Gli eventi importanti della vita vengono a volte vissuti e raccontati con una certa superficialità, magari anche toccante e commovente, ma solo a distanza capiti davvero in profondità. Capita anche per le vicende del tempo del Natale, passato da non molto tempo. I primi racconti, pur seri e profondi, si prestano di più a un ritratto oleografico, toccante ma un po’ banale, come in fondo è capitato che diventassero. Solo qualche anno dopo un altro autore evangelico provò a riflettere più radicalmente su che cosa era accaduto, regalandoci una pagina certamente difficile ma anche capace di farci gettare uno sguardo come sull’abisso da un’altezza prodigiosa.
Il vangelo è quello di Giovanni, e la pagina che riflette sul Natale, senza peraltro citarlo, è quella iniziale, il prologo (Gv 1,1-18).
Una parola intraducibile?
A chi conosce lingue diverse dalla propria piace dire che una certa parola è proprio intraducibile, che questo sia vero o no. Succede qualcosa del genere con una delle prime parole del vangelo di Giovanni: logos. Uno studente del classico potrebbe rispondere che significa “parola”, e avrebbe ragione. Ma spesso succede che una parola abbia tantissimi significati. Logos non indica soltanto la “parola”, ma anche la “logica” (che infatti deriva da lì), il “principio logico”, il “ragionamento”, addirittura il “senso che sta sotto alle cose”.
Giovanni parte dal logos e dall'”in principio”, che ovviamente ci fa pensare all’inizio della Genesi. In un versetto solo ci parla di Bibbia e di ricerca filosofica, di ebraismo e paganesimo, di Gerusalemme e di Grecia. E, un po’ a sorpresa, non parte da Dio. Parla dell'”in principio”, che non è soltanto all’inizio ma è anche ciò che c’è in profondità, come fosse il “principio fondante”. E ci fa pensare, a ragione, che anche per le persone più religiose all’inizio non c’è la ricerca di Dio, ma del nostro fondamento, di ciò che ci fa vivere una vita sensata. Può sembrare blasfemo, ma non lo è, ricordarci che se Dio non ci facesse vivere bene, non lo cercheremmo.
In principio non c’era Dio, ma il logos, che è più importante di Dio stesso. Il principio unificante, la logica di fondo, il senso del vivere.
Ma questo principio era presso Dio, dalle parti di Dio, addirittura tendeva a Dio. Anzi, Dio era esattamente questo principio.
Ciò che il mondo della filosofia aveva cercato, ciò che Genesi aveva colto nella creazione, dopo Gesù è più chiaro vederlo in lui, che è Dio (Gv 1,1).
E quindi?
Anche se spesso Giovanni sembra stare fermo e ripetere ciò che ha già detto, di fatto a ogni passaggio sul già detto procede un poco oltre, come a spirale…
Ad esempio, il v. 2 sembra ripetere il già detto, ma mette all’inizio un pronome (“lui, questo”) che è una ripresa di logos (che è parola maschile, dunque tutto torna…) ma che intanto comincia a lasciare intuire che questo logos non è qualcosa di impersonale, ma è qualcuno.
E poi si dice che tutto è stato fatto tramite quel logos (ovvio, se è il principio di fondo di tutto; ma se si comincia a pensare che si tratta di un “qualcuno” il discorso si fa più intenso…: v. 3), che in lui c’era la vita per gli uomini (v. 4) e che la vita era la luce degli uomini.
L’immagine è interessante. La luce non ci dice che cosa dobbiamo fare, semplicemente ci fa vedere, per poter decidere liberamente e in sicurezza. La vita, dice Giovanni, non è lo scopo degli uomini (è vero, molti nella storia hanno rinunciato addirittura alla propria vita per uno scopo più nobile) ma è ciò che permette loro di muoversi, di decidere…
Un passo avanti
Il prologo è ampio e ricco e si arricchisce di stimoli interessanti ma che ci farebbero andare troppo per le lunghe. Vale la pena fare un salto avanti fino al v. 14: «E il logos divenne carne». Se fossimo dei filosofi greci, faremmo un salto sulla sedia. Come? Il logos, quel principio di fondo, quella logica… non si limita a restare qualcosa di teorico, di vagamente intuibile, ma entra nel mondo. E non entra nel mondo come un ologramma, etereo e sfuggente, ma si fa carne. Si fa concretezza pesante, esposta al limite, alla malattia, ai condizionamenti, persino alla morte. Un’idea può non morire, la carne no, morirà di certo. Dire che il principio di fondo del mondo si sia fatto concreto al punto da esporsi alla morte può essere un’idea spaventosa, allucinante. Ma non è un impoverimento? Non si contaminerà?
E Giovanni non si ferma: «e si attendò in noi». La tenda era un ricordo piacevole e scomodo, per gli ebrei. Nelle tende ricordavano che i loro padri avevano vissuto durante i quarant’anni di peregrinazione nel deserto, che erano stati un tempo di povertà e in fondo castigo, ma a strettissimo contatto con un Dio che provvedeva a loro, chiaramente, ogni giorno. La tenda, riparo prezioso ma fragile, diventa un facile simbolo del corpo, fuori dal quale non viviamo ma che è anche tanto debole.
In questa fragilità, debolezza, precarietà entra il logos, entra Dio, attendandosi “in noi”. Vuol dire in mezzo a noi, ovviamente e come giustamente ci dicono le nostre traduzioni: entra nelle nostre consuetudini, costumi, relazioni. Come ogni bambino che entra nel mondo, anche il logos, Dio, deve imparare, e questo ci ripete ogni anno il presepe.
Ma entra anche, addirittura, “in noi”. Diventa non solo uno di noi, ma diventa come noi, identico a noi. Il che significa che l’essere umano può prendere dentro, comprendere, Dio, il senso ultimo e profondo del mondo, delle cose, della vita. Non avremmo potuto immaginarlo, finché non avessimo visto Dio prendere tenda in noi.
«Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito lo ha rivelato».
Tutto questo (e altro ancora!) è sottinteso in quel bambino avvolto in fasce.
Angelo Fracchia