FIGLIO MIO RICORDATI… I sentimenti che madre e figlio provano nel momento di lasciarsi. Uno degli scrittori africani che erano considerati punto di riferimento, nel corso di Antropologia Filosofica, che ho frequentato alcuni anni fa, è il narratore maliano, dell’etnia Fulbe, Ahmadou Hampâté Bâ (deceduto il 15 maggio 1991 ad Abidjan, Costa d’Avorio). Scorrendo, oggi, uno dei suoi libri: Amkoullel, il bambino fulbe, sono colpita dall’attualità, del brano dal titolo Addio sulla riva del fiume. Un racconto denso e intenso, che narra i sentimenti che madre e figlio provano nel momento di lasciarsi. La madre rimane e il figlio parte, forse non si rivedranno mai più, situazione che, purtroppo, continua a verificarsi ai nostri giorni. Mi piace riproporre il testo di Hampâté Bâ, e pensare che, i tanti fratelli e sorelle, provenienti dal continente africano, che solcano il Mediterraneo alla ricerca di speranza, e accoglienza anche loro l’avranno ascoltata dalle voci delle loro madri, che con coraggio e una vena di nostalgia, la scandivano con forza, affinché si incidesse nel cuore e nella loro mente. Narra Ahmadou Hampâté Bâ: “Il mattino della partenza, mia madre mi accompagnò fin sulla riva del fiume. Per accostarsi all’acqua si doveva oltrepassare una piccola duna di sabbia. Camminavamo tenendoci per mano. Mentre scendevamo col viso rivolto a mezzogiorno, il vento del nord ci faceva aderire i nostri vestiti alla schiena. Mia madre volle salire sulla piroga per verificare di persona che non mancasse niente. Rassicurata, distribuì qualche dono e ritornò sull’argine. Mi strinse la mano e mi trasse in disparte. Mi consegnò cinquanta franchi per le spese del viaggio, poi, prendendomi entrambe le mani mi disse: “Guardami bene negli occhi.” Affondai il mio sguardo nel suo e, per un attimo, come dicono i Fulbe, “i nostri occhi divennero quattro”. Sembrava che quella donna indomabile mi trasmettesse tutta la sua energia attraverso gli occhi. Poi mi volse le palme verso l’alto e, con un gesto di benedizione materna, vi passò sopra la punta della lingua (la saliva nella cultura africana è ritenuta carica di forza spirituale, alla pari delle parole che si pronunciano), per questo viene usata per accompagnare le cerimonie di benedizione e di guarigione. Quindi cominciò a parlarmi: “Figlio mio, voglio darti qualche consiglio che ti servirà per tutta la tua esistenza di uomo. Tienili bene a mente.” E li enumerava toccando ogni volta la punta di un dito. Non aprire mai la tua borsa in presenza di nessuno. La forza di un uomo deriva dalla sua riservatezza; non bisogna mostrare né la propria miseria né la propria fortuna. La fortuna ostentata attira gelosi e ladri. Non invidiare mai nulla né nessuno. Accetta il tuo destino con fermezza. Sii paziente nell’avversità e misurato nella buona sorte. Non ti giudicare con il metro di chi ti sta sopra, ma di chi è meno fortunato di te. Non essere avaro. Fai l’elemosina ogni volta che puoi, ma falla ai poveri più che ai santoni ambulanti. Fai tutti i favori che puoi, ma chiedine il meno possibile. Fa questo senza orgoglio e non essere mai ingrato verso Dio e verso gli uomini. Sii fedele nelle amicizie e fa di tutto per non ferire gli amici. Non ti battere mai con un uomo più giovane o più debole di te. Se dividi un piatto con amici o sconosciuti, non prendere mai un boccone grosso, non riempirti la bocca di cibo e soprattutto non guardare gli altri mentre mangiano. Non essere mai l’ultimo ad alzarti: indugiare sul piatto è tipico dei golosi e la gola è disdicevole. Rispetta le persone anziane. Ogni volta che incontri un vecchio avvicinalo con riguardo e offrigli un dono sia pure minimo. Chiedigli consiglio e discuti con lui con discrezione. Tieniti lontano dagli adulatori, dalle donne cattive, dai giochi d’azzardo e dall’alcool. Rispetta i tuoi capi, anche religiosi, ma non metterli mai al posto di Dio. Recita regolarmente le tue preghiere. Ogni mattina all’alba affidati a Dio e ringrazialo ogni sera prima di coricarti. “Hai capito bene?” Sì, Dadda. Stai tranquilla, risposi. “Terrò bene a mente ogni tua parola per tutta la vita.” Chissà quante madri, anche oggi, ricordano i doveri e le tradizioni ai loro figli, che stanno per solcare i mari affrontando l’incognito, l’insicurezza del viaggio, gli imprevisti cambiamenti di rotta, la fragilità delle imbarcazioni, la solitudine, la paura… Il testo ricorda e sottolinea i valori, comuni ad ogni persona che anche se lontano dalla Patria, dalla famiglia e dall’abbraccio rassicurante della madre, deve continuare a coltivare e a vivere. suor Maria Luisa Casiraghi autore: https://it.wikipedia.org/wiki/Amadou_Hamp%C3%A2t%C3%A9_B%C3%A2 fulbe: http://conoscereilmondo.blogspot.com/2009/02/i-fulani-gruppo-etnico-maggioritario.html
Podcast: La sapienza della tartaruga 1
Podcast: La sapienza della tartaruga Prima puntata: La luna e il cuore Podcast La sapienza della Tartaruta La luna e il cuore Playing Previous Song Play Pause Next Song / Ciao! Senti, hai mai pensato che tra la luna e il tuo cuore possa esserci qualche relazione? Ascolta un po’. In Mozambico esiste un popolo chiamato Macua Xirima ricco di proverbi di sapienza. Un proverbio di questo popolo dice così: “C’è chi contempla la Luna in cielo e c’è chi invece ha la luna nel cuore”. Ecco, per il popolo Macua Xirima del Mozambico tra il cuore e la luna esiste proprio una sintonia, un’affinità, quasi una corrispondenza di significati simbolici. La luna, per la gente Xirima, è quell’astro umile che illumina la notte e la rende così affascinante, misteriosa. Astro umile, perché secondo l’espressione della sapienza di questo popolo, mentre il sole brucia, la luna illumina. E mentre il sole risplendendo sfolgorante nel cielo estingue durante il tempo diurno la luce delle altre stelle, alla luna invece piace convivere col chiarore delle altre stelle e dei pianeti nel firmamento notturno. Il sole viaggia solitario, unico re e signore del giorno. La luna invece, viaggia in compagnia, abita l’orizzonte della comunione e della condivisione, che trovano proprio nella notte, perciò nel tempo dell’intimità l’espressione più privilegiata. Secondo il pensiero di questo popolo, il sole rappresenta il prototipo del mondo maschile connesso al calore e al tempo del lavoro dell’attività umana, al diurno, al visibile. La Luna invece rappresenta l’altro emisfero antropologico e cosmologico, quello femminile, quello notturno, connesso alla frescura, all’intimità, allo spazio per l’altro, all’attività delle creature spirituali, al mistero, all’invisibile. Per questo popolo il cuore non è solo un organo ma è il centro della persona e la sede dei desideri, degli affetti, delle decisioni. Un altro proverbio dice: “In verità, la persona è il suo cuore”. Il cuore buono viene paragonato poeticamente proprio ad una luna interiore, con tutta la carica simbolica, femminile e materna che la luna riveste nel mondo Macua Xirima. Ecco, ci suggerisce la sapienza di questo popolo, c’è chi la luna la cerca fuori e la contempla lontana lassù nel cielo e chi invece la luna la porta dentro. C’è chi dentro di sé coltiva il dono della luna interiore, della dimensione notturna, femminile e materna dell’accoglienza del mistero, del segreto della vita. Quanto spontaneo per il cristiano Macua Xirima riferirsi alla Vergine Maria, madre della vita, come alla luna regina del cielo, amica delle stelle, mai solitaria, ma conviviale, di una regalità mai esclusiva, ma sempre inclusiva, di una luce rischiarante, ma mai abbagliante, nella quale trova spazio il vedere sì, ma anche l’immaginare, il constatare, ma anche l’atto libero e creativo del credere. Vieni Maria, Luna regale, illuminaci della tua luce, conducici nella notte silenziosa dove la parola vagisce, aprici il cuore a te e al mistero che rechi, trasformaci in astri umili che possano rischiarare mai a vagliare il cammino della persona verso la vita. Suor Simona Brambilla, mc
Tra il pozzo e il villaggio
Tra il pozzo e il vilaggio Guardiamo al movimento missionario della Samaritana che torna alla sua città senza l’anfora e ridesta negli altri il desiderio di incontrare Gesù e allo sbigottimento dei suoi discepoli, alla risposta di Gesù, Egli, infatti, parlerà di mietitura: “Voi non dite forse: ‘Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura’? Ecco, io vi dico: ‘alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura’ ” (Gv 4,35). Lasciamoci ancora interpellare dalla Samaritana, noi cristiani di oggi costantemente chiamati a percorrere la strada tra il pozzo e il villaggio! Noi, chiamati a ricevere costantemente il fluire dell’Acqua Viva del Cristo, senza altra anfora che quella del nostro cuore, che si svuota per riempirsi di Lui! Noi, chiamati a nostra volta a divenire pozzi presso cui la persona possa incontrare il Signore! Noi, donne e uomini della mietitura, della pienezza dei tempi, dell’avvento e della speranza, chiamati a scorgere il biondeggiare della messe proprio in questo mezzogiorno, spesso desertificato, della storia umana! Parola di Dio: Gv. 4, 27-42 27 In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: «Che desideri?», o: «Perché parli con lei?». 28 La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: 29 «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?». 30 Uscirono allora dalla città e andavano da lui. 31 Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbi, mangia». 32 Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». 33 E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?». 34 Gesù disse loro: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35 Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36 E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. 37 Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. 38 Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro». 39 Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 40 E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Chiavi di lettura: L’incontro di Gesù con la Samaritana apre spazi in cui il dialogo a tu per tu diviene strumento di salvezza e il pozzo, il quotidiano, la realtà diventano il luogo, l’ambito dell’incontro e dell’esperienza di Dio. La Missione si origina sul cammino tra il pozzo e la città, per questo è necessario passare dalla comprensione della missione come attività missionaria al concetto di Missio Dei: un’evangelizzazione che, partendo da una forte esperienza di Dio, tocca il cuore della persona e la rende creatura nuova. Alcune piste di riflessione Giovanni, nel testo proposto, vuole indicare che la missione si genera nei luoghi comuni, partendo delle necessità ordinarie della gente. Ci stimola a percepire le aspirazioni profonde del cuore e a prendere sul serio la sete di Assoluto che ogni persona sente, anche senza saperlo. Spesso si danno risposte materiali a problemi che sono in verità spirituali e profondi. Il testo della Samaritana tratta di far emergere il livello ultimo della sete /anelito che abbiamo dentro di noi. È pure importante rilevare che la presenza di un bisogno non è per niente di ostacolo a un percorso più profondo. Giovanni dipana il dialogo non mettendo tra parentesi o negando l’aspetto del bisogno reale della gente, quanto piuttosto prendendolo sul serio. A partire dal suo bisogno reale, Gesù fa compiere alla Samaritana il cammino verso se stessa e la rende discepola e Missionaria. La corsa della Missione (v. 28) Arrivano i discepoli e si meravigliano di trovare Gesù che parla con una donna… . Non fanno però domande. Lei del resto scappa via. Si dimentica perfino della brocca dell’acqua. Ormai ha bevuto l’acqua viva che Gesù le ha donato e non ha più tempo per trattenersi oltre. Ha una notizia troppo bella, deve comunicarla… . L’amore “vero” che Gesù le ha acceso in cuore la lancia verso la sua città. Vola verso le case e le piazze, chiama i suoi concittadini, non a sé, come un tempo, ma a lui, a Gesù. Per questo amore gratuito, tenero, che avvolge tutto il suo essere, che infiamma il suo cuore vale la pena lasciare le sua fragile brocca. La donna di Samaria non deve più nascondersi a causa della propria storia personale; ne temere gli sguardi sprezzanti e i sorrisi ironici della gente. Racconta entusiasta la propria esperienza. Ciò che fino a ieri era motivo di umiliazione e di disagio, oggi, diventa occasione di testimonianza e di annuncio: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?”(v.29). Essi l’ascoltano. Ben presto anche loro riconosceranno in Gesù, il Messia, “il Salvatore del mondo”. La Samaritana ha terminato la sua missione non hanno più bisogno di lei… . Mai la sua gioia fu più piena di quel giorno, quando rimase sola e guardare la sua gente andare verso il pozzo per incontrare il Cristo, sorgente di Acqua Viva (v.30). Missione è sentire la sete di Gesù: L’evangelizzazione nasce, dal sentire ‘nostra’ la sete di Gesù. Giovanni in questo testo anticipa l’“Ho sete” della Croce: una sete ardente, bruciante, lacerante! Una sete prevista e plasmata nei Salmi: “quando avevo sete mi hanno dato aceto” (Sal.69:22) e così avvenne sul Calvario: “Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca… Gesù, preso l’aceto…” (Gv.19:29,30) L’aceto simboleggia il rifiuto di Dio, il sapore amaro del peccato. In questa sete Gesù accoglie l’umanità per donarle l’acqua della Vita, l’acqua che ristora e risana,
Il sogno missionario di Giuseppe Allamano
Padre PIetro Trabucco ripercorre la traiettoria missionaria del Beato Giuseppe Allamano, dalla gioventù alla fondazione degli istituti missionari
Dio mi assomiglia
Dio mi assomiglia C’era un precetto del mondo ebraico che stupiva particolarmente gli antichi e che ha lasciato piccole tracce persino nelle nostre chiese, ossia il divieto di farsi un’immagine di Dio (si trova direttamente nel Decalogo!). Tra le ragioni di tale divieto una affonda le radici direttamente nella creazione, ed è probabilmente la più interessante. La composizione della Genesi Prima di arrivare al punto conviene però ricordare brevemente come è probabile che sia nato il testo della Genesi. È probabile che questo testo sia stato composto dopo che gli ebrei, conquistati dall’impero babilonese (nel 587 a.C.), si videro deportare nella lontana capitale mesopotamica le élite economiche, politiche, religiose e culturali del paese. I deportati non si scoraggiarono e decisero che la loro fedeltà al Dio dei padri doveva continuare, e per far ciò bisognava non dimenticare di essere un popolo solo, reso tale dalla fedeltà all’unico Dio degli antenati e che si riconosceva in un solo progenitore, Giacobbe/Israele. Dopo aver raccolto tutte le storie che lo riguardavano (e che sono concentrate in Genesi 25-49), quegli autori ritennero però opportuno che tale storia fosse preceduta da un racconto che chiarisse meglio che a mantenere legati al Dio d’Israele non erano il rispetto formale di regole (né, peggio, inganni e violenza, che sembrerebbero, a prima vista, guidare l’esperienza di Giacobbe), ma quella fiducia in Dio che anche Giacobbe vive, anche se non è sempre facile vederlo: ecco che a quei capitoli vennero premesse le vicende riguardanti un personaggio che con tutta chiarezza aveva fatto della fiducia in Dio la propria linea guida, e che si era chiamato Abramo. Qui risaliva la storia ideale del popolo ebraico. Ma quegli autori non erano ancora soddisfatti e ritennero che, anche se quasi tutta la Bibbia riguardava gli ebrei, il discorso dovesse partire dall’umanità intera. Ecco nascere i primi undici capitoli della Genesi, che non vogliono essere la cronaca dei primi secoli di vita del mondo ma una riflessione sull’umanità di sempre. Dei credenti sfrontati Quei dotti furono spinti a scrivere una riflessione simile di certo anche da ciò che vedevano e leggevano intorno a sé. La Mesopotamia, e Babilonia in particolare, erano infatti il centro non solo del potere politico ed economico del tempo, ma anche di quello culturale e religioso, di fronte al quale gli ebrei mostrano un coraggio e una libertà impensabili. Loro erano infatti qualche centinaia di persone che venivano da una lontana, piccola e poverissima regione, sconosciuta ai più, nella quale avevano vissuto in una cittadina il cui centro religioso più solenne, il tempio, era una costruzione in legno lunga trenta metri e larga dieci. A Babilonia costoro trovarono una città sterminata, piena di acqua, di ricchezze e di templi nei quali erano conservati scritti risalenti a quasi tre millenni prima. Di fronte a tutto ciò, gli ebrei ne furono affascinati (la maggior parte di loro non abbandonerà più Babilonia) ma obiettano sul ritratto delle divinità e quindi dell’uomo che se ne ricava. Come se dicessero: «Va bene tutto il resto, ma Dio ve lo spieghiamo noi». Dio (e l’uomo) secondo i babilonesi I miti babilonesi ragionavano infatti già sull’origine del mondo e dell’uomo, che immaginavano venire dal lavoro di diverse divinità. Gli dei babilonesi si dividevano in divinità “superiori” e altre “inferiori”, a loro volta divisibili in dei più buoni o più cattivi e che lavoravano per nutrire le divinità più nobili. A un certo punto però gli dei “inferiori” decidono di plasmare l’uomo, perché lavori al posto loro. Le divinità più “positive”, che avevano creato la luce, la terra, il sole, danno vita all’uomo, mentre quelle più negative, che avevano formato le tenebre, il mare, la luna, danno origine alla donna. L’uomo è insomma al mondo per lavorarlo al posto degli dei, cercando di non dare loro troppo fastidio. Sempre quei miti raccontavano infatti che quando gli uomini si erano moltiplicati troppo, il loro chiasso disturbava il sonno degli dei, che mandarono una volta il diluvio, un’altra la peste, la carestia… E la donna era ancora peggio dell’uomo… Un Dio solo, e buono Di fronte a questo quadro della divinità e dell’umanità gli ebrei reagiscono scrivendo i propri miti di origine, nei quali vedono un Dio solo che con la sua sola parola («”Sia la luce”; e la luce fu»: Gen 1,3) dà origine a tutto: alla luce, alle acque, alla terra e al mare, al sole e alla luna, che non sono divinità ma semplici strumenti per calcolare il tempo (Gen 1,16), e poi piante ed esseri viventi… Dopo ogni tappa si ferma e contempla: «Dio vide che era cosa buona». A un certo punto cambia però il tono. Il Signore non ordina più che qualcosa sia, ma si coinvolge in prima persona: «Facciamo l’uomo, a nostra immagine e secondo la nostra somiglianza» (Gen 1,26). L’idea è quella di una “copia conforme”, che dovrebbe semplicemente rimandare all’originale, potrebbe prenderne il posto. Non uno schiavetto chiamato a lavorare al posto di Dio, ma una copia conforme di quel modello, con la sua stessa dignità. Per questo lo pone a “dominare” sul resto del creato: non a spadroneggiare, ma a esserne alla guida, con responsabilità e attenzione. L’uomo dovrebbe essere per il creato ciò che Dio è per l’uomo. A questo uomo il Signore affida il compito di crescere e di moltiplicarsi, non ne è infastidito, vuole anzi che l’uomo viva e viva pienamente. E tutto ciò non è un progetto cresciuto male. Una volta compiuto il suo lavoro, Dio si ferma di nuovo a soppesarlo, e stavolta gli scappa un’espressione diversa: non vede più che è cosa buona, ma che è «molto buona» (Gen 1,31). Che l’uomo sia immagine di Dio comporta intanto che quanto più l’uomo si avvicina a Dio e gli assomiglia, tanto più diventa se stesso. Chi conforma la propria vita su quella di Dio non diventa meno uomo, ma semmai di più e meglio. (E, secoli dopo, significherà anche che l’unico modo coerente per Dio di mostrarsi definitivamente non può che essere che farsi del tutto uomo: Dio non può che essere un
Nella casa di mamma Consolata
Suor Raffaelda racconta il suo servizio al Santuario della Consolata, luogo di missione nella preghiera, di ascolto e di consolazione
BIJAGÓ e i riti di iniziazione
POPOLO BIJAGÓ DELLA GUINEA BISSAU RITI DI INIZIAZIONE: UN TESORO DA CUSTODIRE L’iniziazione tradizionale, come viene definita da D. da Fonseca (sacerdote guineano), viene compresa come un sistema educativo, il cui obiettivo finale è l’integrazione progressiva dell’individuo nel suo ambiente di vita, aiutandolo a conoscere la sua storia e cultura, al fine di raggiungere una personalità adulta, equilibrata per essere un membro responsabile all’interno della sua comunità. Perciò, l’iniziazione è un processo di integrazione socio-culturale e religioso, necessario per lo svolgimento della vita e delle comunità socio-storiche. È nel tradizionale processo di iniziazione che viene coltivato un maggiore interesse per la conoscenza della stessa cultura, come condizione assolutamente necessaria per un’armoniosa integrazione sociale che si traduce nella formazione della personalità. È un processo dinamico che non si consuma mai nella vita umana, ma giorno dopo giorno diventa un’esperienza arricchente. L’iniziazione alla vita comunitaria colloca i giovani nello spazio che è loro dovuto nella vita culturale, sociale, politica e religiosa, basata su fasce d’età. Pertanto, in ciascuna fascia d’età, ai suoi membri viene fatta conoscere l’organizzazione sociopolitica, economica, religiosa, morale e sociale che assicura la storia e i segreti della tribù e che è alla base della struttura organica della gente. L’iniziazione è quindi il fondamento della comunità, il sostegno della religione e la garanzia di continuità e solidarietà. Di conseguenza, l’adulto non iniziato non è apprezzato e manca di uno status sociale che lo nobiliti. Tradizionalmente, coloro che non hanno attraversato riti di passaggio non sono ancora “rinati”1. 1 Cfr. D. Fonseca da, “Uma breve síntese de iniciação tradicional”, in Diocese de Bissau, Estágio Diocesano, Bissau, Março de 2004, 1-4. Le persone a parlare nel testo descritto, sono tutti persone iniziati nella tradizione, compreso gli autori stranieri che utilizzeremo. Anche se dalla mia parte la conoscenza è ancora limitata, appunto per non essere iniziata tradizionalmente, ci affidiamo a questi esperti della tradizione. fascie etarie e iniziazione maschile del gruppo etnico bijagó Le fasce d’età e le fasi iniziatiche Le fasce d’età, per la società Bijagó, viene considerata con rigore perche consente la divisione dei compiti e delle responsabilità tra i membri del villaggio (tabanka) in base alle loro capacità, che dovrebbero aumentare con l’istruzione, educazione e l’esperienza. Una classe di età passa alla classe successiva solo quando un altro gruppo ha raggiunto lo stesso livello di età. Quindi, nessuno lascia volontariamente una categoria di età, ma solo dopo essersi sottomesso agli obblighi, ai doveri e alle restrizioni che ogni fase impone loro. In questo modo, l’individuo viene lentamente integrato nel corpo sociale, in un lungo processo di socializzazione, attraverso il quale viene trasmessa la conoscenza della società e della sua organizzazione. Tutti avanzano lentamente verso la maturità, attraversando le varie fasi, passando le diverse fasce d’età, sottoponendosi alle innumerevoli cerimonie di iniziazione che mantengono e trasmettono i valori fondamentali di coesione del gruppo. Come “processo iniziatico”, alcune isole comincia con la fase denominata kadene (dai 6 ai 11 anni), invece altre, con la fase Kanhokám, corrispondente alla fase della adolescenza (dai 12 ai 17 anni). Poi viene quella denominata Kabaro (dai 18 ai 27 anni) che può essere considerata come una fase più preparatoria per il fanadu (iniziazione) che porta alla fase denominata Kamabí (dai 27 ai 35 anni) cui membri sono già iniziati. Dopo quella di Kamabi ci sono altre due fasi, Kachuka e Okotò, legate alla maturità tradizionale. Tutte le fasi precedenti all’iniziazione/fanadu sono importante come processo formativo agli adolescenti e ai giovani Bijagó, ma le fasi Kanhokám e Kabaro sono le due principali che sono tenute in conto prima del dell’iniziazione, principalmente la fase di Kabaro; è un processo che può essere chiamato di “pre-iniziazione o di preparazione all’iniziazione”. Per riferirci all’iniziazione usiamo anche la parola fanadu, in creolo, e manrach, in bijagó. Kadene La fase di Kadene (2° fascia d’età), inizia quando il bambino indossa il kampende, che è una cintura fatta di perline e indossata sui fianchi. La cerimonia si svolge tra i 5 e i 7 anni e il suo obiettivo principale è quello di avvisare i ragazzi di rispettare e obbedire ai loro genitori e anche di insegnare loro alcuni compiti, come tagliare il legno, proteggere le piantagioni e il raccolto, aiutare la madre a raccogliere i molluschi del mare e frutti del bosco. Durante questa fascia d’età, che dura circa cinque anni, ballano con un piccolo tamburo e indossano un koporó o kodongoma, che è un anello per decorare la caviglia, fatto di pietre di mango insieme ad alcuni gusci di vongole. In questa fase i bambini cominciano ad imparare che il villaggio (Tabanka) è l’unità di vita e grandezza, non di debolezza e individualismo. Questa fase è sotto la responsabilità del Kanhokám (gruppo di età sucessivo). Kanhokám È la fase della adolescenza (Kanhokám) dove l’individuo entra in un quadro più ampio della socializzazione, e comincia a ricevere i primi insegnamento della tradizione, avere la prima conoscenza del potere delle piante medicinali. Il Kanhokám riceve un oggetto (braccialetto…) che userà sul suo corpo, evocando lo spirito koratrakó contro gli stregoni o nemici. Come fascia d’eta corrisponde alla terza e come “processo iniziatico”, è la prima cerimonia o fase da svolgere nel gruppo etnico Bijagós, chimata anche Kampendi1; questa è la porta d’accesso ad altre cerimonie, ossia, ad altre fasi. Coloro che si sono comportate male nel villaggio e nella società, durante le cerimonia di kunha garandesa2, vengo rimproverari o puniti. In questa fase, quindi i primi insegnamenti e conoscenze sono quelli di rispettare gli anziani, aiutare tutti i bisognosi del villaggio, ecc. Agli adolescenti vengono insegnati le danze tradizionale, e sono iniziati nella vita religiosa della società Bijagó. Le istruzioni di gruppo vengono impartite nel mato sacro o nella baloba (tempio)3. Gli adolescenti in questa fase sono la forza trainante del villaggio; sono utili in tutto il lavoro che si svolge in esso. Le attività principali sono le danze nei diversi villaggi (tabanka)4. Gli ornamenti più importanti sono maschere di legno che rappresentano pesci marini pericolosi, come il pesce martello, il
Presenza e appartenenza. 4 anni in Kazakistan
Suor Claudia condivide la sua esperienza in Kazakistan, a 4 anni dall’apertura della nostra presenza nel Paese dell’Asia Centrale
Incontro del Centro Istituto
Dall’11 al 19 maggio si è tenuto l’incontro di Centro Istituto a Nepi, nella Casa generalizia delle Missionarie della Consolata
Sorprese di Dio nella Bibbia
Sorprese di Dio nella Bibbia “Qual è il tuo sogno nel cassetto?”. Probabilmente abbiamo fatto o risposto molte volte anche noi a questa domanda. Il sogno nel cassetto è l’obiettivo vero, autentico, gratuito e gratificante che immaginiamo magari di non riuscire a raggiungere mai, ma per il quale faremmo molti sacrifici, semplicemente per passione. Secondo la Bibbia anche Dio ne ha, e a tratti lo confessa. Dialogo divino-umano Le religioni parlano di Dio. E dell’uomo. O, per meglio dire, parlano del dialogo tra il divino e l’umano. Possono parlarne semplicemente “dall’alto”, con l’elenco delle comunicazioni di Dio che l’uomo deve soltanto accogliere, ubbidendo. O possono anche parlarne dal basso, con le preghiere ed invocazioni che gli umani sperano arrivino a Dio. In un modo o nell’altro, le religioni pensano sempre a questo. Spesso si immagina che la comunicazione avvenga tramite degli intermediari, che siano uno scritto, delle visioni, una rivelazione, o altro ancora. Il mondo biblico non fa eccezione, pur avendo ovviamente le sue particolarità. A essere tipico della Bibbia, non importa se Primo o Nuovo Testamento, è il fastidio verso ogni mediazione che non passi dall’essere umano: che si tratti del re, del profeta o del sacerdote, si pensa sempre che il dialogo tra Dio e uomo abbia bisogno di figure vive, responsabili, consapevoli. Nulla di meccanico, nulla di semplicemente naturale, come se Dio volesse davanti a sé figure consce del proprio ruolo: il creato può rimandare alla potenza divina, ma non la fa conoscere con precisione. Le figure umane, inevitabilmente, si devono far riconoscere: il re è uno solo, e di stirpe nobile, come pure sacerdoti, nel Primo Testamento, lo si è per nascita. Solo i profeti sfuggono al cliché e restano imprevedibili, in quanto Dio può parlare a chiunque, ma in ogni caso restano pochi e relativamente identificabili. Pare però che anche questa sistemazione, già relativamente originale, non soddisfi appieno il gusto divino. Un anticipo: Mosè e gli anziani Nel percorso del popolo d’Israele dall’Egitto alla terra promessa, lungo i quaranta anni vissuti peregrinando nel deserto, Mosè aveva avvertito la stanchezza di affrontare da solo questioni e contestazioni dell’intero popolo. Ecco perché Dio gli aveva chiesto di selezionare settanta anziani che potessero aiutarlo. Si pensa a uomini, abituati a comandare e a discernere (culturalmente le donne non avevano ruoli al di fuori della propria casa), e anziani perché abbiano esperienza e giudizio. Ma queste caratteristiche umane, pur necessarie, non bastano per fare da tramiti tra Dio e il popolo, in quanto è anche necessario cogliere le cose come lo farebbe Dio, e per questo viene loro donato lo spirito divino (Nm 11,14-17). Avvenne tuttavia che due di quegli anziani, pur designati, non fossero presenti con Mosè intorno alla tenda dell’incontro. Anche quei due, comunque, iniziarono a profetizzare, nonostante si potesse pensare che fossero rimasti esclusi. Ecco perché qualcuno informa Mosè, chiedendo che vieti ciò che sta accadendo, ma la risposta è chiara: se stanno profetizzando, è perché è sceso su di loro lo spirito di Dio, e se non hanno seguito tutte le regole previste, significa che per Dio quelle non sono decisive. Dio agisce anche al di fuori delle prescrizioni e delle attese (Nm 11,24-29). Anche altrove, nel Primo Testamento, troviamo profeti là dove non ci verrebbe da cercarli: è profeta il re Saul (1 Sam 19,24), sono profetesse (benché donne) Maria sorella di Mosè (Es 15,20), Debora (Gdc 4,4), Culda (2 Re 22,14; 34,22) e una Anna al tempo di Gesù (Lc 2,36), e Amos, a chi lo vorrebbe spedire a profetizzare lontano dal santuario del re d’Israele, risponde che non è stata scelta sua né avrebbe dovuto essere profeta, ma è stato spinto da Dio (Am 7,14-15). Parrebbe che i confini del profetismo ufficiale, già ben poco rigidi, a Dio siano stretti. La parola di Gioele Gioele è un profeta di cui non sappiamo niente, neppure di preciso se a scrivere il suo libro sia stata una persona sola o molte. E anche il messaggio del suo libro non è tutto chiarissimo: di certo ci si interroga sul “giorno del Signore”, che avrebbe dovuto essere il momento in cui Dio sarebbe finalmente intervenuto nella storia e avrebbe sicuramente castigato gli ingiusti e forse distrutto ogni residuo di male, tanto da suscitare la domanda su che cosa sarebbe sopravvissuto. D’un tratto, però, spunta il terzo capitolo, che non si capisce benissimo da dove emerga, ma che è esplicito e limpido in ciò che afferma. Dice infatti che Dio effonderà il suo spirito «su ogni carne» (Gl 3,1), che indica ogni persona ma intanto rimarca, dell’umanità, l’aspetto più fragile e “basso”, più normale e ordinario: possiamo ritenere di avere uno spirito indeciso o fragile, un’anima piccola e peccatrice, ma di certo abbiamo una carne. Quindi questo profeta elenca coloro che saranno presi dallo spirito divino: figli e figlie, anziani e giovani, persino gli schiavi (vv. 1-2). Non c’è più distinzione di genere, non c’è privilegio dell’età esperta, addirittura coloro il cui valore era simile a quello degli animali diventeranno intermediari divini. La pagina prosegue quindi prevedendo catastrofi cosmiche, che da una parte dicono che ciò che sta per succedere in questa effusione dello Spirito non è qualcosa di ordinario ma segna in qualche modo la fine del mondo (non accade tutti i giorni che il sole si oscuri e la luna prenda il colore del sangue: v. 4), e dall’altra parrebbero anticipare che il giudizio divino sul mondo sarà duro e castigante. Subito dopo, però, si parla della salvezza per chiunque invochi il nome del Signore (v. 5), di una vita piena che si darà a Gerusalemme, di superstiti. Come se l’intenzione divina di fare piazza pulita del male si scontri con uno sguardo sull’umanità che intenerisce Dio e lo trasforma solo in un salvatore. Non c’è più distinzione: tutti profetizzano, anche gli schiavi, e tutti vengono salvati, se solo invocano il nome divino (non si chiede che ci si sia convertiti, che si sia stati capaci di servire Dio per anni, o cose simili).
Giuseppe Allamano sarà santo
Il sacerdote Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e MIssionarie della Consolata, sarà santo
Mondo Allamano/1: Madagascar
I Missionari della Consolata sono giunti in Madagascar nel 2019. Padre Stefano Camerlengo racconta i cammini compiuti e le prime esperienze di questa missione
Beato Giuseppe Allamano: le origini a Castelnuovo Don Bosco
Le origini del Beato Giuseppe Allamano a Castelnuovo Don Bosco sono segnate dalla fede della mamma, Marianna, dalla relazione con la maestra Savio
Elia e il proprio limite
Elia e il proprio limite Quando c’è da riassumere l’esperienza del Primo Testamento, spesso si parla di «Mosè ed Elia» (e sono loro due a comparire insieme a Gesù nella sua trasfigurazione: Mc 9,4-5). Se Mosè è infatti il grande legislatore, colui che ha preso il popolo ebraico e, sfidando il faraone, lo ha condotto fino sotto il Sinai e poi all’ingresso nella terra promessa, Elia è il campione dei profeti, il modello, il capostipite, protagonista di grandi sfide ma anche chiamato a chiudere la sua vita terrena con un passaggio particolarmente intimo e delicato. Il grande profeta Elia vive, nella regione del nord d’Israele, in un tempo in cui quell’area era organizzata in un regno relativamente ricco e importante, con tanti collegamenti commerciali e politici con gli stati circostanti e anche con forti condizionamenti religiosi. Un po’ in tutta l’area, infatti, a partire dalla ricchissima regione fenicia, era diffusa una religione strutturata intorno a una divinità (detta genericamente “baal”, “signore”) che con il suo sacrificio commuoveva il dio supremo che faceva piovere e nevicare così da garantire il germogliare dell’erba nuova tramite la quale il baal sarebbe tornato nel mondo. Si riteneva che la successione delle stagioni e la fertilità di terra e animali fosse garantita dal baal, che veniva venerato con riti anche orgiastici, comprendenti di certo incisioni sanguinose e flagellazioni, oltre che, probabilmente, forme di prostituzione sacra. Questa forma di religione, di grande impatto, era anche “di moda” nel ix secolo a.C. in Israele, nonché tradizionale per la popolazione cananea, che al nord era ancora ampiamente presente, e appoggiata dai sovrani, perché era la religione delle città fenicie, ricche e influenti. In più, al tempo di Elia il regno nel quale egli vive ha sancito nel matrimonio del re con la figlia del re di Tiro la propria alleanza con quella grande potenza marittima e dominatrice della regione. La stessa principessa, Gezabele, che si sarebbe poi mostrata una regina decisa e spietata. Elia, da parte sua, vive la propria missione con altrettanta foga: sfida la religione della regina dapprima annunciando una carestia destinata a durare ben tre anni (in faccia a chi pensava di garantirsi le piogge con il culto al baal) e poi sfida i 450 sacerdoti di quell’altro signore a un sacrificio: ognuno prepari il proprio altare, ma ci pensi poi il dio “vero” ad accenderlo. E mentre gli altri si affannano per tutta la mattina, a mezzogiorno Elia, dopo aver inzuppato di acqua il proprio altare, invoca la presenza divina e la sua pira si accende (1 Re 18,19-39). La crisi Proprio però quando uno sceneggiatore cinematografico contemporaneo si fermerebbe, al trionfo dell’eroe, che peraltro provvede a giustiziare tutti i sacerdoti della divinità concorrente (1 Re 18,40), la storia ci mette di fronte a un Elia che va in crisi, si spaventa all’idea (fondata: 1 Re 19,1) dell’ira e della vendetta della regina, e fugge verso sud, fino alla città di Bersabea di Giuda, ossia nel regno a sud di Samaria, e anzi al suo confine meridionale. Da lì si inoltra nel deserto per un giorno di cammino e si dispone ad aspettare la morte (v. 4). Possiamo certo chiederci se sia davvero solo paura, quella di Elia. Dopo non aver esitato a sfidare il proprio re, la regina straniera abituata a farsi ubbidire, la folla di sacerdoti suoi nemici, ora teme una pur verosimile minaccia di morte al punto da procurarsela da sé? Alla luce di quanto segue, potremmo immaginare che il profeta si sia forse posto domande più profonde sul senso e sulla modalità della propria missione. Possiamo sognare che si sia interrogato se fosse necessario sfidare ed uccidere, se quella fosse la modalità voluta da Dio di difendere la sua gloria e il suo nome. In ogni caso, Elia viene soccorso da un angelo, che gli offre da mangiare e poi lo invita a proseguire verso sud, per «quaranta giorni e quaranta notti, fino al monte di Dio, l’Oreb» (1 Re 19,8). Il numero dei giorni (e delle notti!) di cammino non può che essere simbolico, richiamando i quaranta anni passati nel deserto dal popolo guidato da Mosè. E il monte è di certo il luogo in cui incontrare il Signore, nell’austerità e nel fascino di una natura senza vegetazione, dove solo gli elementi naturali possono parlare e anche l’ascolto umano si fa più fine e attento. È qui che Elia sente la voce divina: «Che cosa fai qui, Elia?». Era forse la domanda che si era già fatta lui, che lo tormentava, ma risponde ancora come da copione, con solidità e decisione: «Ardo di passione per il mio Dio, ma sono rimasto solo e cercano di uccidermi» (vv. 9-10). È a questo punto che viene annunciata la risposta divina: «Esci e férmati alla presenza del Signore» (v. 11). Dio stava per parlargli. Quale sarebbe stata la risposta all’invocazione del profeta? Elia nel deserto confortato da un angelo – Deputacion Provincial de Zaragoza La sorpresa Mentre Elia attende, si alza un vento impetuoso, tanto da spaccare le rocce. Un fenomeno violento come l’azione precedente del profeta. Il quale, però, comprende che quello non è Dio. Poi si scatena il terremoto, dirompente come le sfide che Elia aveva già vinto… ma neppure lì trova il Signore. Quindi, ancora, un fuoco divorante. Ma Dio non è neppure lì. Gli elementi più dirompenti e forti della natura si scatenano intorno a Elia, che però coglie che non rappresentano Dio. Dobbiamo pensare che occorra attendere qualcosa di ancora più forte, ancora più annichilente? «Dopo il fuoco, una voce di silenzio leggero» (1 Re 19,12). Il Dio che Elia aveva cercato di testimoniare con le eroiche imprese, con le grandi sfide, con una voce di tuono… si fa presente nel silenzio. Anzi, un silenzio addirittura leggero, impercettibile, inudibile. Ma è un silenzio che parla, che è una voce. Pare di trovarci di fronte all’intuizione di Elia, che il Signore parla, sì, ma non come se avesse un esercito, non con il fuoco e la distruzione, non
Sinodalità e mezzi di comunicazione
Domenica 12 maggio 2024 si celebra la Giornata delle Comunicazioni Sociali, in occorrenza della Solennità dell’ Ascensione del Signore. Nel cammino odierno della Chiesa, orientata verso la Sinodalità, Suor Adanech ci presenta una riflessione sulla relazione tra Sinodalità e Mezzi di Comunicazione. Cosa vuol dire la parola sinodalità? Il termine “sinodalità” significa “camminare insieme” e indica il cammino del popolo di Dio, ma anche il suo radunarsi in assemblea in ascolto reciproco e dello Spirito Santo o intorno all’Eucaristia. letteralmente la parola “sinodo” vuol dire “fare strada insieme”, il termine fin dai primi secoli del cristianesimo ha indicato l’assemblea che si riunisce per discutere, condividere e prendere decisioni. Sinodalità indica quindi la creazione di spazi in cui sia possibile ascoltare chiunque abbia qualcosa da dire, al fine di discernere insieme quello che lo Spirito ci sta suggerendo (cfr. Movimento Laudato si’). Camminiamo. Verso dove? In che modo? Dopo aver capito il significato della sinodalità, domandiamoci: camminiamo verso dove? Ora come Cristiani tocca ciascuno/a di noi di scegliere o discernere verso dove andare o camminare, quale direzione prendere. Nel cammino sinodale certamente vogliamo avere un solo spirito, quello della Madre Chiesa, camminare insieme verso il Creatore ciòè: “Dio Solo”, come diceva il Beato Giuseppe Allamano. Quindi, in che modo possiamo camminare? Ringraziando il buon Dio abbiamo tantissime possibilità a nostra disposizione: i “mezzi di comunicazione” ci aiutano ad essere uniti e camminare insieme creando un nuovo orrizzonte, ossia una nuova strada per evangelizzare. Attraverso questi mezzi portiamo l’Amore di Dio al mondo condividendo, discutendo, ascoltando e decidendo insieme anche se siamo lontani geograficamente. La domanda è: come usiamo questi mezzi di comunicazione? I mezzi di comunicazione Sappiamo bene e usiamo creando diversi gruppi nel Whatsapp, Telegram, Messenger, Viber, Imo, Facebook, Youtube… che cosa comunichiamo? Le cose necessarie che ci aiutano a crescere insieme o che distuggono e separano? Quanto ci sentiamo liberi di usare questi mezzi? Quanto siamo sinceri o veri con quello che comunichiamo? Ma veramente possiamo usare questi mezzi per costruire la comunità? La famiglia? La Chiesa? Li usiamo per arricchirci nella vita cristiana? Nella vita spirituale, pregando e condividendo la Parola di Dio? Nella vita apostolica scambiando la propria esperienza missionaria? O siamo superficiali e perdiamo il tempo nelle cose inutili? Come abbiamo visto all’inizio circa il significato di sinodalità, come un modo che ci aiuta a camminare e crescere insieme, è l’incontro col Signore nell’Eucaristia. E quindi: Per essere annunciatori e testimoni di Cristo occorre rimanere anzitutto vicini a Lui. È dall’incontro con Colui che è la nostra vita e la nostra gioia, che la nostra testimonianza acquista ogni giorno nuovo significato e nuova forza. Rimanere in Gesù, rimanere con Gesù. Papa Francesco, Discorso del Santo Padre in occasione dell’Udienza all’Azione Cattolica Italiana, 03/05/2014 Ecco, la sinodalità sta accendendo in noi un fuoco, e allo stesso tempo è come una sveglia per camminare insieme come fratelli e sorelle non da soli. Come dice il Santo Padre Francesco: Da soli, senza Gesù, non possiamo fare nulla! Nell’opera apostolica non bastano le nostre forze, le nostre risorse, le nostre strutture, anche se sono necessarie. Senza la presenza del Signore e la forza del suo Spirito il nostro lavoro, pur ben organizzato, risulta inefficace. E così andiamo a dire alla gente chi è Gesù”. Papa Francesco, Regina Coeli, 01/06/2014 Il Papa continua a incoraggiarci dicendo: a questo mondo che ci sfida, con i suoi egoismi, Gesù ci invia, e la nostra risposta non è far finta di niente, sostenere che non abbiamo mezzi o che la realtà ci supera. La nostra risposta riecheggia il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito dell’unità. Noi tutti siamo semplici, ma importanti strumenti [di evangelizzazione]; abbiamo ricevuto il dono della fede non per tenerla nascosta, ma per diffonderla, perché possa illuminare il cammino di tanti fratelli e sorelle nel mondo. Papa Francesco, Omelia a Quito – Ecuador, 07/07/2015 Anche l’ Istituto delle Suore Missionarie della Consolata afferma: Appare sempre più evidente l’opportunità che i mezzi di comunicazione offrono quali occasioni per raggiungere persone che non sarebbe possibile raggiungere in altri modi e come i media costituiscano un ambiente dove vivere il nostro Carisma Ad Gentes nel segno della Consolazione. Suore Missionarie della Consolata, Atti del Capitolo generale 2023 Guardando il mondo che soffre per la guerra e per la mancanza di unità, sembra ci stiamo allontanando dal Signore; e allora torniamo al centro della nostra vita che è il Signore Gesù! Senza di Lui noi arriviamo nessuna parte. Usiamo i mezzi per rafforzzare il nostro rapporto con Dio. Dio è comunicazione perchè desidera condividere la pienezza della sua vita con l’umanità. Suor Adanech, mc
LA DIMENSIONE FEMMINILE DELLA MISSIONE
LA DIMENSIONE FEMMINILE DELLA MISSIONE Itthu sothene sinnètta pili pili. Tutte le cose vanno due a due. (Proverbio macua) Introduzione In questa comunicazione vorrei offrire semplicemente alcune riflessioni stimolate dall’esperienza di vita con la gente Macua Scirima nel distretto di Maúa e dintorni e dalla collaborazione con missionarie e missionari della Consolata che condividono la fede con questo popolo, nel nord del Mozambico. Uno dei passi biblici in cui l’animo Macua può riconoscersi immediatamente, trovandovi rispecchiato il proprio orizzonte matriarcale, matrilineare e matrilocale, è il seguente: «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2, 24). Per la cosmovisione macua, l’uomo-maschio è un essere in movimento, è colui che lascia il nido femminile materno per pellegrinare alla ricerca di un’altra donna, a cui tornare. La metafora del viaggio di uscita e di ritorno ad una Donna-Madre caratterizza la visione del mondo e la sapienza originale macua: l’onnipresente archetipo femminile/materno, la rielaborazione sfaccettata del mito cosmogonico del monte Namuli, è cantata a più voci nel vivere, nel pensare, nel sentire e nell’agire del popolo e delle persone. A Maúa, i dialoghi con tante persone, lo studio dei testi della sapienza originale, la partecipazione alla vita della gente, la condivisione con i confratelli e le consorelle sono state per me un’occasione preziosa di approfondimento del senso della missione consolatina; felicemente contaminata dalla prospettiva macua mi sono ritrovata a gustare e valorizzare in modo inedito la dimensione femminile e materna della missione, che il nostro carisma di figli e figlie della Consolata evidenzia in modo tutto particolare. Compenetrazione La questione dell’interazione tra dato genetico e ambiente (derivazione dell’antico binomio natura – cultura, nature – nurture) continua a stimolare la riflessione di molti studiosi dell’umano. Un’importante esponente della psicoanalisi contemporanea come Ana-Maria Rizzuto, trattando di tale interazione nella formazione della personalità, propone il concetto di compenetrazione. A somiglianza della compenetrazione tra gamete maschile e femminile che è all’origine del nuovo individuo, la continua compenetrazione tra l’individuo e l’ambiente che lo circonda ne plasma la personalità in modo irripetibile. La compenetrazione tra individuo e ambiente si riflette anche nell’organizzazione anatomica e fisiologica cerebrale: gli stimoli ambientali sono in grado di influenzare lo sviluppo dei circuiti neuronali. Si può dunque dire a ragione che l’ambiente plasma il cervello. L’ambiente umano che circonda la persona, formato dalle relazioni significative che essa instaura, viene come impresso nell’organizzazione psichica attraverso la formazione di schemi di esperienza che rimangono attivi nell’individuo. In tal modo, «coloro che si prendono cura di noi e il nostro ambiente diventano intrinseci al nostro stesso essere». L’interazione del bambino con gli adulti che si prendono cura di lui ha dunque un’influenza fondamentale nel plasmare i suoi modelli relazionali, modelli che si attivano anche nella relazione con Dio. Tali modelli non riescono ad essere raggiunti e trasformati semplicemente da uno stimolo cognitivo, perché la loro natura risiede nelle esperienze affettive, che possiedono un linguaggio diverso. In altre parole, la trasformazione della relazione con Dio raramente avviene attraverso lo studio accademico della teologia o del catechismo. C’è bisogno di raggiungere lo strato affettivo, i modelli relazionali, e questo è possibile attraverso una comunicazione che sappia ascoltare ed articolare il linguaggio degli affetti e dei simboli. La compenetrazione degli esseri, a livello fisico, psichico, razionale e spirituale, sembra configurarsi come una legge essenziale dello sviluppo umano. Dio stesso partecipa allo sviluppo della persona seguendo questa legge: egli imprime in noi la sua immagine, un po’ come avviene per i genitori; quindi diventa il Dio-con-noi nella compenetrazione di due nature in un’unica Persona. Infine, si fa nostro nutrimento nell’eucaristia, anticipando la festa nuziale preparata nei cieli. Che cosa c’entra tutto questo con la missione? Mi pare che qui si possano fare alcune osservazioni: La missione è un processo relazionale che trasforma: essa parte da Dio che si proietta fuori di sé e cambia la nostra storia, perché ama; non si trattiene lassù nei cieli ma scende in una carne umana. Per questa compenetrazione di due nature, la storia si trasforma per sempre. L’evangelizzazione, se autentica, non si limita a raggiungere gli strati intellettuali della persona e del popolo, ma scende, sprofonda e penetra nell’humus affettivo e simbolico, là dove trovano radice le forze e le motivazioni che orientano la vita. Allora il Vangeloarricchisce e trasforma le radici della persona e della cultura e nel contempo diviene vivo della vita della persona e della cultura che incontra. Ogni compenetrazione suppone l’incontrodi differenze in movimento. Vi è un movimento di proiezione all’esterno: i verbi andare, scendere, penetrare, inoltrarsi, esplorare, varcare i confini denotano la dinamica maschile della compenetrazione. Vi è un movimento di recezione all’interno: i verbi ricevere, recepire, accogliere, ospitare, custodire, includere, denotano la dinamica femminile della compenetrazione. Ora, il mandato della Chiesa è di annunciare ma anche di accogliere l’annuncio: nella Chiesa si riconosce la dimensione petrina e quella mariana, ossia una dinamica maschile e una dinamica femminile. Il maschile è atto che si proietta all’esterno, il femminile è struttura ontologica: non è il verbo ma il seno in cui si incarna. Frizzi, analizzando il testo di Lc 10,5-7 nota che nella missione da una parte troviamo chi dà il kerigma e riceve l’ambiente culturale e dall’altra chi dà l’ambiente culturale e riceve il kerigma. Nella dinamica dell’incarnazione, che è alla radice della missione, da una parte, Dio dà il Verbo e riceve la carne, dall’altra parte l’umanità riceve il Verbo e dà la carne: avviene qui una trasformazione della carne e del Verbo; il Verbo diventa qualcosa che prima non era, diventa carne, mette la tenda fra noi, si manifesta, ed ora l’umanità può udire, vedere, toccare il Verbo della vita (cf. 1 Gv 1,1-3). Mi pare che l’inculturazione del Vangelo altro non faccia che riflettere la danza di questi due movimenti nella compenetrazione dell’elemento maschile e di quello femminile della missione, nell’armonia tra l’annuncio e l’accoglienza, tra la semina e la mietitura della messe matura da ricevere nel granaio, tra l’andare con la semente da gettare e il ritornare portando i covoni
Suor Irene non si ferma mai
La Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata, è una presenza vicina e viva per la gente in Kenya, Tanzania e Mozambico, Nyaatha: Madre tutta Misericordia
LE PIETRE DELLA VITA
Kybaykita ci insegna cosa è bene fare con le pietre della nostra vita.