È la preghiera più nota del cristianesimo, anche perché è l’unica che è stata insegnata direttamente da Gesù proprio quando i suoi discepoli gli chiesero che insegnasse loro a pregare. Eppure, recitata tanto spesso da tanti credenti lungo i secoli, si rischia di saperla senza ascoltarla. Tanto più che utilizza formule che per noi potrebbero suonare non del tutto comprensibili. Restano però parole tanto centrali che nei vangeli sono addirittura riportate due volte, da Matteo e da Luca, benché in due forme non del tutto identiche (la versione di Luca è più breve).
Padre nostro
Nel Primo Testamento non era frequente chiamare Dio “Padre”. È una formula attestata, ma rara. Probabilmente non piaceva troppo perché rischia di accentuare la relazione personale, l’intimità, la familiarità, perdendo in solennità, rispetto e distanza. Evidentemente, però, Gesù invita davvero a perdere l’idea di un Dio lontano, onnipotente, assiso nei cieli, per recuperare chi, certo, ci è superiore, ma in un rapporto quotidiano e diretto, delicato e di cura. Fin dall’inizio, non vuole suggerire l’idea di un Signore da temere, ma piuttosto da amare.
E poi viene definito “nostro”. Il rapporto con Dio è personale e diretto, ma non è esclusivo, non taglia fuori gli altri, anzi li coinvolge nel rapporto. Siamo fratelli perché ci riconosciamo come figli dello stesso Padre. E, in più, a essere Figlio è anche Gesù stesso, che sembra mettersi intenzionalmente allo stesso livello nostro, al nostro fianco.
Già dalle prime due parole qualunque idea di netta distinzione tra il divino e l’umano viene superata: Dio è nostro padre, noi siamo tutti fratelli, e fratello nostro è anche Gesù.

Sia santificato il tuo nome
Il nome è ciò che ci identifica, al punto da poter costituire la nostra stessa personalità. Il mio nome sono io. Ma che cosa può voler dire “santificare”? Per noi sembra essere riconoscere di avere davanti qualcuno di eccezionale, straordinario, eroico. Ma qui iniziamo a percepire che nelle formule e nelle parole c’è un certo tono ebraico. Per la lingua ebraica “santificare” significa “mettere da parte”, “riservare”. Un po’ come quando entriamo in un supermercato, ci proviamo dei vestiti o scegliamo della pasta e li mettiamo nel carrello. Tecnicamente non sono ancora nostri, eppure sono già messi lì da parte per noi, e se ce li prendessero dal carrello non sarebbe un furto, ma ci offenderemmo. E come si fa a “riservare”, a “mettere da parte” il nome, cioè la persona? Riconoscendole il suo valore, la sua autentica natura.
Il valore di un atleta non lo si riconosce esaltandolo, esagerandone le lodi, ma narrando le sue imprese vere e gloriose. Allo stesso modo, santificare il nome di Dio significa raccontare chi è davvero, che cosa ha fatto, come è, per riconoscerne il volto autentico.
Venga il tuo regno
il mondo del tempo di Gesù era abituato soprattutto alle monarchie, quasi sempre senza regole che non fossero decise dal re. A quel punto il regno era semplicemente composto a immagine del re. Invocare l’arrivo del regno di Dio significava sperare che il mondo si conformasse al desiderio di Dio, per una vita piena di tutti gli esseri umani. È quindi la stessa cosa che invocare che sia fatta la volontà del Padre.

Se la prima parte del “Padre nostro” è tutta incentrata sul versante divino, la seconda si rivolge al mondo umano. È la logica dell’incontro alla pari, reciproco: esisti tu ed esisto io, e posso osarmi parlare di me perché so che a te interesso, così come mi è interessato dedicarmi a te. È la logica dell’amicizia.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
La prima richiesta, peraltro, è molto concreta, si chiede il “pane”. Per una volta, i sottintesi ebraici antichi e quelli della lingua italiana coincidono. Anche l’italiano, infatti, sembra concentrare il cibo sul pane, al punto che noi abbiamo una parola (“companatico”) per indicare qualunque altro cibo che non sia pane, e che si suppone lo accompagni. Con “pane”, quindi, si indica ogni tipo di cibo, anzi di nutrimento, in quanto possiamo comprendere in quella richiesta anche tutto ciò che ci serve per vivere, non solo l’alimento per lo stomaco. È l’ammissione che abbiamo bisogno, che non siamo autosufficienti, e che abbiamo l’umiltà di riconoscere questo nostro bisogno davanti al Padre, nella convinzione che aiuterà l’umanità a nutrirsi.
Il pane, poi, è accompagnato da un aggettivo che ha fatto disperare i traduttori fin dall’antichità. Le traduzioni sono infatti state molte e varie, ma sembra proprio che il senso più rilevante sia quello del “giorno dopo giorno”, che il nostro odierno “quotidiano” restituisce abbastanza bene. L’idea è insieme presuntuosa e umile. È la richiesta di un pane che non sia limitato soltanto all’oggi, ma si rinnovi poi domani, e dopodomani… Ma è, nello stesso tempo, la domanda non di una consegna abbondante e generosa una volta per tutte, che si possa mettere da parte in dispensa, bensì di un pane che arrivi giorno dopo giorno. È, se vogliamo, una richiesta infantile, che si accontenta del pane per oggi, anche però nella fiducia che domani potrò chiederlo e ottenerlo di nuovo. È la “presuntuosa” fiducia del bambino che sa di essere amato, che in fondo dà questo amore addirittura per scontato, che sa che il pane di domani potrà tornare a chiederlo domani. Ed è anche l’umiltà di chi riconosce che il cibo di oggi non mi basterà domani, che avrò bisogno di nutrirmi ancora e di nuovo. Di pane per lo stomaco, ma anche per lo spirito e l’anima…
Rimetti i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori
L’altra richiesta guarda invece alle relazioni umane, viste come uno scambio in cui si può essere in debito. E la richiesta sembra, di nuovo, quasi superficiale o presuntuosa: «Rimetti i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Davvero siamo in grado di perdonare nella stessa misura con cui chiediamo il perdono? In questa impostazione che, se vogliamo, suona ingenua o presuntuosa, in realtà non dobbiamo cogliere né l’ordine né la proporzione. Ossia, non si dice che prima devi guardare, o Padre, come o quanto perdoniamo e quindi comportarti di conseguenza e con la stessa intensità. Piuttosto, si dice che entriamo in una dinamica di perdono generalizzato. Non è la logica del contabile, è piuttosto quello dell’amico o dell’innamorato, dove non conta più chi dà di più, quanto il fatto che non restino residui.

Non abbandonarci alla tentazione
L’ultima richiesta è quella che ha fatto discutere in questi ultimi tempi. Alla lettera si chiede di «non farci entrare nella tentazione». Detta così, sembrerebbe che sia Dio a volerci tentare e forse far cadere. Ma non sarebbe coerente con l’immagine del Padre che emerge dai vangeli e, in fondo, anche solo da questa preghiera. Piuttosto, si sente qui il modo culturale semita di ragionare, secondo cui tutto ciò che accade nel mondo visibile deve essere causato da quello invisibile; e siccome non ci sono dèi alternativi ma l’unico Dio, tutto parte da lui. È un modo di ragionare culturale, che può essere contestato da ciò che accade nella storia (Gesù dimostra di rispettare totalmente la libertà umana, che è autentica) ma restare nel parlato, così come noi continuiamo a dire che il sole sorge, pur sapendo che è la Terra a girare, e che si ha qualcuno nel cuore anche se sappiamo che anche i sentimenti partono dal cervello.
Non c’è spazio nel pensiero di Gesù per reali alternative al Padre, che è l’unico Dio, tanto che affidarsi ad altri significa appoggiarsi al nulla. La richiesta finale, allora, che potrebbe anche essere resa con “liberaci dal maligno”, conviene tuttavia sia resa con “male”, comprendendovi tutto ciò che non desideriamo: il dolore, il male fisico, la fame, la sofferenza psichica, l’indegnità morale… Tutto ciò che non desideriamo, chiediamo al Padre che ce lo tenga lontano.
Ciò non significa che una preghiera fatta bene ci potrà servire da amuleto contro il male. Ma che, legati al Padre in questo vincolo di affetto e fiducia, osiamo condividere tutto il nostro desiderio, convinti che sia anche quello di Dio. Nello stesso tempo, e di conseguenza, ci sentiamo legati, in comunione, con tutti coloro che invocano lo stesso Padre, “Padre nostro”. E sentiamo di essere chiamati a contribuire a costruire ciò che chiediamo: “come anche noi rimettiamo i nostri debitori”.
Il “Padre nostro” ci invita a scoprirci bisognosi, ma anche in rapporto con un Dio che ci ama, in intimità, in scambio di fiducia e di amicizia, e insieme in una comunità fatta da tante persone che entrano in comunione con quell’unico Padre e quindi si scoprono in comunione tra di loro.
Angelo Fracchia, biblista