Continuiamo a fare memoria grata per il dono della missione in terra somala, ricordando i 100 anni dall’arrivo delle prime Sorelle. La missione in Somalia ha avuto uno stile martiriale: di testimonianza con la vita e di sacrificio offerto con amore agli ultimi. La speranza è stata una virtù coltivata e cresciuta nelle Missionarie. Decine e decine di sorelle si sono consumate come incenso offerto a Dio, nella preghiera, abnegazione, sacrificio, per tracciare un solco nel deserto. Hanno offerto la loro vita per il popolo musulmano con la testimonianza silenziosa di vita evangelica, nel servizio della carità e nel rispetto di ogni persona. Un servizio donato con amore in umiltà, in silenzio, senza pretese, senza attese, fiduciose nella bontà di Dio, rispettando i suoi tempi. Il Fondatore voleva le sue figlie” Sacramentine”, cioè adoratrici, sempre in unione con Dio, pur donandosi generosamente ai fratelli. Dalla vita di unione con Dio scaturisce la vita e la vitalità della missione. In questa terra somala bisogna vivere di speranza: ma come? Dagli scritti di Suor Paola Rossi: Credendo alla forza creatrice delle parole di Gesù: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi “e vi ho mandate. Una missionaria scelta e mandata che vive fino in fondo la sua vita consacrata, evangelizza con la sua stessa vita. Ella diventa annunzio quando è segno e lievito di giustizia e di amore.. Sperare, sempre sperare, non aver paura di sperare troppo, non solo sperare, ma super sperare, diceva il Padre alle sue figlie. Come sperare quando l’apostolato è sterile, quando addirittura è rifiutato e impedito? Il seme che costantemente e silenziosamente si getta nei solchi aridi, certamente non andrà perduto, perché è un seme divino irrigato dal sudore di tante sorelle che per anni ed anni con serena speranza hanno umilmente gettato senza chiedere risultati. La speranza sia l’anima del lavoro di ogni missionaria in Somalia sostenga la loro fatica perché possano offrire con gioia sempre nuova i sacrifici e le sofferenze di ogni giorno. L’amore apostolico in Somalia consiste in un umilissimo servizio che conosce i fremiti del dolore, che sopporta pesi sudori e fatiche indifferenze durezze di ogni genere. Il messaggio evangelico può essere solo annunziato mediante l’esempio più eroico, senza parole, con una carità profusa in atti concreti, che il più delle volte non hanno contraccambio. In Somalia bisogna amare come Gesù “dare la vita” . Dagli scritti di Suor Paola Rossi
Suor Simona Brambilla nuovo Prefetto per la vita religiosa
Suor Simona Brambilla, missionaria della Consolata, è stata nominata dal Santo Padre Papa Francesco Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Dopo il suo servizio di Superiora generale nell’Istituto (dal 2011 al 2023), è stata nominata Segretario del Dicastero dal dicembre 2023. Ecco la nomina nel Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede: Nomina del Prefetto e del Pro-Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica Il Santo Padre ha nominato Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica la Reverendissima Suora Simona Brambilla, M.C., finora Segretario della stessa Istituzione curiale. Il Santo Padre ha nominato Pro-Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica Sua Eminenza Reverendissima il Signore Cardinale Ángel Fernández Artime, S.D.B., già Rettore Maggiore della Società Salesiana di S. Giovanni Bosco. Vedi la notizia completa qui. Alla nostra cara Suor Simona assicuriamo la nostra preghiera e il nostro affetto e chiediamo alla Madonna Consolata e a San Giuseppe Allamano, nostro Fondatore, di sostenerla e benedirla in ogni istante di questo importante servizio alla Chiesa e alla Vita Religiosa.
100 anni di missione in Somalia. Gli inizi
Il 4 gennaio 2025 si ricordano 100 anni dell’arrivo delle Missionarie della Conolata in Somalia. IN questo articolo sono descritti gli inizi della missione e lo stile di vita delle Sorelle
Conta le stelle se puoi. RECAP del 2024
RECAP dei momenti più significativi di questo ricco 2024 che termina
Gli Angeli e la Presenza Divina: Un Legame Indissolubile
«Apparve a Zaccaria un angelo del Signore» (Lc 1,11), e un altro (chiamato per nome: Gabriele) appare a Maria. Entrambi annunciano la nascita di un bambino, inatteso da entrambe, per motivi opposti. Sono gli angeli del Natale, di cui sentiamo nuovamente parlare in questi giorni ma che ci sono discretamente familiari. Di angeli, però, parrebbe essere abbastanza piena la Bibbia intera. Gli angeli nella Scrittura Sono infatti molti i passi biblici in cui si immagina Dio circondato da angeli, come se fosse attorniato da una corte regale: «mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano», riassume il profeta Daniele (7,11). Altri angeli, però, sono più utilmente inviati a compiere diverse missioni: perlustrare la città di Sodoma prima della sua distruzione (Gen 19), consolare e indirizzare Agar (Gen 21,17), evitare che Abramo sacrifichi il figlio Isacco (Gen 22,11-18), accompagnare il popolo nell’esodo dall’Egitto (Es 14,19; 23,20.23), ma anche difendere il popolo in battaglia (Es 33,2; 2 Re 19,35). Può capitare che svolgano incarichi duri e sanguinosi, come contro i primogeniti d’Egitto (Es 12,23) o con la peste contro Israele (2 Sam 24,16-17) o contro gli assiri (2 Re 19,35), ma solitamente incarnano un intervento divino benevolo. Nel corso del tempo si distingueranno alcuni con incarichi particolari, come funzionari di corte, i “cherubini” (1 Sam 4,4 e altri testi) e i “serafini”, cioè “gli ardenti”, di cui parla il profeta Isaia (6,2-7). Non stupisce, allora, che li ritroviamo nel Nuovo Testamento, non solo negli annunci delle nascite di Giovanni il Battista e di Gesù, ma anche nella visione che annuncia ai pastori la nascita di un salvatore (Lc 2,13-14) e nelle parole di Gesù, oltre che nell’Apocalisse. Sarà solo nelle apocalissi, che né ebrei né cristiani ritengono ispirate, e nelle elucubrazioni medioevali, che gli angeli diventeranno davvero miriadi, organizzati in gerarchie rigide e molti di loro chiamati per nome. Che cosa dobbiamo pensarne? Se davvero fossero una presenza così imponente nel mondo che non vediamo, perché così tante parole sono dedicate nel Primo Testamento a Dio e all’uomo e così poche, comunque, per gli angeli? Come inserirli nel nostro quadro del mondo? Una premessa linguistica Prima di tutto, può essere opportuno segnalare una caratteristica delle lingue che parliamo e del modo con cui le utilizziamo. Tutti noi, infatti, veniamo al mondo in un ambiente che è fatto anche di una lingua che gli adulti intorno a noi parlano e che, ascoltando, impariamo. E nella lingua le formule restano vive anche molto tempo dopo la loro nascita, anche quando non sono più comprese nella loro origine. Anche se ben pochi di noi hanno esperienza della vita in monastero, continuiamo a dire di “non avere voce in capitolo” (cioè di non poter parlare là dove si prendevano le decisioni, nel Capitolo monastico, appunto); non abbiamo partecipato alle aste nella Firenze del Cinquecento, eppure continuiamo a dire di “essere al verde” (come la base delle candele che, quando finivano, indicavano la fine dell’asta, e il momento di dover pagare); o continuiamo a minacciare di “fare un quarantotto” anche se non ci ricordiamo che rimanda a un anno pieno di rivolte. E gli esempi potrebbero continuare a decine. Più seriamente, continuiamo a parlare di “testa e cuore” pur sapendo benissimo che anche i sentimenti partono dalla testa. O diciamo che “il sole tramonta”, anche se non crediamo che la terra stia ferma al centro dell’universo. Addirittura, e soprattutto in questo periodo dell’anno, possiamo consultare gli oroscopi anche senza immaginare che gli astri rappresentino divinità che condizionano il nostro futuro. Nella lingua, infatti, continuiamo a portare i segni dei secoli che ci hanno preceduto, anche quando non ne condividiamo più le premesse. Restano parte di noi, rimangono come forme a cui non facciamo particolarmente attenzione ma che continuamo a ripetere. Le divinità dei semiti Qualcosa di simile succedeva anche agli autori biblici e a Gesù, che accettavano nella propria parlata delle premesse che ci possono sembrare problematiche. Gli autori del Primo Testamento, così come Gesù e i suoi discepoli, parlavano quasi tutti lingue semitiche. Queste avevano condiviso la convinzione che tutto ciò che succede fosse causato da qualcuno di non visibile, e che quel mondo non visibile fosse organizzato in una rigida e lunga gerarchia, in cima alla quale stavano delle divinità che neppure si accorgevano del mondo. Scendendo, si trovavano gli dèi da venerare, e poi tutta una serie di intermediari, sul modello delle corti imperiali. Da una parte questo significava che non si poteva mai arrivare a conoscere davvero il dio supremo, ma dall’altra il mondo degli spiriti era pensato sul modello della gerarchia imperiale, nella quale i funzionari non avevano libertà di decisione, compivano solo ciò che era stato ordinato dal loro capo, che ubbidiva al suo, fino ad arrivare all’imperatore. Disubbidire a un funzionario anche di rango bassissimo equivaleva a disubbidire all’imperatore in persona, e lo stesso poteva dirsi per qualunque offesa che il funzionario dovesse subire. Un po’ come ci comportiamo noi oggi con gli ambasciatori. Anche nel mondo non visibile, quindi, si immaginavano gli angeli come intermediari senza autonomia, che si limitavano ad adempiere a degli ordini ricevuti. Si poteva quindi immaginare che l’intermediario rappresentasse chi lo aveva inviato, lo impersonasse. Le formulazioni ebraiche Su queste radici linguistiche, anche il mondo ebraico può riprendere l’idea di tali intermediari. Non è un caso che la parola che utilizzavano indicasse semplicemente un “messaggero”, con un nome comune che non significava niente di più. E la traduzione in greco, in effetti, “angelo”, non voleva dire nulla di diverso. Nel mondo della Bibbia non sembra esserci particolare spazio per esseri intermedi tra Dio e il mondo, come si vede nei capitoli dedicati dalla Genesi alla creazione, dove Dio fa tutto da solo. Ma la lingua portava a parlare di questi “angeli” che, d’altronde, sarebbero stati pensati come semplici tramiti della volontà divina. E in tal modo si evitava anche di mancare di rispetto a Dio, indicandolo come troppo facilmente presente nel mondo. In ogni caso, non sarebbe cambiato nulla, perché i preconcetti semiti
Verità o profezia?
Capita, a volte, che diamo a un episodio della nostra vita, a un brano letto, a una persona incontrata, un significato che poi, col passare del tempo, dobbiamo correggere con un altro sentito più appropriato. Può succedere, però, che a quel primo significato fosse stato legato un grande valore. Può accadere anche a brani biblici, e qui può diventare più difficile decidere come comportarsi riguardo ai due sensi possibili del testo, magari anche molto lontani tra di loro. Tra gli episodi del genere, spicca nella storia dell’interpretazione biblica cristiana un passo del profeta Isaia. Un re angosciato Anche se gli elementi storici e le datazioni possono essere discusse, pare che nel capitolo 7 del libro di Isaia ci si ponga nei primissimi anni, forse mesi, del regno di Acaz, che vive certamente in un contesto storico difficile. Appena salito al trono, infatti, si trovò probabilmente in un gioco internazionale più grande di lui. Dal nord minacciava di scendere l’esercito assiro, tremendo e irresistibile. I re di Samaria e di Damasco, vicini di Giuda, cercano di fare fronte comune per provare a resistere con le armi, ma il giovane re non sembra convinto a lanciarsi in una guerra contro gli invincibili nemici di Mesopotamia. Il calcolo politico era probabilmente giusto, ma i vicini premevano e decisero di invadere la Giudea per sostituire il re con qualcuno disposto a collaborare. Che fare? Cedere a Samaria e Damasco significava condannarsi a una probabile pessima fine militare (cosa che in effetti accadrà ai due vicini), ma resistere comportava di dover affrontare due vicini più forti di Giuda. È in questo contesto che arriva il profeta a parlare al re, invitandolo sostanzialmente a confidare nella vicinanza divina. Una promessa sfuggente Il profeta è tanto sicuro dell’appoggio di Dio da spingersi a offrirne un segno al re. Questi, così, si trova ancora più vincolato nelle sue decisioni. Se chiede a Dio un segno e questo giunge, sarà costretto a seguire le indicazioni del profeta. Ma come potrebbe rifiutarsi? Se arriva un aiuto e non lo si accetta, l’esito è di rompere anche con chi quell’aiuto aveva offerto. Acaz tenta di sottrarsi a questa stretta in un modo elegante: «Non chiederò un segno a Dio, non voglio tentarlo» (Is 7,12). Si tratta di un’espressione di fede, di per sé, per evitare di costringere Dio a esprimersi. Ma siccome Dio aveva già dichiarato la propria disponibilità, rifiutarne il segno implica di voler fare senza Dio, e si comprende l’ira del profeta, il quale, però, non se ne va sdegnato, ma offre lo stesso al re un segno: «Siccome non chiedi un segno, te lo darà Dio stesso: la almà concepirà e partorirà un figlio» (Is 7,14). Chi è la almà? La parola, in ebraico, indicava una donna dalla sua prima mestruazione al suo primo parto. Si pensa che questa donna fosse la giovanissima regina del giovane re. La nascita di un erede avrebbe potuto essere il segno che Dio non abbandonava il regno, che garantiva una continuità alla dinastia. Certo, si trattava di un segno fragile, debole, perché il neonato avrebbe dovuto diventare grande, prima di poter essere utile. Ma è un segno in sintonia con ciò che Dio fa in tutta la Bibbia, nella quale non ama mai presentarsi in modo schiacciante, senza lasciare spazio alla libertà dell’uomo. Insomma, pare proprio che quel tipo di promessa sia in accordo con il carattere di Dio in tutta la sua storia con il popolo d’Israele. È un segno, non la sicurezza o la garanzia di salvezza, un semplice segno che può indicare che di Dio ci si può fidare. Tempi e traduzioni… Molti secoli dopo gli ebrei decidono di tradurre in greco il loro testo sacro, che ormai non è comprensibile a troppi credenti. Il lavoro è lungo e complicato, e comporta anche alcuni scogli particolarmente difficili. Ad esempio, come tradurre almà? Il greco (come peraltro l’italiano) non ha una parola che indichi esattamente la stessa cosa. I traduttori scelsero quindi di privilegiare la parola che sembrava più vicina, ossia parthenos, “vergine”. L’esito non è però lo stesso: annunciare che la giovane donna avrebbe concepito e partorito un figlio maschio, se l’annuncio era rivolto alla regina, era una promessa non scontata ma relativamente facile da adempiere. Promettere che a concepire e partorire sarebbe stata una vergine implica di spostare l’accento dal non scontato al miracoloso. D’altronde, l’esistenza di Acaz e le minacce assire erano ormai lontane nel tempo, non significative per i lettori greci. L’intervento divino, così, si sposta dal piano della storia a quello (apparentemente) della fine del mondo, di un darsi di Dio assolutamente straordinario e prodigioso. I lettori degli ultimi secoli prima di Cristo pensavano probabilmente che si trattasse di una promessa che non poteva compiersi nella storia, ma solo in paradiso o poco prima. Ma quando i cristiani iniziano ad annunciare il vangelo, e insistono sul fatto che Giuseppe non sia il vero padre di Gesù, quel testo di Isaia torna a parlare in modo straordinario, come una profezia precisa di ciò che era accaduto nella nascita del Signore. Chi ha ragione? Per generazioni si dimenticò la prima interpretazione del testo di Isaia, che però ritornò in auge quando, negli ultimi secoli, si riprese a leggere i testi biblici con più attenzione alla storia e al modo antico di narrarla. Per i nostri tempi, però, la questione diventa spinosa. Non c’è dubbio che il primo modo di interpretare il testo di Isaia sia quello storicamente più probabile, in qualche modo quello vero. Ma non si può neppure dimenticare che tantissimi credenti di moltissime generazioni hanno creduto di vedere in quel brano un anticipo della nascita reale di Gesù: dobbiamo dire che si siano semplicemente sbagliati? Conviene piuttosto ammettere che, come in un’opera d’arte, i testi biblici sopportano, e a volte addirittura pretendono, una lettura molteplice, a più livelli. Il testo di Isaia è l’invito a una fiducia in Dio che non pretende di capire tutto, di tenere tutto sotto controllo, e neppure di vedere segni prodigiosi. È qualcosa di estremamente vicino allo spirito del
Buon Natale 2024
Natale della Speranza Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. (Luca 2,9-11) Il Natale riscalda il nostro cuore e ci ricorda che è tempo di luce, è tempo di pace, è tempo di farsi vicino, è tempo di volersi bene come fratelli e sorelle, è tempo di accogliere l’amore che è venuto ad abitare in mezzo a noi, è tempo di vivere nell’amore e per amore, è tempo di ravvivare la nostra SPERANZA. Accogliamo con gioia la benedizione di celebrare quest’anno il NATALE DELLA SPERANZA perché Dio, l’Emmanuele è in mezzo a noi per sempre. Suor Lucia Bortolomasi, Superiora generale e Sorelle del Consiglio
Maria tutta bella, prega per noi!
Podcast di sr. Simona Brambilla MC Maria tutta bella! Donaci il tuo sguardo puro verso Dio, verso l’umanità, verso l’intero creato. Donaci di scorgere la bellezza che abita in ogni creatura e di prendercene umilmente cura. Donaci la compassione verso ogni grido di dolore verso ogni bellezza sfigurata affinché immersa nel tuo grembo rigeneratore si trasfiguri in rivelazione della Grazia da cui è originata. Maria tutta bella, prega per noi! Ascolta tutto il podcast! 0:00 / 0:00 La bellezza di Dio e delle sue creature
Professione perpetua 2024
L’8 dicembre, nella Casa generalizia delle Missionarie della Consolata a Nepi, è avvenuta la Professione Perpetua di 4 Sorelle: Suor Ligia, portoghese, missionaria in Brasile – Amazzonia Suor Immaculate, ugandese, missionaria in Liberia Suor Luisa Piera, tanzaniana, missionaria in Argentina Suor Lucy, keniana, missionaria in Tanzania Ha celebrato l’Eucaristia Padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata. Per tutto l’anno si sono preparate a questo momento, con una formazione intensa a cui hanno aderito con tutto il cuore e con tutti talenti che ciascuna possiede. Con loro c’è anche suor Belarmina, mozambicana, missionaria in Mongolia, che farà la sua Professione Perpetua in Mozambico. Le abbiamo incontrate qualche giorno prima della celebrazione, indaffarate negli ultimi preparativi della festa e con le valigie da preparare per il loro ritorno in missione. Hanno aperto il proprio cuore e condividono con noi le ricchezze, i sogni e gli ideali con portano nel cuore. Cosa significa per te oggi dire SI per sempre? Suor Immaculate: per me oggi dire si significa accettare accogliere, appropriarsi del progetto che Dio ha per me. Far diventare mio il progetto di Dio, accoglierlo così com’è. Suor Luisa Piera: dire sì per sempre significa consegnarmi totalmente a Dio per il servizio di Dio e della Chiesa, facendo sempre la volontà di Dio. Suor Lucy: donarmi totalmente a Dio, tutta me stessa e tutto ciò che ho Suor Belarmina: adesione alla volontà di Dio, al suo progetto nella mia vita. Dire: “Sì, accolgo, voglio vivere!”. Suor Ligia: questo SI per sempre conferma la chiamata che già sentivo, e Lui, il Signore, vuole TUTTO. Donarmi con tutto quello che ho, tutte le mie forze, e mettere al servizio sempre in unione con Cristo, e fare la volontà del Padre. Avete vissuto un anno intenso di preparazione alla Professione Perpetua. Quale tesoro vi portate in missione dopo quest’ anno di preparazione? La risposta è unanime: la ricchezza della formazione ricevuta e della condivisione fra noi. Il cammino di unione con il Signore e con le sorelle è un dono che ci porteremo per tutta la vita, ma non rimane nel nostro cuore solo, è da condividere con tutte le Sorelle. Un tesoro prezioso è la nostra appartenenza (rinnovata e fortificata) a questa famiglia religiosa missionaria. Quale sogno di missione hai nel cuore? Anche il sogno nutrito nel cuore è lo stesso per tutte: Essere testimonianza e presenza di consolazione e di amore, in una vita semplice e umile, vicina alla gente. Una missione-relazione, costruendo la comunione fra noi Sorelle in comunità e insieme alla gente, condividendo le gioie e i dolori. E se arrivasse un Extraterrestre, e doveste spiegargli: “Chi è la Missionaria della Consolata”, cosa rispondereste? E’ una donna… gioiosa, che accoglie, che è capace di guardare la realtà e capace di trasformare la realtà. ama il popolo, le sorelle, la famiglia, Gesù centro della vita. Non rimane chiusa in sé stessa, ma vive per dare vita agli altri. Innamorata di Dio, che cerca di vivere questo amore, sempre in uscita per l’incontro con i fratelli. Vita di umiltà, semplicità, accoglienza e gioia. Trasmette questa gioia che ha, quello che ha è da condividere con la gente che ha tanto bisogno di questo. E’ unita a Dio e gli altri possono conoscere Dio attraverso di lei. Madre di tutti. Dona vita, perché l’altro possa vivere ed essere consolato. è casa, è dimora per tutti. vive il discernimento come stile della sua vita. Buon cammino, Sorelle! Il Signore vi accompagni sulle strade della missione con la sua grazia!
TESSUTI “PARLANTI”
Nel Continente africano camminando per le vie delle città, come nei viottoli che solcano villaggi e paesini s’incrociano uomini, bambini, donne, quest’ultime in particolare, vestite di “colori”. Stoffe sgargianti fregiate da disegni, arricchite da volti, che narrano eventi politici, sociali, religiosi… o da frasi, tra le più svariate, che esprimono i sentimenti di chi le indossa. Perché, l’abbigliamento in Africa, allo stesso modo del cibo, narra del luogo e della cultura alla quale i singoli appartengono ed è considerato una vera e propria manifestazione di significati profondi che vanno al di là della sua funzione concreta, quella di coprire e adornare un corpo. I tessuti in Africa, in qualsiasi epoca, anche oggi, sono un mezzo di comunicazione importante. A seconda della zona geografica, del periodo storico e del contesto sociale, il modo di vestire cambia di pari passo con la cultura del popolo a cui appartiene. Un tempo, i tessuti servivano anche come moneta di scambio, erano portatori di messaggi, ma soprattutto rappresentavano, per via delle decorazioni che li arricchivano, una sorta di documento dove si poteva trovare impressa l’identità sociale e religiosa del proprietario, raccontavano la sua storia, specialmente, se era una persona in vista nella società. Ogni regione, ogni località, ogni piccolo Stato, aveva elaborato delle decorazioni diverse, spesso geometriche e l’abito funzionava come uno “stemma araldico”, a volte, era lo stesso regnante che creava il disegno e sceglieva i colori del suo “casato”, oppure attribuiva ai suoi dignitari alcuni colori particolari in modo da poterli distinguere individuandone le funzioni a corte. In Ghana, per esempio, gli Ashanti, uno fra i più importanti gruppi del Paese che formò un Impero che si estese dal Ghana centrale fino al Togo e alla Costa d’Avorio odierni (la monarchia Ashanti continua ad esistere insieme ad altre unità sotto-statali tradizionali riconosciute dalla costituzione, all’interno dell’odierna Repubblica del Ghana), producevano grandi tessuti in seta, chiamati “kente”, con disegni geometrici molto colorati che differivano da una famiglia all’altra. Queste decorazioni non erano create dal nulla, ma facevano riferimento alle antiche tradizioni, quelle che si esprimevano attraverso racconti, leggende e ricordavano gli avvenimenti “storici” che avevano marcato la vita della famiglia, del clan, o del sovrano. Altri “segni” grafici utilizzati in diversi Paesi africani, per decorare tessuti, stuoie, pareti domestiche, statue di antenati e maschere svolgono un ruolo pedagogico. Si tratta di segni che “parlano”, citano proverbi e detti popolari, interrogano e propongono rebus, fanno memoria dei miti e, in questo modo, “insegnano” ed “educano” chi li guarda. Sono segni che tramandano un “sapere”, che ricordano i valori della tradizione, e invitano a rispettarli. Anche oggi, in Africa, nella vita quotidiana, la simbologia nascosta tra i colori, i disegni, i fregi, i volti di un semplice indumento è molto ricca. La piramide, ad esempio, indica la consapevolezza di una gerarchia sociale: alcuni per ricchezza, fama, saggezza, potere… si elevano sopra gli altri e illuminano la strada da percorrere; la chioccia con i pulcini, invece, rappresenta il ruolo fondamentale di una madre all’interno della famiglia, sia in termini di coesione tra i vari membri che in termini di protezione verso i piccoli da accudire. Oltre ai simboli tradizionali, ne sono subentrati dei nuovi come le lettere dell’alfabeto, per indicare la scolarizzazione dell’individuo che indossa il tessuto, oppure elementi di modernità come l’automobile, la televisione, il cellulare. Esibire un vestito con dollari variopinti, poi, è simbolo di affermazione economica, e le spighe di mais confermano la ricchezza e l’abbondanza. Durante le campagne elettorali, è molto facile riscontrare volti di leader politici sui capi d’abbigliamento. A Yaoundé, in Camerun, per esempio, è consuetudine stampare il viso del Presidente sugli abiti. I candidati distribuiscono alla gente il tessuto gratuitamente, allo stesso modo con cui, in altri Paesi del mondo, regalano ai loro sostenitori le proprie spille elettorali, T-shirt… Non mancano, poi, le stoffe “religiose” dove l’immagine più popolare è quella di Gesù Bambino. Anche il volto del Papa in cima al Vaticano, o i volti di Santi, sono soggetti molto usati e solitamente vengono abbinati alla scritta: “Pregate per noi”. A volte, le donne usano i tessuti come alleati per trasmettere i propri messaggi, e comunicare emozioni, desideri, successi… perciò, l’abito non viene scelto in base alla fantasia dei colori, oppure al tipo di cotone, ma piuttosto per la “frase” che si trova impressa sul telo. Una ragazza tanzaniana o kenyota che desidera riappacificarsi con un amico può indossare una “kanga” con la scritta “Nilijua yatawakera sana”, che significa “Ho saputo che sei molto arrabbiato con me”, oppure più semplicemente “Penzi haina shirika”, “L’amore non ha limiti”. È una questione di stile, ma non solo: mentre in Europa e in America s’inviano messaggi d’amore cifrati, via sms, col proprio cellulare, in Africa esiste un canale in più, per esprimere i propri sentimenti e gli stati d’animo: le stoffe multicolori con frasi adatte cucite addosso e indossate senza vergogna. suor Maria Luisa Casiraghi
Madre Margherita Demaria
L’8 dicembre ricorrono i 60 anni dalla morte di Madre Margherita Demaria, Suora Missionaria della Consolata del primo gruppo di Sorelle giunte in Kenya. Madre Margherita ha vissuto la sua vita missionaria nel servizio di autorità fin dai primi anni di vita religiosa e quindi Superiora generale dell’Istituto dal 1947 al 1958. Riportiamo uno stralcio di una sua lettera che esprime bene la sua passione per Dio e per la missione, nella quale ricorda un fatto che terrà caro nel cuore fino al giorno della sua morte: Chi l’avrebbe detto che, a dieci giorni appena dal mio arrivo in Africa, avrei avuto la grazia invidiabile di dare il mio primo battesimo? La data non poteva essere migliore: 8 DICEMBRE, FESTA DELL’IMMACOLATA! Dopo aver catechizzato in diversi villaggi, giungemmo ad uno ove la suora che ci guidava, dopo aver risposto al saluto dei circostanti, entrò in una povera capanna, facendo cenno a me di seguirla. Là dentro, presso un focherello semispento, stava accoccolata per terra una povera donna molto vecchia. Le suore la seguivano da tempo, cercando di istruirla almeno quel tanto da poterla battezzare in punto di morte; e questa ormai non era più tanto lontana. Per tre volte era già stata portata nella brughiera perché sembrava in fin di vita, ed essa era ancora sempre tornata a casa. La poveretta ci accolse abbastanza bene e noi, preso uno di quei famosi sgabellini kikuyu alti una mezza spanna, ci sedemmo accanto a lei, per meglio salutarla e conoscere le sue intenzioni. La suora e il catechista le ripetevano l’istruzione religiosa e io, seduta sul minuscolo seggiolino, non facevo altro che pregare sommessamente. Alla fine la buona vecchietta accettò di essere fatta figlia di Dio e Sr. Oportuna invitò me a battezzarla. Non so dire la commozione che provai, tanto che piansi di consolazione. Dopo non sapevo più staccare lo sguardo da quel viso che subito mi parve trasformato. Perfino gli occhi semi spenti parevano brillare di una vivacità insolita. Ed io continuavo ad asciugarmi le lacrime. Lettera di Madre Margherita del 9/12/1913 Il giorno della sua morte, l’8 dicembre 1964, Madre Margherita ricordò ancora con commozione questo episodio. Ascolta il ritratto che ne fanno Suor Renata e Suor Giovanna Armida:
LA FORZA PER RADDRIZZARSI
Luca 13, 10-17 10Gesù stava insegnando di sabato in una sinagoga. 11Ecco una donna, che da diciotto anni aveva uno spirito che la rendeva inferma, ed era tutta curva e assolutamente incapace di raddrizzarsi. 12Gesù, vedutala, la chiamò a sé e le disse: «Donna, tu sei liberata dalla tua infermità». 13Pose le mani su di lei, e nello stesso momento ella fu raddrizzata e glorificava Dio. 14Or il capo della sinagoga, indignato che Gesù avesse fatto una guarigione di sabato, disse alla folla: «Ci sono sei giorni nei quali si deve lavorare; venite dunque in quelli a farvi guarire, e non in giorno di sabato». 15Ma il Signore gli rispose: «Ipocriti, ciascuno di voi non scioglie, di sabato, il suo bue o il suo asino dalla mangiatoia per condurlo a bere? 16E questa, che è figlia di Abramo, e che Satana aveva tenuto legata per ben diciotto anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?» 17Mentre diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, e la moltitudine si rallegrava di tutte le opere gloriose da lui compiute. 1 Il testo possiede una forza simbolica estremamente importante anche per noi oggi. Ci racconta la storia di una donna piegata che riceve da Gesù la forza per raddrizzarsi e diventare libera. In ogni tempo ed in ogni società ci sono categorie di persone che vivono piegate e curve, una condizione di sminuita umanità. La potenza liberatrice del Vangelo si vede in tutta la sua forza di annuncio della libertà. Il testo racconta l’incontro tra Gesù e la donna curva (Luca 13, 10-17) e come lo sguardo e l’azione di Gesù abbiano trasformato la sua condizione. Le donne non sono una presenza molto marginale in sinagoga: come mai è lì? Per abitudine? C’è stata portata? Ci si è trascinata con la speranza di un briciolo di sollievo da parte del Signore? Non sappiamo, non dice nulla, è lì. Una infermità, una debolezza, una fragilità la rende curva, ma il termine può indicare molte cose che si oppongono alla “vita”, forse anche l’essere stimata meno di un bue o un asino. Spesso anche noi sentiamo ciò che ci abbatte, forse neppure sappiamo darle un nome; forse anche noi guardiamo in basso, a terra e non abbiamo il coraggio di alzare la testa di porci di fronte alla realtà di esigere rispetto, uguaglianza… Cosa ci rende curvi? Un peccato? Una omissione? Una ferita ricevuta o inferta? Cosa ci rende curvi, incapaci di guardare il futuro con speranza? 2 La guarigione è provocata dallo sguardo di Gesù, l’evento più importante nella narrazione è che Gesù vede (idein), la donna piegata e curva. Vedere è scoprire l’altro/a, è riconoscere che l’altro esiste per me…, Gesù vede con uno sguardo pieno di compassione la condizione di sofferenza dell’ultima fra gli ultimi…, per Gesù quella donna è la persona più importante che c’è nella Sinagoga… Siamo in un giorno di sabato e Gesù è nella sinagoga insegnando la parola di Dio al popolo. Dopo averla vista Gesù la chiama. La donna è chiamata nella sua doppia condizione, di donna e di sofferente. La chiamata di Gesù penetra la condizione sconfortata della donna. Essa, infatti è piegata e può vedere soltanto la terra, non può guardare nessuno dall’altezza dei suoi occhi… Questa situazione ha un profondo significato socio-simbolico. In quel tempo “tutte le donne” vivevano quella stessa condizione di essere piegate e curve, ossia di subordinazione assoluta, la malattia fisica che la piega si trasforma in segno del pregiudizio sociale del tempo che piega la donna e la rende appena più di oggetto o possesso dell’uomo. Inoltre, secondo le interpretazioni rabbiniche del tempo, essere umani consisteva nella capacità di vedere, parlare, discernere, d’interloquire con altri e con Dio. La donna non può pregare perché non può raddrizzarsi, ha la testa bassa, segno dell’umanità caduta e del peccato. Non può per se stessa mettersi in piedi…. “Gesù la vide, la chiama a sé e le dice: «Donna, sei liberata dalla tua malattia”. Gesù non chiede di analizzare le cause del nostro essere senza orizzonti, lo vede prima che noi ce ne rendiamo conto pienamente, Egli ci guarda, ci chiama e ci libera. 3 Fermiamoci a sentire il suo sguardo su di noi, la sua voce che pronuncia il nostro nome e lasciamo che questo sentire raggiunga le nostre profondità, là dove siamo più feriti, e allora risuonerà il suo “sei libero/a”, “alza lo sguardo”, “ricomincia”, “ raddrizzati” e “rendi gloria a Dio”. Cosa rende curvi noi? Cosa rende curva l’umanità? Cosa ci impedisce di guardare oltre e sperare? Gesù non si limita a guardare e a chiamare la donna, ora parla e dice “sei slegata”, il che significa ora sei libera, e a questa parola potente aggiunge il gesto definitivo dell’imporre le mani. Il risultato è che la donna, immediatamente si raddrizza, acquista la sua piena umanità e dignità, è liberata, diventa soggetto e persona, tutte le caratteristiche che le erano negate per la sua malattia e per la sua condizione di donna. Questo avviene notate, in sinagoga, nel luogo sacro e in giorno di sabato il giorno che la fede ebraica sacralizza per l’incontro con Dio. Ora la donna come risultato della liberazione prorompe in un canto di lode a Dio, finalmente può rivolgersi a Dio perché Gesù l’ha raddrizzata e non è più piegata su se stessa è riabilitata. 4 La reazione del capo della sinagoga merita un commentario dettagliato, si tratta apparentemente di un’obiezione ragionevole. Ribadisce la prassi ebraica del sabato, in questo giorno gli esseri umani si devono astenere di qualunque lavoro, mentre gli altri sei giorni sono da dedicare alle opere umane. In queste parole vi è implicita una doppia condanna di Gesù e della guarigione della donna. Notate quanto sia sottile l’obiezione di questo capo della sinagoga. In primo luogo considera la guarigione avvenuta come opera e lavoro umano e dunque non è un’opera di Dio. L’azione compiuta da Gesù è lavoro umano e non opera di Dio (ergon tou Theou). Con questa interpretazione dell’opera
La Croce di Cristo: Una Sfida ai Paradigmi di Forza e Sapienza
San Paolo è un gigante del Nuovo Testamento, del quale gli Atti degli Apostoli ci fanno conoscere parte della vita, e di cui risentiamo in qualche modo la voce nelle lettere, che erano quasi sempre scritti occasionali. Vale a dire che il loro autore non immaginava di scrivere dei trattati da pubblicare, ma rispondeva a problemi che gli vengono sottoposti o che gli riferiscono. La comunità di Corinto Ai tempi di Paolo, Corinto era una città importante e ricca. Situata in mezzo alla Grecia, occupa una sottile striscia di terra che unisce la penisola del Peloponneso al resto del continente. E quel piccolo istmo è sempre stata una tentazione per evitare alle navi il periplo della penisola, piena di scogli, mare agitato e venti forti. Se qualche anno dopo si tenterà di scavare un canale, ai tempi di Paolo i due porti della città erano uniti da una specie di linea di binari, incavati nella roccia, che permettevano a specie di vagoni ferroviari di essere trainati da un porto all’altro, per caricare poi di nuovo delle specie di container sulle navi, risparmiando così almeno una settimana di navigazione e molti pericoli. Corinto, di conseguenza, era davvero un porto di mare, pieno di gente e di soldi di passaggio, pieno di lavoro, da quello pesante e mal retribuito a quello più redditizio ma non sempre onesto. Sempre in quegli anni, la battuta che girava nel Mediterraneo è che “non è da tutti vivere alla corinzia”, pensando a una vita fatta di instabilità e piaceri e molto dispendiosa. In questa città, ci dice Luca negli Atti degli Apostoli (At 18), Paolo arriva dopo un’esperienza molto deprimente ad Atene, dove aveva tentato di impostare un discorso molto colto e raffinato per annunciare il Vangelo, ma si era trovato davanti ascoltatori sarcastici riguardo alla risurrezione… A Corinto probabilmente Paolo pensava di non fermarsi a lungo, ma trova evidentemente un contesto favorevole all’annuncio. E il motivo, forse, lo spiega lui stesso. Foto da Pixabay Il vangelo della croce «Quando venni presso di voi, fratelli, non venni con la pretesa di chissà quale linguaggio o sapienza nell’annunciarvi il mistero di Dio. Infatti non stimai di sapere altro tra voi, se non Gesù Cristo e lui crocifisso» (1 Cor 2,1-2). Paolo ha appena spiegato che apparentemente la figura di Gesù non risponde alle attese del mondo. Il mondo religioso del tempo, soprattutto per Paolo, è nettamente diviso tra “ebrei e greci”. Gli ebrei erano portatori di un messaggio religioso rivelato, che trova la propria ragion d’essere fuori dal mondo, che si muove nell’intimo della coscienza, disposto per questo a rinunciare anche a tante opportunità del mondo. Questo contesto culturale e religioso cercava conforto alle proprie rinunce e alle proprie scelte in un Dio potente che si sarebbe imposto sul mondo, mostrando la correttezza delle impostazioni di vita che richiedeva ai suoi fedeli. I “greci”, dall’altra parte, erano coloro che, pienamente inseriti nel flusso di moda dell’ellenismo, volevano mostrarsi ed essere acuti, intelligenti, intuitivi, arguti… Come ad Atene, cercavano i ragionamenti raffinati, capaci di affascinare e stupire l’interlocutore. Non sembravano particolarmente interessati a ciò che non era mondano ed umano, lo schernivano come irrilevante (come si era sentito dire Paolo, «su questo ti sentiremo un’altra volta» (At 17,32). L’annuncio cristiano è però la vicenda e la croce di Gesù. La croce diceva la sconfitta, la debolezza, la maledizione da parte dello stesso Dio (Gal 3,13), e non poteva che sconvolgere e sconfortare “gli ebrei”. Nello stesso tempo, però, era un discorso estremamente umano, concreto, ma che guardava oltre, che cercava il proprio senso nell’affidamento al Padre, sconfessando la pretesa di autonomia dei “greci”. Paolo, però, rimarca che quel tipo di discorso può essere, per chi lo coglie in profondità, forte e sapiente, perché dice lo stile di Dio, che pur essendo creatore e Signore onnipotente, decide di entrare in relazione profonda e paritaria con l’essere umano, al punto da farsi come lui, accettando addirittura il passaggio più triste ed umiliante della vita umana, che è la sua fine, la sua sconfitta. È la forza di chi non ha bisogno di dimostrare di essere forte ma sa chinarsi al debole per portarlo con sé. Ed è il discorso più profondamente intelligente e saggio, perché proprio il farsi uomo di Dio dice che l’essere umano è importante, è fondamentale, è il cuore della creazione divina, è ciò che lo stesso Dio ha dovuto imparare ad essere. Dice, insomma, che tutta la ricerca umana potrà non bastare a sé stessa, ma è preziosa e ineliminabile. In Gesù, sostiene Paolo, se guardiamo in profondità, troviamo la forza e la sapienza di Dio. E per noi? Potrebbe venire da chiederci che cosa dica a noi una pagina del genere e in che cosa possa esserci utile. Se ci pensiamo bene, questi due approcci di fondo continuano a essere presenti tra noi. Nessuno si senta offeso, ma tra noi, e addirittura in ognuno di noi continua a essere presente il “giudeo”, che pensa di essere nel giusto ad ubbidire a delle regole che non si è dato da sé, e sotto sotto spera che gli altri, i “cattivi”, vengano un giorno puniti per dimostrare che avevamo ragione noi. Una fede indossata come un’arma, a muso duro, per imporci sulla malvagità altrui. E c’è in noi anche il “greco”, che vuole essere affascinante, che in fondo non si fa guidare da Dio nelle proprie scelte anche quando si dice credente, che pensa che essere alla moda e mostrarsi intelligenti e “scafati” sia più importante delle scelte eticamente corrette. Ad entrambi la figura di Gesù ripete che lo stile divino non è di imposizione, non è di battaglia per vincere, ma di vicinanza e ascolto, addirittura di violenza subita, se non si riesce a farsi ascoltare. Senza vendetta, senza ritorsioni (il Gesù risorto non si presenta al grido di “Avete visto che avevo ragione?”, ma ripetendo “Pace a voi”). Senza imporsi mai, sempre pronto ad accogliere e comprendere. E, insieme, è un Gesù che non
Avvento: l’attesa dell’amore
L’Avvento è attesa e memoria. Chi di noi non attende l’amore? E l’amore si attende con tutta l’esistenza: esperienza, corpo, mente, spirito, il pensiero e il sentimento. Se attendi l’amore, scruti l’orizzonte e anche le tue profondità, il tuo cuore. E ti scopri attesa dall’amore negli angoli più reconditi di te e nelle persone attorno a te. Suor Simona, mc 0:00 / 0:00 AVVENTO – L'attesa dell'AMORE
Un altro modo di essere felici
Andrea racconta la sua esperienza missionaria in Tanzania, accolto dalle Sorelle. E ha scoperto che forse la felicità risiede in altre cose…
Il principio e l’umano
Rispetto a ciò che potremmo immaginare, Gesù prende raramente posizione riguardo al matrimonio; quando lo fa, è perché è chiamato in ballo dai suoi avversari. Che in un caso sembrerebbero davvero aver architettato (o essersi trovato tra mano…) un inganno fantastico. Una trappola astuta All’inizio del capitolo 8 del vangelo secondo Giovanni veniamo a sapere che scribi e farisei, volendo evidentemente mettere ancora alla prova Gesù, gli portano un caso scottante. Una donna adultera, sorpresa sul fatto. In tutti i tempi ci sono persone che, molto spesso in assoluta buona fede, intendono difendere i principi e si vedono per questo costretti a punire le persone. La ragione è evidente: se è vero che una legge è buona e giusta, va fatta rispettare. La si può motivare, si può invitare ed esortare a rispettarla, ma se poi viene violata, occorrono le pene. Altrimenti, ritengono, tutto viene messo sullo stesso piano, relativizzato, ossia svenduto. Gesù si presentava spesso come colui che sembrava svendere la legge di Mosè, relativizzandola, attenuandola… Può darsi che i suoi avversari pensassero che così facendo si comportava da “populista”, che si faceva vedere buono soltanto perché non aveva responsabilità. E gli servono un piatto avvelenato. Perché l’adulterio non era solo un peccato tra tanti: le violazioni contro il matrimonio, simbolo dell’amore di Dio per l’uomo, erano trattate in modo particolare duro. Chi veniva colto sul fatto doveva essere lapidato, la legge era chiara. Quindi Gesù si trova di fronte a una scelta complicata: o condanna la donna, rispettando la legge ma giocandosi (così pensano) il favore della gente, oppure si mette contro Mosè, contro il volere di Dio. Chissà se è per questo che Gesù subito non risponde, mettendosi invece a scrivere per terra (da quando è stata scritta questa pagina, generazioni di commentatori si sono chiesti perché o che cosa scrivesse, e ancora ce lo chiediamo). Una risposta altrettanto astuta Di fronte all’insistenza dei suoi avversari, che forse pensavano di averlo messo all’angolo, Gesù finalmente alza la testa e reagisce con una delle risposte più fulminanti dei vangeli: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra» (Gv 8,7). Parla solo della prima pietra, non è necessario che siano tutti perfetti. Ma sembra ricordare che l’umanità è soggetta all’inciampo, e chi ha bisogno di misericordia non può che invocare misericordia non solo per sé. E mentre Gesù abbassa di nuovo la testa e riprende a scrivere sulla sabbia (l’unica volta nei vangeli in cui si dica che Gesù scrive: non poteva utilizzare un materiale più duraturo?), uno alla volta tutti se ne vanno, incominciando dai più anziani, ossia da coloro che, si poteva immaginare, avevano avuto più tempo per perfezionarsi, per arrivare alla pienezza di una vita senza peccato; ma anche coloro che, dall’alto della loro esperienza, sapevano che non si sarebbe trovato nessuno in grado di lanciare quel primo sasso. Il giudizio del perfetto Dopo un po’ sulla scena restano soltanto Gesù e la donna. Gesù è vincitore: non si è spinto a dire che la legge di Mosè è inutile o dannosa, si è limitato a richiedere perfezione per chi giudica. A ben vedere, gli avversari di Gesù avrebbero potuto accusarlo di non essere del tutto onesto: si può benissimo non essere perfetti pur sapendo che cosa sarebbe la perfezione, e non si può nascondere che il peso dei peccati è diverso, l’adulterio è un peccato ben grave. Ma intanto i suoi avversari sono spariti. In piazza, solo una donna colta in adulterio e Gesù. Il quale finalmente si alza in piedi, magari la guarda negli occhi: «Donna, e gli altri? Dove sono finiti? Nessuno ti ha condannata?». «Nessuno, Signore». Certo, nessuno può dirsi perfetto, non ci voleva molto a capirlo. Anche la donna, di sicuro, quando ha sentito quella condizione, poteva essersi sentita salva. A meno che… In realtà, a ben pensare, e i lettori del vangelo lo sanno bene, in quella piazza una persona senza peccato c’era. Fin dall’inizio. E adesso è ancora lì, davanti alla donna. Se Gesù volesse, la prima pietra è sua. «Neanch’io ti condanno». Sembra di sentirli, tutti i tutori dell’ordine, che si scagliano contro tanto lassismo, relativismo, leggerezza: «In questo modo si viola la legge di Dio, che non viene più rispettata. Dispiace essere duri, ma è la condizione per salvaguardare il principio della fedeltà nel matrimonio. Se si inizia a perdonarne una, come si potrà poi difendere la legge buona?» «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Ecco il secondo colpo di genio, che quasi non si nota, come nei fuoriclasse. Non peccare più. Con due frasi Gesù è riuscito a dire, insieme, che l’adulterio è peccato, che non è una leggerezza, che non è bene. Il principio non solo è salvo, ma è salvaguardato con ancora più decisione e durezza. Ma, nello stesso tempo, la persona è più importante, la sua vita sovrana, il suo animo in grado di decidersi per il bene in qualunque momento. Tu hai peccato, donna, non hai fatto il tuo bene, non è bene ciò che hai compiuto. Ma io non ti condanno. Solo, non peccare più, vivi nella pienezza, e sappi di essere stata accolta e perdonata comunque. Angelo Fracchia
In cammino verso un corpo unico e unito
Dal 27 ottobre al 10 novembre si è tenuto a Torino, in Casa Madre, un incontro di formazione e programmazione che ha coinvolto tutta la leadership dell’Istituto Missionarie della Consolata
Kintsugi: le cicatrici d’oro
È capitato a tutti un momento di distrazione e, l’oggetto in ceramica che ci era tanto caro, cade rovinosamente a terra e si rompe. Stupore, incredulità, dispiacere, poi, con rassegnazione raccogliamo i cocci e li buttiamo, seppure a malincuore, nella spazzatura, oppure li conserviamo racchiusi in una scatola. L’idea di provare a ricomporre ciò che è andato in frantumi magari ci sfiora, ma poi ci mettiamo una pietra sopra, perché convinti che un vaso rotto non potrà mai tornare come prima. Questo è ciò che accade, solitamente, in Occidente. In Oriente invece, per la precisione, in Giappone, quando un oggetto in ceramica si rompe, lo si ripara con l’oro, perché un vaso rotto può divenire ancora più bello di quanto già non lo fosse in origine. La tecnica di riparare gli oggetti in ceramica, si chiama kintsugi, che significa: “kin” (oro) e “tsugi” (riunire, riparare, ricongiungere), letteralmente, “riparare con l’oro”. Questa tecnica è stata inventata intorno al XV secolo, quando uno “shogun”, titolo attribuito nell’antico Giappone ai capi delle spedizioni belliche, dopo aver rotto la propria tazza da tè preferita, la inviò in Cina per farla riparare. Purtroppo le riparazioni all’epoca avvenivano con legature metalliche poco precise. La tazza sembrava perduta, ma il suo proprietario decise di ritentare la riparazione affidandola ad alcuni artigiani giapponesi, i quali, sorpresi dalla tenacia dello “shogun”, nel volere riavere la sua amata tazza, decisero di provare a trasformarla in un gioiello riempiendo le crepe con resina laccata e polvere d’oro. Il racconto è plausibile, perché colloca la nascita del kintsugi, in un periodo molto fecondo, in Giappone, per l’arte, infatti, in quel periodo si sviluppò un movimento culturale, che diede origine alla cerimonia del tè (via del tè), all’ikebana (via dei fiori), al teatro e alla pittura con inchiostro cinese. La tecnica kintsugi, evidenzia le fratture, ma al contempo, le impreziosisce aggiungendo valore a ciò che si ripara. Il risultato è sorprendente: il manufatto rimane striato da linee d’oro che lo rendono diverso, pregevole e prezioso. La ceramica prende nuova vita attraverso le linee delle sue “cicatrici” impreziosite! Il kintsugi suggerisce messaggi e paralleli suggestivi: non si deve buttare ciò che si rompe, perché la rottura di un oggetto non ne rappresenta la fine, ma si deve tentare di recuperarlo; le sue fratture possono diventare preziose. C’è anche una delicata lezione simbolica, che l’antica arte giapponese del kintsugi, ci suggerisce, quella di accogliere il danno, le offese che causano le fratture e di non vergognarsi delle ferite che ognuno di noi può portare dentro di sé. La filosofia che è alla base del kintsugi, sottolinea che la vita non è composta solo di perfezione, ma anche di rottura e, come tale, va accolta. Una vera e propria metafora della vita, infatti, a chi non capita di subire rotture e ferite nel corso del proprio cammino? In Occidente culturalmente si fa fatica ad accettare, a diventare consapevoli e a fare la pace con le proprie crepe, tanto del corpo, quanto dell’anima. Le ferite, le spaccature e le fratture sono percepiti come fragilità, imperfezione, additati e colpevolizzati: se è rotto è colpa di qualcuno. Se è rotto và buttato, o nel caso di una persona ferita, viene allontanata. Nella cultura orientale, invece, la vita porta insieme pienezza e rottura, ri-composizione e costante mutamento. Così, anche per le persone che hanno sofferto ed hanno ferite nel corpo e nell’anima è possibile valorizzare le proprie cicatrici acquistando una nuova bellezza e preziosità. La sofferenza è parte della vita, se impariamo a sentirla e a riconoscerla, c’insegna, che siamo vivi; se poi è accolta, ci cambia, ci rende a volte più forti, a volte più saggi. In tutti i casi lascia un segno. Elaborare una ferita è un procedimento lento, che necessita cura, pazienza e amore, ma garantisce risultati imprevisti e bellissimi, può rivelare aspetti nascosti, forme nuove e affascinanti. Si scopre, così, che da un’imperfezione, da una crepa, può come per magia, nascere una forma nuova, unica, di perfezione estetica. Proprio come le nostre vite. Le “persone” che hanno sofferto possono diventare ancor più preziose. D’altronde, anche le perle nascono dal dolore, dalla sofferenza di un’ostrica ferita da un predatore, o da una lesione cicatrizzata. I giapponesi che hanno inventato il Kintsugi lo hanno compreso più di sei secoli fa e lo ricordano sottolineandolo con l’oro. Pensate ancora che le ferite vadano nascoste? O sarebbe meglio, farle risplendere, proprio come si fa con l’arte del Kintsugi? suor Maria Luisa Casiraghi MC