non si getti il seme solo nella terra disposta ad accoglierlo. Da una parte, però, questa era la prassi fuori dalle grandi pianure della Mesopotamia. Sui monti e colline circostanti, infatti, la terra era molto asciutta, e rivoltarla troppo disperdeva quel poco di umidità che c’era. Si gettava allora il seme e dopo si arava, per mandare il seme sotto terra senza deprivare troppo di acqua il suolo. Ma, insieme, il racconto ci porta già un po’ in un’altra direzione. Le parabole, infatti, non vogliono spiegarci come si dovrebbe vivere. A partire da come si vive, invece, vogliono spiegarci come è Dio. E allora questo racconto, intanto, ci dice che Dio non si risparmia, non semina solo dove c’è garanzia di raccolto, ma getta ovunque. Non decide in anticipo che alcuni sono cause perse, ma affida il suo dono a tutti. Sappiamo poi che quel seme nella maggior parte dei casi sembra andare perso, perché viene mangiato quello che cade sulla strada, germoglia subito ma secca presto quello atterrato tra le pietre, nasce bene ma viene soffocato dai rovi altro seme. Una parte, però, cade in terra buona e rende molto. Oggi, con una cura più attenta e informata dei suoli e dell’irrigazione, in un campo coltivato a grano ogni spiga produce in media intorno a 40 chicchi (una spiga da sola ne produrrebbe di più, se non fosse circondata dalle altre). Nel Vicino Oriente antico si avvicinava a questa resa la valle del Nilo, mentre in Palestina un rendimento discreto andava intorno a un raccolto 9 o 10 volte superiore al seminato. Il senso del racconto è che là dove il seme riesce a crescere, la resa è in grado di ripagare abbondantemente il seme perduto. La spiegazione È Gesù stesso a commentare la parabola, in tutti e tre i vangeli che la narrano. E ancora una volta è semplice cogliere il senso delle immagini, ben chiarite: il seme come parola di Dio, che può cadere nei cuori di persone occupate da altro e risultare “inutile”, o di entusiasti senza profondità, dove secca presto, o di persone prese da troppe preoccupazioni, che quindi non sanno dare la priorità a ciò che è più importante, ma anche in cuori accoglienti che la fanno crescere. Non solo, è facile per noi immedesimarci ora in uno ora in un altro dei terreni in cui il seme cade. A colpirci, semmai, è la spiegazione introduttiva che Gesù offre sul motivo per cui parla alle persone in parabole. Dice che un messaggio più chiaro è riservato solo ai discepoli (Mc 4,10-12; Mt 13,10-14; Lc 8,9-10), mentre alle persone “di fuori” parla in parabole. A questo punto cita un passo di Isaia secondo cui il motivo ultimo di questo comportamento è di mettere gli ascoltatori in condizione di sentire ma senza capire (che era probabilmente il senso anche di Is 6,9-10, che pure del tutto chiaro non è). Perché una tale crudeltà? Potremmo pensare, appunto, a un Gesù che sadicamente vuole mettere davanti ai suoi ascoltatori un piatto nutriente, senza che abbiano la possibilità di assaggiarlo. Questa idea, però, sarebbe in contraddizione con tutto ciò
Forza e dolcezza
1. Introduzione In questa breve riflessione vorremmo rivisitare lo stile allamaniano-consolatino di approccio alla persona. Ovviamente, non si pretende di esaurire qui la tematica, ma solo di riprendere una riflessione, già iniziata in diverse sedi, ma che meriterebbe di essere rilanciata, ampliata e approfondita. Ci fermeremo a considerare brevemente alcune caratteristiche dello stile educativo dell’Allamano. 2. L’Allamano: una vita come educatore Il Fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata passò praticamente tutta la vita coinvolto nell’educazione di sé stesso e degli altri: come studente in formazione (1856-1877), come formatore in seminario (1873-1880), come professore (1882-1884), come Direttore del Convitto ecclesiastico per due anni e formatore del clero diocesano (1882-1926), pastore o “pedagogo spirituale” (1880-1926), formatore iniziale e permanente di missionari (1901-1926), formatore iniziale e permanente di missionarie (1910-1926). Insomma, una vita a contatto con le problematiche, le sfide e la bellezza del compito educativo. L’Allamano ha senz’altro qualcosa da dirci. 3. Gli ideali proposti L’Allamano non ha mai fatto sconti sugli ideali: li ha proposti sempre, in modo chiaro ed inequivocabile. L’ideale missionario è per lui e per chi da lui fu formato il “denominatore unificante di tutta la formazione e di tutti gli aspetti della vita” che “pervade tutto, caratterizza e qualifica lo studio, gli interessi, le letture, le celebrazioni, gli esercizi della vita spirituale”: “Noi dovremmo avere per voto di servire le missioni anche a costo della vita”. Non fare sconti sugli ideali oggi (ma anche ieri) può non essere così facile né immediato. Eppure, la proposta chiara e inequivocabile di ideali/valori non negoziabili è un punto fondamentale dell’educazione, e non solo dell’educazione prettamente vocazionale, ma umana e cristiana in generale. Basti pensare a che cosa può capitare ad un bambino che si trova a crescere con educatori che non sanno dire chiari sì e chiari no in base a qualche criterio oggettivo, ma si barcamenano cercando di accondiscendere, di volta in volta, ai propri bisogni o ai bisogni dell’infante, o a qualche compromesso tra i due. Un terreno educativo di questo tipo si presta con facilità a coltivare squilibri di personalità, più che uno sviluppo di un sé sano e maturo. L’Allamano si rivolgeva ad aspiranti missionari, per cui l’ideale proposto assumeva i colori e modalità espressive adatte a chi aveva già fatto una scelta vocazionale precisa. Ma l’ideale missionario racchiude dentro di sé ed esplicita in modo singolare il seme dell’ideale di vocazione umana e cristiana che può essere proposto a tutti, qualsiasi sia il cammino di vita scelto. Si tratta della chiamata ad uscire da sé, a muoversi dalla propria posizione nel cosmo/universo per dilatare la visione, la comprensione, la capacità di amare e di fare. Questo ideale, mi pare, può e deve essere proposto anche oggi, in ogni cammino educativo cristiano, senza sconti. 4. Presenza e assenza Quanto appena detto ci rimanda ad una caratteristica peculiare dell’Allamano, ma anche dei suoi figli e figlie nell’approccio alla persona e ai popoli: la “presenza”. Non una qualsiasi presenza, ma una presenza, appunto, pedagogica, che sa cogliere e rispettare i ritmi di crescita dell’altro e sa “esserci” o scomparire a seconda dello stadio in cui l’altro si trova. Una presenza di chi non pretende di proporsi come salvatore dell’altro, nell’intento di risolvergli tutti i problemi, ma che nemmeno lo abbandona a se stesso con la scusa di un malinteso “rispetto”. Ciò implica una sufficiente ed esperiente conoscenza dell’umano e dello spirituale, che porta l’educatore ad una capacità di vera vicinanza ed intimità ed insieme di distanza e di riguardo per lo spazio dell’altro. In altre parole, una cosa è essere vicini, un’altra è ficcare il naso nelle faccende altrui. Una cosa è “esserci” per aiutare l’altro laddove ha bisogno e anche per imparare da lui, un’altra è aver bisogno di essere per forza utili all’altro. Una cosa è porsi accanto ed accompagnare, accettando di essere anche noi dei cercatori, un’altra è pretendere di sostituirsi all’altro o di avere tutte le soluzioni alle sue domande. Nell’Allamano, questo andirivieni tra vicinanza e distanza, presenza e assenza, tra sì e no, si manifesta anche nel suo tratto assieme soave e forte, caratteristica spesso riportata dai testimoni: “Come Fondatore e Superiore nostro, era impareggiabile, forte e soave nello stesso tempo. Si interessava di tutto e di tutti: scendeva anche ai più minuti particolari, e nello stesso tempo non era né pesante, né assoluto. Lasciava libera l’iniziativa delle Superiore subalterne…” “Il suo tratto [appare] sempre buono e paterno, ma riservato e contenuto” La presenza dell’Allamano potrebbe essere qualificata, in termini attuali, come “empatica”: egli possiede la capacità di sentire con l’altro, di intenerirsi, commuoversi, identificarsi con la persona; allo stesso tempo, possiede la capacità di distanziarsi dall’altro per coglierlo in modo più pieno e rispettoso della sua totalità. In questo modo, sa sfidare senza scoraggiare, perché il suo intervento non parte solo da un sentire emotivo, ma da un contatto più profondo e pieno con il vissuto altrui, il proprio e i valori che vive e propone, il tutto unificato nell’esperienza viva della relazione con Dio che gli dilata gli orizzonti dello spirito, del cuore e della mente, portandolo ad una sempre più articolata comprensione dell’umano e dello spirituale, perciò ad interventi educativi illuminati e sentiti come una benefica sfida alla speranza. “Nel correggere aveva molto tatto e bontà, e nello stesso tempo era forte e soave. Diceva poche parole, ma chiare e decise. Soprattutto non era mai scoraggiante, pur combattendo energicamente il difetto” Una missionaria racconta di un fatto che risale alla prima guerra mondiale, quando il nutrimento era scarso e il pane razionato: “due postulanti, entrate appena da qualche giorno, passando in panetteria, mi chiesero il pane varie volte dicendo che avevano fame. Per un po’ di volte mi prese compassione e gliene diedi, ma passando per caso il nostro venerato Padre dalla panetteria, gli raccontai la cosa chiedendogli come dovevo fare. Allora mi disse […]: «continua pure e darglielo, quando lo domandano, per un po’ di giorni, ma, adagio adagio, farai loro capire che non si può; ma non
Giuseppe Allamano nella vita dei suoi figli
Abbiamo chiesto a Missionari e Missionarie della Consolata: “Chi è Padre Fondatore per te?” Le risposte sono scaturite da cuori riconoscenti per la presenza, semplice, discreta, ma determinante, di Giuseppe Allamano nel cammino religioso e missionario di ciascuno. Giuseppe Allamano: ad quid venisti? Suor Gabriella Bono, missionaria della Consolata italiana, vive in Argentina: ricorda come il Fondatore chiedeva spesso alle giovani in formazione: “Ad quid venisti?” perché sei venuta qui? Un modo per ravvivare la risposta al dono della vocazione, una forma di rispetto per gli ideali e i valori grandi che queste giovani donne portavano nel cuore. Ascolta la riflessione di Suor Gabriella: Giuseppe Allamano: questo qui, non lo mollo più! Padre Giampaolo Lamberto, missionario della Consolata italiano, vive in Corea del Sud: racconta come da giovane, leggendo i pensieri dell’Allamano, ha sentito che il Fondatore era un compagno insostituibile nel cammino, che i suoi insegnamenti generavano armonia in lui e sono stati luce in ogni passo del cammino missionario. Ascoltiamo Padre Giampaolo: A cura dell’equipe di comunicazione per la Canonizzazione
I diari di Suor Gemma Ida
La toccante storia del piccolo Msafiri e delle preghiere accolte da Dio. Una storia dal Tanzania. Msafiri, significa viaggiatore ed è il nome di un caro bambino di 8 mesi e dal peso di 2,500 kg. che la mamma mi ha portato perché potessi guarirlo. Al primo momento dico: “Mamma, portalo all’ospedale, cosa posso fare io?” “L’ho già portato, mi risponde, ma il medico mi ha rimandato a casa perchè non sa cosa fare. Non c’è più nulla, nessuna medicina che lo possa guarire”. Signore, prego nel mio cuore, Tu lo risusciteresti subito, io cosa posso fare? In un baleno mi viene in mente un salmo e così pregai: “Se il Signore non costruisce la sua casa, invano si affaticano i costruttori, se il Signore non è a guardia della sua città, invano veglia il custode”. Perciò dissi alla mamma di ritornare ogni giorno all’ambulatorio che avrei provato con la medicina, ma che intanto: “Preghiamo il Signore e la Santissima Consolata, che sempre consolano coloro che a loro ricorrono con fiducia”. Iniziai una cura con anabolizzanti, latte e con tutto ciò di cui potevo disporre, ma nonostante ogni sforzo, il piccolo Msafiri, non dava segni di miglioramento. All’ottavo giorno la mamma mi disse che doveva ritornare a casa, abitava lontano e aveva altri figli che richiedevano il suo aiuto. Allora io osai fare a quella donna questa proposta: “Mamma, vedo che le medicine non servono per il tuo bambino, forse Gesù lo vuole in Paradiso , dille che glielo dai, diciamolo insieme…”. Non l’avessi mai detto, perchè la mamma di Msafiri, con una voce forte di chi reclama i suoi diritti di madre disse: “Cosa devo dargli, anche questo, quando su cinquem me ne ha già ripresi tre?”. Signore, che tasto ho mai toccato, ed intanto, piangendo, continuavo il mio lavoro. Passarono alcuni minuti, quando con voce fioca la mamma ruppe il silenzio pregando così: “ Signore, se proprio vuoi mio figlio, prendilo. Ti chiedo solo di metterlo in un posto dove non debba più soffrire, ha già sofferto troppo in questa vita”. L’offerta è fatta, preparo le medicine da portare a casa, saluto la mamma e il piccolo, dicendo a questo che quando sarà nel bel Paradiso preghi per i suoi cari, per la sua patria e si ricordi anche di me. Strano, il bambino era pagano come la mamma. Di solito battezzo questi bambini gravi, ma Msafiri non l’ho battezzato perchè pensavo che forse il Signore avrebbe accettato l’offerta della mamma, come accettò l’offerta di Abramo nel sacrificio del figlio Isacco e poi glielo avrebbe restituito? Non so, so solo che non pensai più a Msafiri anche perchè avevo avuto il trasferimento in un’altra missione e poi c’erano tanti bambini come Msafiri a cui pensare…. Si dice che solo le montagne stanno al loro posto. Passarono tre anni, fui rimandata di nuovo alla missione di Makamhako, missione dove ebbi l’esperienza che sto raccontando. Un giorno venne in ambulatorio una donna con un bel bambino tra le braccia ed uno di circa quattro anni per mano che teneva fra le manine un sacchetto di plastica con delle uova, e che mi salutava tutta sorridente. “Sorella, ti ricordi di me?” “No” risposi. Con meraviglia replica: “ Come, non ti ricordi di Msafiri, il bambino che un lontano giorno offrimmo a Dio Mgai, perchè sembrava che non ci fossero medicine che lo potessero guarire? Eccolo” Nello stesso momento il piccolo Msafiri, con un sorriso meraviglioso, mi si avvicina, mi consegna il sacchetto con le uova dicendomi: “Grazie, Mama, che mi hai guarito!” Non so cosa provai in quel momento. Abbracciai il piccolo e ringraziai il Signore che non lascia mai delusi chi a Lui ricorre con confidenza, fiducia e tanta fede. “Grazie Signore, aumenta la mia FEDE”. Suor Gemma Ida, mc
Non basta… guardare!
Qualcuno la chiama fiaba, altri leggenda, altri ancora la inseriscono nelle parole di saggezza dei popoli che abitano lungo il mare e gli oceani. In qualche volume viene riportata in una formula abbreviata, in altri più ampia. Ho scelto quest’ultima versione, perché cattura e fotografa la tipologia e le reazioni delle persone che compongono la variegata realtà delle società, anche di quelle che non dimorano lungo le coste. “Una notte, in una di quelle magiche spiagge lambite dall’Oceano, accade qualcosa di straordinario: un’alta marea eccezionale. Quando le acque si ritirano, la danza dell’Oceano lascia miriadi di stelle marine, dai colori più svariati e dalle forme più diverse. Le stelle marine private del loro ambiente naturale che le nutre e le protegge, sono destinate a morire. Gli abitanti del piccolo villaggio escono dalle loro case per recarsi al lavoro, a scuola, a far la spesa… vanno di fretta come ogni mattina. La vista delle stelle marine sulla spiaggia, però, per un attimo, arresta la loro fretta. Pian, piano, una folla di vecchi e bambini, donne e uomini, giovani e adulti si raccoglie e guarda stupita il mare. Un uomo, con un soprabito nero, l’intellettuale del villaggio, senza scendere in spiaggia, rimanendo sulla strada, comincia a domandarsi il «perché» di quel fenomeno. Parla di teorie, di fasi lunari e solari, di alta e bassa marea… Un piccolo gruppo si raccoglie intorno a lui: discutono, dibattono, ragionano… tutti con le mani in tasca! Intanto le stelle marine cominciano a soffrire l’assenza di acqua. Una donna s’incammina sulla spiaggia. Va avanti e indietro senza sosta e ripete a voce alta: “Sono tante, tantissime, troppe! Non posso salvarle tutte!” Intanto le stelle marine consumano le loro ultime energie. Un’altra donna la segue, ma subito si ferma e osserva incantata ora questa, ora quella stella marina. Si china e le scruta nei particolari, le descrive nei colori e nelle forme, decanta la loro bellezza e apprezza il loro splendore. Le sue mani sfiorano appena le stelle marine che continuano la loro agonia. Un gruppo di giovani scende in spiaggia, si avvicinano alle stelle marine e scelgono le più belle da prendere come souvenir. Le loro mani toccano le stelle marine, ma non per liberarle dall’arsura della spiaggia. Un uomo rallenta con il suo fuoristrada e mormora: “Non ho tempo da perdere, non posso fermarmi e vedere cosa succede… perché dovrei perdere tempo dietro a delle stupide stelle marine che si sono lasciate spingere sulla spiaggia?” Con le mani strette al volante accelera e passa oltre… e le stelle marine restano a soffrire sulla spiaggia. Tutti guardano, parlano, ragionano… nessuno fa nulla! Le stelle marine sono tante, troppe… non è possibile salvarle tutte… e allora non se ne salva nessuna! Nel frattempo, una bambina, dall’aria birichina, sfugge al controllo della mamma e raggiunge la riva: con le sue manine prende una stella e la getta nell’Oceano, poi torna indietro e ne prende un’altra, e un’altra ancora, e poi ancora. Va avanti e indietro senza sosta. Non riuscirà a ridare all’Oceano tutte le stelle marine: sono tante, troppe! Ma con le sue manine, mentre la folla dei grandi discute e si consulta, prende tempo e ragiona, ha riportato nel grembo dell’Oceano venti stelle. Molte sono già morte e molte moriranno, ma venti sono salve! Un bimbo, con la spontaneità dei piccoli, si unisce a lei: la loro impresa è impossibile, senza speranza…, ma adesso sono sessanta le stelle in salvo! Molte sono già morte e molte moriranno…, ma sessanta sono salve! Altri bambini si uniscono ai due pionieri e l’Oceano ha ripreso con sé cento stelle. Dopo qualche minuto sono duecento le stelle marine che giocano felici con le onde, loro amiche d’infanzia. Molte sono già morte e molte moriranno…, ma duecento sono salve!” Dalla storia alla vita Quante volte ci svegliamo al mattino e ci accorgiamo che sulla nostra riva, per restare nella metafora del racconto, mille stelle marine boccheggianti chiedono attenzione, esigono risposta, invocano decisione. Stanno in bilico sul bordo della nostra esistenza, adagiate sul perimetro della nostra vita. A volte sono situazioni che dribbliamo con astuzia, nella speranza di non doverle mai affrontare e altre volte sono difficoltà che ci illudiamo di nascondere nell’armadio delle buone intenzioni. A volte sono sogni che abbiamo chiuso nel cassetto e altre volte sono promesse che abbiamo dimenticato. A volte sono attese a cui non vogliamo tendere l’orecchio e altre volte sono impegni che preferiamo eludere. A volte sono relazioni faticose che abbiamo relegato in soffitta e altre volte sono perdoni che abbiamo accatastato nel tempo e non riusciamo più a regalare. A volte, le stelle marine sono talmente tante che non sappiamo da dove cominciare per rimetterle a posto: non sappiamo dove mettere le mani… e allora le teniamo in tasca! Questo accade nella vita quotidiana, nel lavoro, nelle relazioni interpersonali, nella vita sociale… non sappiamo da dove cominciare e, allora, preferiamo lasciare le nostre mani in tasca! La storia delle stelle marine, nella sua semplicità e immediatezza, interroga la nostra vita e le nostre scelte, le nostre relazioni, la nostra carità, il nostro impegno… Infine, questa storia evoca il Dio dei piccoli passi, invoca la fedeltà alle piccole cose, implora tenacia nella perseveranza. suor Maria Luisa Casiraghi