LE PIETRE DELLA VITA Kybaykita ci insegna cosa è bene fare con le pietre della nostra vita. Ai lati della strada sterrata, che si snoda tra rossi sentieri africani, di tanto in tanto, s’innalza un gigantesco Baobab, che come i campanili o le pagode, le cupole o le torri s’innalza in uno sforzo per raggiungere il cielo. Ma a differenza di chi per innalzarsi deve essere agile, il Baobab è grasso, non slanciato e il suo salire nasce da radici diventate, col passare del tempo, un groviglio di tronchi annodati. Il Baobab dall’alto della sua imponenza ne ha viste tante. È testimone di età antiche, di eroi senza qualità, di vanità, di imprese… È l´albero simbolo delle savane, una poderosa scultura del mondo vegetale. Vive oltre 500 anni. Il suo tronco può raggiungere un diametro di 15 metri e un´altezza di 25: un vero gigante della natura. Nel continente africano il Baobab è il centro gravitazionale della vita sociale dei villaggi: sotto la sua ombra si tengono i mercati, le riunioni degli anziani, le udienze dei giudici, le danze rituali, i giochi dei bimbi. Per le carovane e i viaggiatori rappresenta un fondamentale punto di riferimento per orientarsi, un elemento imprescindibile del paesaggio. Sotto il Baobab gli anziani impartiscono, specialmente ai giovani, preziosi consigli di saggezza e utili regole di educazione pedagogica ed ambientale. Proprio per ascoltare Kibaykita, uno degli anziani più rispettati del villaggio, un giorno sotto il Baobab si radunò un gruppetto di giovani. L’anziano cominciò a narrare e, affinché le sue parole rimanessero impresse nella mente e nel cuore dei suoi ascoltatori, usò anche elementi dell’ambiente che erano parte della vita quotidiana. Prese un barattolo di vetro, di quelli solitamente usati per la conserva di pomodoro e lo poggiò di fronte a sé sulle radici aggrovigliate del Baobab. Chinatosi sotto lo sgabello dov’era seduto, tirò fuori una decina di pietre, di forma irregolare e con attenzione, una alla volta, le infilò nel barattolo. Quando il barattolo fu riempito completamente e nessun’altra pietra poteva essere aggiunta, chiese: “Il barattolo è pieno?”. Tutti risposero di sì. “Davvero?”. Si chinò di nuovo sotto lo sgabello e tirò fuori un secchiello di ghiaia. Versò la ghiaia agitando leggermente il barattolo, di modo che i sassolini scivolassero negli spazi tra le pietre. Chiese di nuovo: “Adesso il barattolo è pieno?”. A questo punto, chi lo ascoltava aveva capito. ”Probabilmente no” rispose uno. “Bene” replicò l’anziano. Si chinò e prese un secchiello di sabbia, la versò nel barattolo, riempiendo tutto lo spazio rimasto libero e, di nuovo chiese: “Il barattolo è pieno?”. “No!” risposero in coro. “Bene!” riprese l’anziano. Tirata fuori una brocca d’acqua, la versò nel barattolo riempiendolo fino all’orlo. A questo punto Kibaykita chiese: “Qual’ è la morale della storia?”. Una mano si levò all’istante: “La morale è, non importa quanto fitta di impegni sia la tua agenda, se lavori sodo ci sarà sempre uno spazio per aggiungere qualcos’altro!”. “No – replicò l’anziano – il punto non è questo. La verità che questa immagine ci insegna è che, se non metti dentro prima le pietre nel barattolo, non riuscirai mai più ad infilarle”. Poi, l’anziano seduto all’ombra del Baobab, continuò rivolgendosi a ciascuno: “Quali sono le “pietre” della tua vita? I tuoi figli, i tuoi cari, il tuo grado di istruzione, i tuoi sogni, una giusta causa. Insegnare o investire nelle vite di altri, fare altre cose che ami, avere tempo per te stesso, la tua salute… Ricorda di mettere queste “pietre” prima, altrimenti non entreranno mai. Se ti esaurisci per le piccole cose (la ghiaia, la sabbia), allora riempirai la tua vita con cose minori, di cui ti preoccuperai, non dando mai veramente spazio e valore alle cose grandi e importanti (le pietre)”. Chiunque voglia riflettere sull’insegnamento del saggio Kibaykita può chiedersi: “Quali sono le ‘pietre’ nella mia vita?” Metti nel barattolo, prima, quelle più importanti.
SERVIRE LA FRATERNITÁ
SERVIRE LA FRATENITÁ La chiamata del dialogo interreligioso Da quando sono atterrata in Mongolia, Paese in cui la Chiesa cattolica è un piccolissimo gregge, la realtà del dialogo interreligioso sta assumendo per me, sempre più concretezza. Con papa Paolo VI e il Concilio Vaticano II il dialogo interreligioso ha ricevuto una forte spinta e ha assunto un posto speciale nel cuore della Chiesa. Ma che cosa è questo dialogo? Dio Trinità è, nella sua identità più profonda, dialogo vivo e vivificante di Amore che nella sua sovrabbondanza si riversa sull’umanità e la coinvolge, così come ci rivela il mistero dell’Incarnazione del Figlio. Per questo possiamo pensare al dialogo come ad una chiamata che deve diventare un atto d’amore al servizio della fraternità. È un’esperienza che va desiderata, cercata, per la quale va creato lo spazio fecondo perché questo incontro possa accadere. Certo il primo contatto con l’altro, diverso da me, spaventa sempre un pò e chiede di affrontare una certa dimensione di rischio. Ci si può chiedere: Come farò? Da dove incomincio? E se non ci capiamo? Dovrò rinunciare alla mia propria identità nel dialogo? Il Dialogo Interreligioso è prezioso e delicato, richiede un atteggiamento di ascolto, di stima e di rispetto, un’apertura a dare e ricevere, in una relazione che coinvolga tutto l’essere della persona. Questo implica coraggio, responsabilità, interdipendenza e umiltà. Nel vero dialogo i due dialoganti crescono insieme, camminano insieme e si arricchiscono venendo rinsaldati nella propria profonda identità, ma allo stesso tempo aprendo il cuore ad una concreta fraternità. Tutto questo con la fiducia che mentre si inizia a camminare, la via appare. Mons. Pietro Rossano diceva che il dialogo non avviene tra le diverse religioni, ma tra persone che professano diverse religioni. Questo ci dà già un’indicazione preziosa: la persona va messa al centro. Passo dopo passo si costruiscono relazioni significative con i membri delle altre religioni in un dialogo di vita, di esperienze spirituali, in uno scambio teologico e in una “complicità nella carità”, perché possano crescere la dignità umana e le ricchezze spirituali e morali delle persone e perché, insieme, si cerchi di promuovere un concreto impegno per la pace, la custodia del creato, la libertà, lo sviluppo dei valori, la cura per i più piccoli. Recentemente ho avuto il dono di prendere parte al Settimo Colloquium Buddista-Cristiano (13-16 novembre), promosso dal Dicastero per il Dialogo interreligioso in collaborazione con la conferenza episcopale thailandese, diverse istituzioni buddiste e l’università buddista Mahachulalongkornrajavidyalaya. L’incontro, tenutosi a Bangkok, aveva come tema Karuṇā e Agape in dialogo per la guarigione di un’umanità e di una terra ferite e ha visto la partecipazione di buddisti e cristiani da Cambogia, Hong Kong, India, Giappone, Malesia, Mongolia, Myanmar, Singapore, Sri Lanka, Corea del Sud, Thailandia, Taiwan, Regno Unito. Sono stati giorni intensi di ascolto, incontro, riflessione e condivisione sull’amore e la compassione come strumenti per guarire l’umanità e la terra ferite. Mi porto dietro la bellezza delle relazioni e dei momenti di condivisione ( anche informali), la profondità delle riflessioni condivise e la speranza che un cammino comune nel bene sia possibile e possa farsi segno luminoso ed eloquente per il nostro mondo segnato dalla violenza e dal rifiuto dell’altro. Come suora missionaria della Consolata in Mongolia mi sono sentita incoraggiata a muovere passi in questa direzione, a muovermi alla ricerca dell’altro, ad appassionarmi a conoscere e studiare le diverse realtà con cui vengo a contatto, sognando il dialogo che diventa mano tesa, concreto bene per tutti, crescendo nell’ascolto del grido dell’umanità e nell’avere un cuore capace di vera fraternità. Sr. Francesca Allasia https://www.youtube.com/watch?v=g3th0jIzay8&t=81s
Dio ascolta gli imperfetti
Dio ascolta gli imperfetti Nel nostro tempo può capitare che ci interroghiamo su come fosse la vita ordinaria, normale, sotto grandi re o imperi. È un’attenzione tutta moderna, che a volte può trovare risposte difficili, proprio perché gli scrittori antichi non erano attenti alla vita quotidiana, quella della gente comune. Con lo stesso spirito, ci piacciono sempre di più libri, film o prodotti teatrali o televisivi che non si limitino a raccontare la storia principale, ma che traccino anche bene i ritratti dei personaggi secondari, che non li riducano a macchiette. Se con questa attenzione andiamo a leggere le opere antiche, restiamo spesso delusi, perché l’attenzione si concentra normalmente solo sulle vicende centrali, e a lato rimangono soltanto schizzi molto veloci. In questo la Bibbia è spesso sorprendente. L’approccio resta quello, e tra l’altro con un’attenzione alla psicologia che normalmente non è moderna, ossia è molto superficiale. Eppure, poi, ci sono numerosi squarci che ci stupiscono, che mostrano di essere attenti e delicati nei confronti degli avversari, o dei personaggi che restano ai margini. Una schiava egiziana Uno di questi personaggi è Agar. Di lei sapremmo, di per sé, solo quello che serve al racconto di Abramo e della sua ricerca di un discendente. Quando infatti Abramo si è già sentito promettere diverse volte un figlio che non arriva, alla moglie Sara viene un’idea, che è quella di usare a quello scopo la propria schiava, che viene, in quel momento, ridotta semplicemente a uno strumento. Di fronte alle ripetute prospettive di un figlio per Abramo, infatti (Gen 12,7; 13,15-16; 15,4-5.18), Sara, sterile (Gen 11,30), trova una via d’uscita nell’offrire al marito la propria schiava, così che concepisse con lei un figlio che poi avrebbe fatto partorire “sulle ginocchia” (come avrebbe fatto più tardi anche Rachele con Bila: Gen 30,3) per offrire al neonato lo statuto di figlio libero e non di schiavo. Come ci aspetteremmo, non ci viene detto nulla sullo stato d’animo di Agar, veniamo solo a sapere che è una schiava egiziana, il che può suonare ancora più avvilente, perché viene da una società ricca, potente e dominante, ma lei è caduta talmente fuori dal proprio mondo da finire schiava di un nomade senza patria né prospettive… Il progetto di Sara sembrerebbe procedere bene, perché Agar resta incinta, ma da questo momento veniamo a sapere che anche la schiava ha un suo carattere e propri sentimenti, seppure negativi e discutibili, in quanto «la sua padrona non contò più niente per lei» (Gen 16,4). È come se questa schiava, tanto insignificante che finora non avevamo sentito parlare di lei, improvvisamente pensi di poter diventare qualcuno, offrendo al marito della sua padrona un figlio. E questo, che può anche essere vissuto (da noi moderni, ma in fondo anche nel mondo religioso del Primo Testamento) come un riscatto, diventa però motivo di vanto, di orgoglio, e Agar passa immediatamente dalla parte del torto. Peraltro, ne paga subito le spese, perché Sara si lamenta con Abramo di questo cambiamento, ottiene la facoltà di (mal)trattarla come vuole, tanto che Agar fugge. La fuga di una schiava, donna, straniera, sola, incinta, in un territorio desertico, è qualcosa di molto vicino a un suicidio, non può avere molte prospettive davanti a sé, il che ci fa intuire a quale livello di maltrattamento aveva dovuto sottostare. Il lamento udito È nel deserto che viene incontrata dall’«angelo del Signore» (Gen 16,7), che dimostra di conoscerla (la chiama per nome, e poi aggiunge il suo essere schiava di Sara) e le chiede che cosa faccia lì, nel deserto, ferma accanto a una sorgente, da sola. Lei spiega la propria fuga, e si sente rispondere di tornare dalla padrona, e di restare a lei sottomessa. Poi, senza ulteriori stimoli, l’angelo prospetta anche ad Agar ciò che era stato promesso ad Abramo, ossia una discendenza innumerevole, che, è vero, vivrà nel deserto e in scontro costante con tutti quelli che la circonderanno, ma vedranno il bambino e la sua discendenza come un «asino selvatico», costretto a una vita precaria ma non addomesticabile, ruvido e intrattabile ma libero. E Agar riconosce l’importanza di questa visione, lascia il nome al pozzo (Gen 16,13-14). È come se la sua vicenda l’avesse resa importante e libera come il suo padrone. O, per meglio dire, non solo o non tanto la sua ribellione, quanto l’incontro con il Signore (rappresentato dall’angelo) che ha visto e ascoltato anche la sua oppressione e tristezza. Un Dio che non la appoggia nella sua rivolta, in quanto la invita a tornare dalla padrona e a restarle sottomessa, ma dimostra di essere attento anche a lei, le promette che le sue lacrime non saranno dimenticate né inutili. Il secondo esilio Ma non basterà neppure quello. Agar, infatti, torna da Abramo e Sara e partorisce ad Abramo un figlio, Ismaele. Poco dopo Dio appare di nuovo ad Abramo e gli rinnova le proprie promesse, alle quali Abramo risponde con un per noi un po’ enigmatico «Viva Ismaele davanti a te» (Gen 17,18), che significa qualcosa del tipo: “Va bene, sono lieto delle benedizioni e promesse che mi rinnovi, di una discendenza innumerevole. Ma, vedi, io sono vecchio e mia moglie pure, e abbiamo pensato di aiutare l’adempimento della tua promessa procurandoci un figlio, che c’è. È figlio mio, come mi avevi promesso, vero che è lui la via tramite cui mi verrà una discendenza?”. Ma Dio rinnega subito questa ipotesi. Come se fosse femminista prima del tempo, pare quasi dire che, se la promessa del figlio era arrivata ad Abramo, sicuramente coinvolgeva, alla pari, anche Sara. Ad avere un figlio sarà Sara, entro un anno (Gen 17,19.21). Ismaele viene benedetto (17,20), ma non è il percorso voluto da Dio. Così, da una parte, la promessa ad Abramo resta rinnovata e precisata. Ma, dall’altra, Agar rimane marginale e dimenticata, potremmo dire. Il progetto divino si compie, Sara concepisce e partorisce Isacco e i due figli di Abramo crescono insieme. Troppo amici, secondo Sara, che si indispettisce del buon rapporto tra di
Cento anni in Etiopia
Vi annuncio una grande gioia, sono trascorsi cento anni da quando le Suore Missionarie della Consolata sono partite per l’ Etiopia il 7 febbraio 1924! Come nacque questa vocazione missionaria nel cuore del Fondatore? Fin dall’inizio del suo sogno missionario, intendeva inviare evangelizzatori presso i popoli del Kaffa (Etiopia) a continuare l’opera del Cappuccino italiano Card. G. Massaia, espulso dal paese nel 1878. Con l’ arrivo delle Pioniere (gruppo fondante) ad Addis Abeba: Suor Virginia Barra, Suor Vittoria Lazzero, Suor Pierina Magistrelli, Suor Carmela Forneris, Suor Tecla Imboldi e Suor Giuditta Baroni ebbe così inizio in questa terra l’avventura missionaria della Consolata al femminile. Con una gioia immensa nel cuore voglio esprimere la mia gratitudine a Dio Padre Onnipotente che ha ispirato questo fuoco al Cardinal Guglielmo Massaia, Cappuccino che ha animato il nostro Padre Fondatore raccontando le sue esperienze missionarie in Etiopia, specificamente in Kaffa; così L’Allamano sognò l’Etiopia come primo orizzonte missionario. Saldo è il mio cuore arrivando al cento anni della presenza, dell’Evangelizzazione, della missione e della consolazione in Etiopia e vedendo che si è realizzato il primo sogno del nostro padre fondatore Giuseppe Allamano! Torniamo indietro un po’ e facciamo memoria, sfogliando i libri di storia: l’ Allamano, dovendo recarsi a Roma per trasmettere la documentazione relativa al processo per la beatificazion del Canonico Cafasso, coglie l’occasione per sondare gli umori di Propaganda Fide nei riguardi dell Istituto, ma considera inopportuno parlare della questione Kaffa al Prefetto card. Gotti «perché – dice – non avevo dati precisi» . Lo scrive al Camisassa che si trova ancora in Kenya e che, insieme al nipote mons. Perlo, sta lavorando al “progetto Kaffa”. L’ Allamano, prudente per natura ed equilibrato nelle sue scelte, frena l’entusiasmo dei due. Se ne riparlerà, dice. Infatti, al suo ritorno, il Camisassa prepara, a nome dell’Allamano, una Relazione sul Kaffa che viene inviata il 16 maggio 1912 a Propaganda Fide con la richiesta di ottenere il benestare della Congregazione. I motivi addotti per indurre Propaganda Fide a fare il passo non sembrerebbero fondarsi su situazioni di fatto, ma su opinioni o previsioni raccolte dai circoli. Si riconosce però alla base di questa richiesta il tacito impegno che l’Allamano aveva preso nella fondazione dell’Istituto di continuare l’opera del Massaja in Etiopia. Nella vita missionaria ci sono sempre sfide, però esse sono occasioni che ci accostano al Signore e ci fanno crescere di più. Le nostre prime Missionarie della Consolata in Etiopia ebbero problemi politici nel Paese e lasciarono l’Etiopia, tuttavia, grazie al buon Dio e a P. Gaudenzio Barlassina, che aveva fondato le Suore Ancelle di Maria Consolata, continuò una presenza che rimase fedele fino al ritorno delle missionarie della Consolata, 22 agosto 1974, in quella terra amata che un tempo veniva chiamata l’Abissinia, ed ora Etiopia. Undici Suore Ancelle della Consolata erano rimaste aspettando il ritorno delle Missionarie più di 30 anni e chiesero di diventare Missionarie della Consolata; nel 1975 davanti alla Superiora generale, Madre Fernanda Del Vecchio, fecero i voti perpetui. Grazie a loro che hanno lasciato acceso il fuoco della missione, che continua oggi a rigenerare la missione ad gentes! Voglio veramente rendere grazie al Signore per il dono di ogni Sorella che ha donato la sua vita per l’evangelizzazione e per il cammino della fede cristiana; in modo particolare vogliamo ricordare sr. Teofana Berbenni, morta di tifo esantematico, di sr. Cirenea Testa, deceduta in seguito a tifo petecchiale, e sr. Eliodora Zottic, ferita tragicamente in un assalto di briganti, con Padre Quinto Gardetto, sulla strada da Nekemte ad Addis Abeba, il primo aprile, 1941. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. (Gv 12,24) Oggi abbiamo Suore Missionarie della Consolata etiopi sparse nel mondo, si vede che il chicco di grano caduto in terra ha dato il suo frutto abbondante, grazie alle prime Missionarie della Consolata che hanno seminato lo spirito missionario e donato la vita. Viva Etiopia! Viva Allamano! Viva la Consolata! Ecco i loro nomi: Sr.Getenesh Wolde Amlak Mandefro (Addis Abeba), Sr. Bachu Gemechu Chewaka (Wollega), Sr. Kibinesh Amanuel Untiso (Hosana), Sr. Teresa Gabriel (Gambo), Sr. Blien Worku Yadesa (Addis Abeba), Sr. Adanech Mitiku Shawo (Kaffa), Sr. Meselech Gizaw Woldemichael (Kaffa), Sr. Soreti Temesgen Abosha (Wollega), Sr. Almaz Tesfaye Arficho (Shishicho), Sr. Birtukan Miju Duchiso (Gedio) Sr. Tsion Kochito Alemu (Kaffa) Suor Almaz, Suor Adanech, Suor Soreti e Suor Tireza, Missionarie della Consolata etiopiche Suor Adanech, MC Vi annuncio una grande gioia, sono trascorsi cento anni da quando le Suore Missionarie della Consolata sono partite per l’ Etiopia il 7 febbraio 1924! Come nacque questa vocazione missionaria nel cuore del Fondatore? Fin dall’inizio del suo sogno missionario, intendeva inviare evangelizzatori presso i popoli del Kaffa (Etiopia) a continuare l’opera del Cappuccino italiano Card. G. Massaia, espulso dal paese nel 1878. Con l’ arrivo delle Pioniere (gruppo fondante) ad Addis Abeba: Suor Virginia Barra, Suor Vittoria Lazzero, Suor Pierina Magistrelli, Suor Carmela Forneris, Suor Tecla Imboldi e Suor Giuditta Baroni ebbe così inizio in questa terra l’avventura missionaria della Consolata al femminile. Con una gioia immensa nel cuore voglio esprimere la mia gratitudine a Dio Padre Onnipotente che ha ispirato questo fuoco al Cardinal Guglielmo Massaia, Cappuccino che ha animato il nostro Padre Fondatore raccontando le sue esperienze missionarie in Etiopia, specificamente in Kaffa; così L’Allamano sognò l’Etiopia come primo orizzonte missionario. Saldo è il mio cuore arrivando al cento anni della presenza, dell’Evangelizzazione, della missione e della consolazione in Etiopia e vedendo che si è realizzato il primo sogno del nostro padre fondatore Giuseppe Allamano! Torniamo indietro un po’ e facciamo memoria, sfogliando i libri di storia: l’ Allamano, dovendo recarsi a Roma per trasmettere la documentazione relativa al processo per la beatificazion del Canonico Cafasso, coglie l’occasione per sondare gli umori di Propaganda Fide nei riguardi dell Istituto, ma considera inopportuno parlare della questione Kaffa al Prefetto card. Gotti «perché – dice – non avevo dati precisi» . Lo scrive al Camisassa che si trova ancora in Kenya e che, insieme al nipote mons. Perlo, sta lavorando al “progetto Kaffa”. L’ Allamano, prudente per natura ed equilibrato nelle sue scelte, frena l’entusiasmo dei due. Se ne riparlerà, dice. Infatti, al suo ritorno, il Camisassa prepara, a nome dell’Allamano, una Relazione sul Kaffa che viene inviata il 16 maggio 1912 a
Buon compleanno, famiglia!
Celebrare un compleanno è molte volte un’occasione per riunirsi come famiglia e ringraziare insieme per il dono della vita. Lo è anche per noi, ogni 29 gennaio: i Missionari della Consolata furono fondati proprio in quel giorno, nel 1901, e il 29 gennaio 1910 nasceva anche l’Istituto delle Suore Missionarie della Consolata. All’inizio, un Padre All’origine della famiglia missionaria c’è un Fondatore, anzi, no: un Padre. Un Padre che alla fine della vita ci ha detto: “Potevano esserci persone più capaci di me, ma uno che vi amasse quanto vi amo io, no”. Il Beato Giuseppe Allamano, nostro Padre Fondatore, attento alla volontà di Dio, ha fondato dapprima i Missionari, quindi le Missionarie della Consolata. La sua più grande preoccupazione era la santità dei suoi figli e figlie, perché la vocazione missionaria consiste nel toccare i cuori e aprire strade affinché Gesù sia conosciuto, accolto e amato da chi ancora non lo conosce. Solo chi è profondamente unito a Gesù può annunciarlo, dapprima con la propria vita, quindi (eventualmente) a parole. Ma Giuseppe Allamano non è stato un avventuriero solitario: è stato guidato dalla Madonna Consolata, colei che è stata la vera Fondatrice della nostra congregazione, da cui ha ricevuto l’ispirazione carismatica, e a cui continuiamo a ritornare come grembo fecondo che continua a rigenerarci. Al suo fianco, un amico: il Canonico Giacomo Camisassa, con cui ha lavorato instancabilmente 22 anni per il bene della Chiesa torinese (nel Santuario della Consolata) e della Chiesa universale (con la missione ad gentes). 114 anni di missione e consolazione La missione è cambiata profondamente nel corso del secolo XX, ma non è venuto meno lo slancio dell’annuncio. All’inizio, la preoccupazione per la salvezza delle anime vedeva nel Battesimo l’unica porta per ricevere l’abbraccio misericordioso di Dio. In Africa, ci sono state Sorelle della prima ora che hanno compiuto atti eroici, pur di poter amministrare il Battesimo a non cristiani. Celebre è il caso della Beata Irene Stefani che, da sola, ha spostato un numero considerevole di cadaveri accatastati in riva al mare, alla ricerca di quel moribondo che, lei lo sapeva, non era ancora morto e che avrebbe battezzato in quel giorno. “Pensavo solo alla sua anima” confidò a suor Cristina, sua compagna di missione negli ospedali militari sulle rive dell’Oceano indiano. Ma la missione è costellata di tanti casi, meno eclatanti, ma non per questo di minor valore, vissuti nella quotidianità, secondo l’intuizione del Beato Giuseppe Allamano: “Siate straordinarie nell’ordinario”, donando amore giorno dopo giorno. Con il Concilio Vaticano II la visione di missione è cambiata, sono cambiati i contesti socio culturali e si sono aperte altre strade. Vogliamo ricordare i cammini insieme ai popoli nativi in America, che negli Anni Novanta del secolo XX sono stati caratterizzati dalla rivendicazione dei diritti umani e del diritto alla terra, e che continuano fino ad oggi nel dialogo interculturale e interreligioso, costruito giorno dopo giorno: un’ esperienza che arricchisce la Missionaria, che riceve il centuplo, mietendo abbondantemente campi che il Signore stesso ha seminato, nell’esperienza religiosa di ogni cultura e popolo. L’inizio dell’attuale millennio è stato caratterizzato dall’apertura all’Asia, come orizzonte della prima evangelizzazione attuale. Nel 2003 i due Istituti della Consolata raggiungono la Mongolia, oggi la nostra presenza si è estesa anche a Kazakistan e Kirghizistan. Il dialogo interreligioso con le grandi religioni – in particolare il Buddismo e l’Islamismo – caratterizza l’ad gentes attuale, anche nel Continente africano (Gibuti). Un Istituto piccolo, corpo unico e unito Le Suore Missionarie della Consolata non sono mai state una congregazione numerosa, ma ultimamente la diminuzione numerica si fa sentire in maniera acuta. La piccolezza è sentita non come il risultato ineluttabile di una diminuzione delle vocazioni, ma come un’opportunità e una benedizione a ripensarci come un corpo unico e unito, dove tutte contribuiamo in unione e comunione. La famiglia religiosa è di fondazione italiana, ormai da più di mezzo secolo è diventata una congregazione internazionale, dove il carisma si incarna, unico e sempre nuovo, in tante espressioni diverse. Attualmente il numero di suore non raggiunge i 500 membri e conta ben 15 nazionalità di tre Continenti! Ci sentiamo in sintonia con le parole di Papa Francesco, che si riferisce a Santa Teresina così: ”È patrona delle missioni, ma non è mai stata in missione: come si spiega, questo? Era una monaca carmelitana e la sua vita fu all’insegna della piccolezza e della debolezza: lei stessa si definiva “un piccolo granello di sabbia”. Di salute cagionevole, morì a soli 24 anni. Ma se il suo corpo era infermo, il suo cuore era vibrante, era missionario. Senza apparire intercedeva per le missioni, come un motore che, nascosto, dà a un veicolo la forza per andare avanti. I missionari, infatti, di cui Teresa è patrona, non sono solo quelli che fanno tanta strada, imparano lingue nuove, fanno opere di bene e sono bravi ad annunciare; no, missionario è anche chiunque vive, dove si trova, come strumento dell’amore di Dio” (Udienza generale del 7/6/2023). Chiediamo, in questo compleanno di famiglia, la benedizione del Signore e della Consolata affinché possiamo continuare con fedeltà il progetto d’amore che Dio – nella sua infinita misericordia – vuole confidarci. BUON COMPLEANNO, FAMIGLIA! Suor Stefania, mc 114 anni di vita, missione e consolazione Celebrare un compleanno è molte volte un’occasione per riunirsi come famiglia e ringraziare insieme per il dono della vita. Lo è anche per noi, ogni 29 gennaio: i Missionari della Consolata furono fondati proprio in quel giorno, nel 1901, e il 29 gennaio 1910 nasceva anche l’Istituto delle Suore Missionarie della Consolata. All’inizio, un Padre All’origine della famiglia missionaria c’è un Fondatore, anzi, no: un Padre. Un Padre che alla fine della vita ci ha detto: “Potevano esserci persone più capaci di me, ma uno che vi amasse quanto vi amo io, no”. Il Beato Giuseppe Allamano, nostro Padre Fondatore, attento alla volontà di Dio, ha fondato dapprima i Missionari, quindi le Missionarie della Consolata. La sua più grande preoccupazione era la santità dei suoi figli e figlie, perché la
Il martirio della Beata Leonella in Università
Marco Piacentino ha discusso la tesi dottorale sul martirio della Beata Leonella Sgorbati a Cagliari, il 24 gennaio 2024, alla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna
Nuova Direzione regionale in America
A São Paulo, in Brasile, si è tenuta dal 7 al 23 gennaio 2024 la Prima Conferenza della Regione America. Venticinque Missionarie della Consolata, rappresentanti i vari territori del Continente, si sono radunate nella Casa regionale per condividere, riflettere e decidere le linee programmatiche dell’ Istituto presente in America, concretizzando gli orientamenti e mandati del Capitolo generale, svoltosi in Italia (Nepi) nel maggio 2023. I PRIMI PASSI DELLA REGIONE AMERICA “Ecco, io faccio una cosa nuova. Proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” La citazione biblica del Profeta Isaia (43,19) ha illuminato i lavori della Conferenza, un tempo molto importante per la Regione che riunisce le comunità presenti negli Stati Uniti, Colombia, Venezuela, Brasile, Bolivia e Argentina. La costituzione della Regione America risale al 7 ottobre 2018, data in cui si sono unite in un’unica circoscrizione le presenze nel Continente. A causa della pandemia, non è stato possibile realizzarla, come previsto, nel 2020, e nemmeno nel 2021. La “cosa nuova” che germoglia, secondo l’immagine presentata dal profeta, è una Regione molto vasta, che va dai Grandi Laghi degli Stati Uniti fino a Buenos Aires, in Argentina. Conta 177 Sorelle e 23 comunità. Nel primo quinquennio di vita la Regione ha identificato tre priorità, confermate dalla Conferenza: l’ad gentes specifico con i Popoli Originari; la cura delle Sorelle anziane e la loro preziosa missione di offerta nella preghiera; l’animazione missionaria, vocazionale e giovanile. La Conferenza regionale è stata un tempo propizio di condivisione dei cammini compiuti in queste tre aree prioritarie, oltre che una proiezione, alla luce del mandato del Capitolo generale, del cammino da intraprendere per il prossimo sessennio. ELEZIONE DELLA NUOVA DIREZIONE REGIONALE L’assemblea della Conferenza è stata chiamata a eleggere la nuova Direzione regionale, che accompagnerà i cammini della Regione America. SUOR NATALINA STRINGARI, brasiliana, della comunità di Castelnuovo Don Bosco in Italia, è la nuova Superiora regionale. Le Consigliere regionali elette sono: SUOR ELEUSA SOCORRO DO CARMO FERREIRA, brasiliana, della comunità di Normandia (Roraima – Nord Brasile). SUOR MARIA TRINIDAD DUQUE MARIN, colombiana, della comunità El Vergel di Bogotá (Colombia). SUOR MARY AGNES NJERI MWANGI, keniota, della comunità di Catrimani (Roraima – Nord Brasile). SUOR IMELDA STEFANI, italiana, della comunità di Caracas (Venezuela). Alle Sorelle elette diciamo il nostro GRAZIE per la loro disponibilità di servizio alla famiglia missionaria nel Continente America! E a tutte le Missionarie della Consolata nel Continente auguriamo: BUONA MISSIONE! Suor Stefania, MC
Costruendo Pace per godere la meraviglia della Creazione
Più di cinque anni fa, come missionaria, ho avuto la gioia di giungere a Puerto LeguÍzamo, nell’Amazzonia Colombiana, sulle sponde del fiume Putumayo che unisce Colombia a Perù ed Equador. Questo fiume Putumayo mi parla di universalità, unione di differenze, ricchezza, abbondanza di acqua, verde, pesci…VITA!!! Una mamma mi diceva: “Qui lungo il fiume abbiamo tutto, non ci manca niente!” Davvero visitando queste comunità e famiglie lungo il fiume si respira Pace e si resta incantati dalla bellezza della natura e da tutto ciò che il Signore ha creato…! Però molte volte queste famiglie improvvisamente devono lasciare tutto a causa della violenza. Per salvare la loro vita e quella dei figli, lasciano casa, terra… e quanto possiedono. E’ da ringraziare il signore se riescono ad uscire tutti vivi… non sempre è cosi. Ho compreso quindi perché qui, ogni anno la Chiesa e vari gruppi dedicano molto impegno per pregare e realizzare varie iniziative in comune per costruire la Pace. Appena arrivata mi colpì tanto l’impegno che il Parroco Padre José Maria Córdoba dedicò per realizzare una “CAMMINATA PER LA PACE” coinvolgendo tutte le Parrocchie, Scuole, Religioni e gruppi diversi, bambini, giovani, adulti , nonni… Così ogni anno si cerca di fare il possibile per animare, riflettere, pregare, camminare insieme…, certi che senza Pace non c’è vita, non c’è futuro, non c’è gioia. Il Signore possa aiutare lo sforzo di ognuno per poter vivere nella fraternità, in un territorio meraviglioso, senza dover lasciare tutto improvvisamente e vivere come “desplazados” senza terra, senza casa, senza familia… Suor Maria Marangi M. C.
Irene: Acqua, Ponte e Fuoco
Siamo in un mese particolare, ottobre del 2023 e in questo mese la chiesa dedica un’attenzione particolare alla missione, è il mese missionario. Quest’anno poi abbiamo la ricchezza di un sinodo, un sinodo sulla sinodalità, quindi sul camminare insieme. E per noi i Missionari e missionarie della Consolata il mese di ottobre si tinge anche del colore di Irene, la nostra Beata, della quale festeggiamo proprio nel mese di ottobre la sua nascita al cielo. Il 31 ottobre Irene passa da questa vita alla vita eterna. Tanti anni fa lei muore a 39 anni nel 1930 in Kenya dopo un percorso di 15 anni di missione in mezzo alle popolazioni di Kenya e Tanzania. Allora mi sembra importante raccogliere questi triplici significati del mese di ottobre. Per noi oggi la missione, un sinodo della chiesa universale che appunto celebra questa tappa importante del percorso sinodale, la tappa universale e guardare tutto questo alla luce dei suoi Irene, della nostra Beata. Mi sembra che Irene, allora come oggi, possa essere veramente una ispirazione per noi missionari della Consolata, per tutti i missionari e le missionarie, per la chiesa intera e mi piacerebbe raccogliere alcune suggestioni della sua esperienza missionaria che possano illuminarci in questo mese missionario, e questo mese sinodale. Un’esperienza che accompagna Irene o meglio un simbolo che accompagna Irene e direi fin da piccola, fin dalla nascita, è quello dell’acqua. Irene nasce sul Lago d’Idro in Valsabbia, provincia di Brescia. Per chi ha visto il Lago d’Idro, è un’esperienza direi particolare il poterlo ammirare. E’ un lago piccolo, nascosto tra le gole della Valsabbia; ecco attorno al lago si ergono delle montagne ripide come a custodirlo, ma è un lago anche di una trasparenza particolare. L’acqua del Lago d’Idro è straordinariamente limpida e da un colore anche tutto suo che varia tra il verde e l’azzurro. Ospita anche una qualità pregiata di pesce, una particolare trota, che addirittura costituiva una prelibatezza sulla mensa dei regnanti dei Savoia, quindi ecco è una piccola perla idrica nella nello straordinario panorama della Valsabbia. Ha sempre colpito a me questa particolare trasparenza dell’acqua del Lago d’Idro insieme alla sua profondità e non posso fare a meno di relazionarla in qualche modo a Irene. Irene un po’ così, Irene è acqua, ma è l’acqua raccolta tra le montagne di una valle silenziosa e anche erta, ripida. Un’acqua profonda, straordinariamente trasparente ove la vita ama nascere, moltiplicarsi e crescere. Ecco, Irene è acqua, è così, è trasparenza di Dio. In lei si riflette il cielo, in lei si riflette chiunque voglia avvicinarsi a questo specchio d’acqua e trovare se stesso, rispecchiandosi in questa luce che è la luce di Dio. Il simbolo dell’acqua accompagnerà, Irene sarà la donna dei battesimi lungo i suoi intensissimi quindici anni di vita missionaria in Tanzania e soprattutto in Kenya amministrerà migliaia di battesimi. Sappiamo che ne abbia dati almeno quattromila, ma probabilmente molti di più con tutto ciò che significa il battesimo per lei e per noi, l’immersione della creatura nell’acqua rigeneratrice di Cristo, nell’acqua rigeneratrice di Dio che è padre e che madre. Ecco l’umile gesto di questa serva umile che è Irene del mettere in contatto, del facilitare l’incontro tra la creatura e il creatore immergendola nell’acqua del battesimo quindi nel contatto pieno con l’amore di Gesù che salva, che redime, che purifica e che ristora la creatura la ricrea e la illumina, quindi l’acqua dei battesimi. Ma poi se guardiamo pure al miracolo che porta la beatificazione di suor Irene che viene beatificata a Nyeri in Kenya nel 2015, questo miracolo è tutto particolare ed ha a che vedere in modo straordinario con l’acqua. E’ il miracolo che avviene in Mozambico nel villaggio di Nipepe nel gennaio del 1989 durante un attacco della guerriglia della Renamo alla sede e alla missione di Nipepe quando un gruppo di catechisti là radunati per un corso di formazione, sorpresi durante l’attacco della Renamo a celebrare la messa in chiesa, si rinchiudono in chiesa per tre giorni per ripararsi dall’attacco e supplicano suor Irene di difenderli. In quella chiesa c’è un tronco battesimale, un tronco perché non è esattamente una fonte battesimale come la si può trovare in molti posti, è un tronco scavato e adornato di simboli cristologici. In questo tronco si trovano una decina, forse 12 litri d’acqua e la gente invocando Irene perché salvi loro, le loro famiglie, dall’attacco della guerriglia, si trova a testimoniare questo miracolo. Da questo tronco piccolo, povero, rustico, eppure pieno di crepe, l’acqua continuerà a sgorgare dissetando la gente per tre giorni, ecco la gente è chiusa prigioniera in chiesa senza cibo e senza acqua. Quindi di nuovo l’acqua e Irene. Irene che moltiplica l’acqua e che diventa colei che disseta, colei che ristora, colei che salva il popolo. Di fatto poi durante l’attacco di nipepe nessuno di questi catechisti avrà dei danni, non ci saranno morti, riusciranno comunque tutti a salvarsi miracolosamente. Quindi l’acqua. Un altro simbolo, un altra immagine che può accompagnarci in questo mese missionario sinodale e in questo mese ireniano è quella del ponte. Irene la possiamo guardare come un ponte, un ponte tra i diversi, una donna di dialogo, una donna di una grandissima umiltà e semplicità e di un dono particolare nell’allacciare relazioni tra diversi, nel mettere insieme, nell’annodare i fili delle relazioni e sicuramente Irene si offre così come un ponte di dialogo. Ai suoi tempi, durante la missione che Dio le affida dialogando con la gente col popolo Kikuyu di cui imparerà benissimo la lingua. Diventerà ponte, anche traduttrice e del Popolo Kikuyu, allacciando ponti con i protestanti che avevano le loro stazioni vicine alle missioni cattoliche. Ecco lei con questa sensibilità ecumenica un po’ eccezionale per i suoi tempi, quindi allacciando buone relazioni con i protestanti, buone relazioni con le sorelle, buone relazioni con le suore del Cottolengo che erano arrivate prima delle missionarie della Consolata in Kenya e da cui Irene impara ad essere missionaria, buone relazioni con i missionari della
Quattro chiacchiere con suor Mary Agnes
Intervista a suor Mary Agnes, a cura di Padre Luis Miguel Modino, assessore della comunicazione CNBB Norte1, nella quale la Missionaria della Consolata parla del momento difficile che sta vivendo il popolo Yanomami e della sua esperienza in Catrimani da oltre vent’anni. Suor Mary Agnes Njeri Mwangi: “Con gli Yanomami ho imparato ad essere una donna di speranza e resilienza, ricominciando sempre”. Il sangue dei popoli indigeni, il sangue degli Yanomami scorre nelle vene di suor Mary Agnes Njeri Mwangi. E’ vero, questa MIssionaria della Consolata è nata in Kenya, ma dal 2000 vive in Brasile, rimanendo sempre nella missione di Catrimani, missione in cui i Missionari e Missionarie della Consolata vivono insieme a uno dei popoli più perseguitato e attaccato nel corso dell’ultimo secolo nel Brasile. Una missione che la religiosa vede come “una presenza di consolazione, una presenza di difesa della vita, e di promozione della vita”. Secondo lei “è stata una presenza di donne fra le donne” che si è concretizzata nel lavoro con le donne, negli incontri delle diverse regioni del territorio Yanomami. In questo tempo di convivenza, suor Mary Agnes, che partecipò all’ Assemblea Sinodale per l’Amazzonia come uditrice, dice di aver imparato “ad essere una donna di speranza e resilienza, a sempre ricominciare, perché la vita è molto difficile qui: in alcuni periodi sono sorte epidemie, in altri invasione del territorio”. La religiosa insiste: “ho imparato a ricominciare sempre, quando la vita sembra che non esista, sempre c’è la mano di Dio che viene all’incontro e ricominciamo. Ho imparato molto con questo modo di stare sempre disposta a ricominciare, costruire, fare qualcosa di nuovo, a superare, a stare calma, la costanza e l’amore nella convivenza”. Momenti difficili Tutto questo in una regione che ha vissuto momenti molto difficili e dove si vive il momento attuale con preoccupazione. Nella missione Catrimani molti indigeni non sono consapevoli di ciò che sta succedendo in altre regioni del territorio. Lì non arrivano i mezzi di comunicazione, il popolo non ha accesso alle immagini, l’unico mezzo di comunicazione è la radio. Davanti a questa situazione del popolo Yanomami, suor Mary Agnes afferma che “manca veramente la presenza, presenza in molte regioni Yanomami, di persone che possano stare con loro, dialogare, condividere, si sente la mancanza di persone inserite, che ascoltino qual è il problema in questo momento e che accompagnino il popolo giorno dopo giorno. E’ un momento di forte abbandono e vulnerabilità”. Le Missionarie della Consolata accompagnano alcune comunità, ma come capita spesso nell’Amazzonia, molte sono di difficile accesso “sono viaggi lunghi, a piedi, in barca” dice suor Mary Agnes. I problemi più grandi, quelli che iniziano ad apparire sui media, capitano in regioni distanti dalla missione Catrimani, dove loro non possono arrivare. “Ma anche se riuscissimo ad arrivarci, sarebbe come coprire un buco là e scoprirne uno qui… Davanti a questa situazione, suor Mary Agnes lancia un grido d’aiuto “il popolo vive nell’assenza di persone che possano realmente donare la vita e stare con loro. Stare del tempo, non solo andare e ritornare, rimanere nella regione come presenza”. “Il Signore anima la mia vocazione” E’ un tempo di dolore per il popolo che la missionaria dice di vivere come una esperienza in cui “il Signore sta animando la mia vocazione e anche l’opzione delle Missionarie della Consolata di rimanere insieme al popolo, missionarie e missionari”. E ribadisce l’importanza “di stare sempre insieme al popolo e collaborare in ciò che si può”. Alla Chiesa, la religiosa fa un appello per poter avere una presenza più grande, e ricorda la missione dello Xirei, una delle regioni più colpite attualmente, dove c’era una comunità religiosa che ha dovuto lasciare la missione nel 2006 a causa della mancanza di personale che potesse dare continuità. Unìesperienza che cominciò negli anni Novanta, quando si viveva una situaziona grave come quella di oggi. “Oggi la situazione è persino peggiore” precisa suor Mary Agnes “ma adesso non c’è la presenza delle religiose, e sento che il Signore chiede – spero sia vero – che la Chiesa cerchi altre religiose o religiosi che possano lavorare in altri fronti della regione Yanomami, perché qui è l’unica presenza della Diocesi di Roraima. Io sento questa chiamata del Signore, anzitutto l’affermazione della mia opzione, della nostra opzione di Missionarie della Consolata, di continuare qui, ma è anche un appello alla Chiesa del Brasile e del mondo, affinché si aprano altri fronti in questa realtà”. Davanti a tanto dolore e sofferenza, afferma che “continueremo lottando e unendo le forze con questo nuovo governo, che sta cercando di articolare e aiutare insieme ad altre organizzazioni civili, e come Chiesa siamo chiamati a unire le forze con le persone buone”. Una speranza non solo per suor MAry Agnes, ma per tutto il popolo che lotta per la vita, così duramente castigata. Padre Luis Miguel Modino, assessore della comunicazione CNBB Norte1 Articolo originale pubblicato in Vatican News: https://www.vaticannews.va/pt/igreja/news/2023-01/irma-mary-vida-entre-yanomami.html
Resistenza e resa di una suora ostinata
Sr. Marzia Feurra ci ha lasciato improvvisamente il 1° maggio 2022 a Gibuti. Donna per le donne, somala con i somali, infermiera, sarta, ma sempre sorella cristiana tra fedeli musulmani: queste le coordinate dei suoi 60 anni di vita religiosa, tutti spesi ai 45° all’ombra nel Corno d’Africa. Da un’intervista rilasciata nel 2019 a Paola Aversa, della Caritas di Roma. Quando è iniziata la vostra presenza in Somalia? La nostra congregazione aprì la sua prima missione a Mogadiscio nel 1925. Ci occupavamo soprattutto di orfani, istruzione e salute, creando nel tempo scuole e ospedali. Io arrivai a Mogadiscio nel ’67, e tutto filò liscio fino al ’69, quando arrivò al potere Siad Barre. Nel ’72 il governo decise la nazionalizzazione di ogni attività privata: requisirono le missioni e ci posero sotto il controllo di funzionari governativi. Nel lavoro con i bambini ci furono affiancate ragazze somale, allo scopo di far “imparare il mestiere” per poi allontanare noi suore dal territorio. Dopo un mese, venne a farci visita il vice presidente, Hussein Kulmie. Dopo averlo ascoltato, le ragazze dissero che sarebbero rimaste solo se noi fossimo restate con loro. Intanto, anche il nunzio mons. Calabresi riuscì a convincere le autorità della bontà dell’operato nelle missioni e ad ottenere di poterne conservare quattro (Afgoy, Merka, Kisimayo e Gilib). Continuammo la nostra opera con bambini e adolescenti, sotto le direttive e la supervisione di quadri locali: pur non ricevendo nessun salario eravamo di fatto delle loro dipendenti. La situazione peggiorò decisamente all’inizio degli anni ’90. Già nel luglio dell’89 era stato ucciso il vescovo di Mogadiscio, mons. Colombo. Si preparava la guerra civile, le bande armate impazzavano per le strade. C’era scarsità di ogni tipo di beni, i prezzi aumentavano e con essi il malcontento. Nel ’91 Siad Barre fu estromesso dal potere dal suo Ministro della Difesa, generale Mohamed Farah Aidid, e si aprì una dura lotta tra i vari “signori della guerra”, a capo di clan e fazioni rivali, che diede il via ad una sanguinosa guerra civile (in atto fino ad oggi, ndr). Nel gennaio del ’91 erano presenti a Mogadiscio solo più alcune suore e tre religiosi, tra cui p. Giorgio Bertin (oggi Vescovo di Gibuti e amministratore apostolico per la Somalia). Nella capitale non si era più al sicuro perché si sparava per strada e i miliziani entravano dappertutto, saccheggiando e uccidendo. Ormai non potevamo più restare e avevamo solo due possibilità: fuggire raggiungendo l’aeroporto o rifugiarci nell’ambasciata italiana; entrambe le mete erano distanti e si trattava di attraversare Mogadiscio sotto il fuoco delle armi e le bombe. Come riusciste a fuggire? In queste situazioni la gente del posto ci ha sempre aiutato. Un uomo somalo si è offerto di accompagnarci all’ambasciata italiana. Eravamo una decina di suore e di mattina presto, quando era ancora buio, lasciammo la missione a piedi, portando con noi la Bibbia e pochissime cose. Lo seguimmo, facendo un percorso tortuoso lungo strade e quartieri periferici, meno colpiti dai combattimenti. Quando l’ambasciata fu vicina ci lasciò, ma subito fummo fermate da militari che ci puntarono i mitra contro. Io, che parlo il somalo, mi avvicinai per dialogare col comandante e lo convinsi a lasciarci raggiungere l’ambasciata. Lui fece di più: ci fece scortare fin là. E poi? Espressi all’ambasciatore la mia preoccupazione per le altre suore rimaste in città; lui mi sconsigliò di andare loro incontro, dicendo che bisognava attendere un’evacuazione più sicura. Insistetti. Mise a disposizione una macchina con un autista somalo. Durante il viaggio sventolavo un asciugamano bianco, come se stessimo trasportando un ferito. Riuscimmo a passare i posti di blocco fino a raggiungere le consorelle, le quali, vivendo in periferia, non erano del tutto consapevoli del pericolo. Riuscimmo a tornare in ambasciata altrettanto fortunosamente. C’era però ancora una comunità di sorelle anziane a rischio, rimaste chiuse in casa e impaurite, bloccate sia fisicamente che psicologicamente. Questa comunità era in una zona “calda”, controllata dalle milizie ribelli anti governative, molto pericolosa. L’ambasciatore questa volta ci negò sia la macchina che l’autista, troppo rischioso! La mattina dopo, verso le cinque, quando ancora i combattimenti non erano ripresi, io e una consorella lasciammo l’ambasciata italiana a piedi per raggiungere le sorelle. I governativi ci bloccarono, impedendoci di proseguire, perché, dicevano, le milizie nemiche ci avrebbero ucciso. Insistetti, spiegando che dovevamo andare urgentemente in ospedale per assistere delle suore malate. Dopo qualche tira e molla ci fecero passare. A poche centinaia di metri di distanza dalla missione ci fermarono anche i ribelli: non credevano ai loro occhi e, forse addirittura divertiti dalla nostra “follia”, ci fecero passare senza torcerci un capello. Immediatamente, una di noi si mise alla guida del pulmino e un’altra si sistemò sul sedile anteriore fingendo di essere gravemente malata. Partimmo di corsa sventolando il solito panno bianco e attraversammo Mogadiscio in guerra senza che nessuno ci fermasse o ci sparasse, raggiungendo infine l’ambasciata. Poi foste tutti evacuati dalla Somalia? Nel novembre 1991, l’ambasciata e il governo italiano riuscirono a organizzare l’evacuazione da Mogadiscio, ma tre di noi, tutte infermiere, rimasero in Somalia, a curare i feriti con Medici senza Frontiere. Poco dopo, episodi di minacce indussero MSF a evacuare il personale. Nel marzo del 1992 tornai a Mogadiscio al seguito di SOS, una organizzazione che aveva un ospedale pediatrico, dove lavorai fino al 2006, quando fu uccisa suor Leonella Sgorbati. Mogadiscio rimaneva comunque un posto molto pericoloso… Finché la guerra era tra le varie fazioni e tribù e tra i vari signori della guerra, noi suore non ci sentimmo mai minacciate direttamente. Certo, c’erano proiettili e bombe che cadevano e potevamo essere colpite, ma non eravamo un bersaglio. Le cose sono cambiate quando sono arrivati i fondamentalisti: siamo entrate nel mirino in quanto cristiane e in quanto religiose. Tant’è che lei fu vittima di un sequestro. Accadde nel 1998. Rimasi nelle mani dei miliziani per tre giorni e due notti. Mentre tornavo a casa dal lavoro, a Mogadiscio, mi si affiancò una macchina e degli uomini armati mi