Ci sono persone che abbiamo incontrato una sola volta di sfuggita nella nostra vita ma che hanno lasciato una traccia indelebile, delle quali intuiamo che debbano aver avuto molto altro da offrire e donare, ma che ci hanno riservato solo quel momento, fuggevole ma prezioso. Di alcune di queste, a volte, cogliamo come non siano perfette, eppure preziose per noi.
Come è facile immaginare, ci sono personaggi del genere, in grande quantità, che punteggiano i racconti biblici. Oggi scegliamo uno di quelli; anzi, una, in quanto si tratta di una donna, una profetessa, Culda moglie di Shallum (2 Re 22,14-20).
Un tempo straordinario
Come di consueto, è però opportuno guardarci prima intorno, cogliere su quale sfondo si muovano i personaggi che ruotano intorno a Culda.
Siamo a Gerusalemme, nel diciottesimo anno del regno di Giosia, ossia intorno al 622 a.C. Il contesto internazionale e regionale è in agitazione. Da più di un secolo gli assiri avevano sparso terrore e oppressione in tutto il Vicino Oriente, dopo aver organizzato quello che potrebbe essere il primo esercito professionista della storia: gli uomini assiri, infatti, si dedicavano alla guerra per undici mesi all’anno, lasciando che a coltivare i campi e l’economia della loro città fossero degli schiavi. La guerra era diventata per quello che viene definito l’impero neo-assiro il fulcro dell’economia: erano i bottini e i tributi imposti alle altre popolazioni a rendere possibile la ricchezza dello stato. Come un rullo compressore, le loro armate erano arrivate fino in Egitto, annientando quasi tutto ciò che avevano trovato lungo il cammino.
Da qualche tempo, però, il loro potere aveva iniziato a incrinarsi, c’erano stati intrighi di palazzo, non tutte le campagne militari avevano portato nuovi schiavi e ricchezze. Qualcuno dei sudditi più lontani aveva iniziato a ribellarsi senza essere stato ricondotto all’ubbidienza, e in particolare un’altra città mesopotamica, Babilonia, si era riconquistata l’autonomia e aveva iniziato a minacciare di sfidare il comando dell’antica padrona.
Di questo decadimento ci si rende conto anche lontani dal centro, tanto è vero che il re Giosia, non molto tempo dopo essere salito al trono, inizia una politica di riconquista del nord del paese, che dagli assiri era stato devastato e annesso quasi un secolo prima.
Un libro inatteso
Il re Giosia è presentato come estremamente pio, e decide di intraprendere lavori di ristrutturazione del tempio. Durante questi lavori, però, si scopre un rotolo della legge di cui non si conosceva l’esistenza. Alla sua lettura, re e dignitari restano sconvolti, anche se non ci viene spiegato esattamente il motivo. Si dice, solitamente, che il timore è legato alle minacce in caso di non adempimento di quelle che si presentano come parole divine, unite alla consapevolezza che quel libro era stato abbandonato e dimenticato.
Di che libro potrebbe trattarsi? Secondo molti commentatori era la Torà intera, anche se potrebbe storicamente essere difficile immaginare che fosse stato abbandonato il cuore stesso del rapporto con Dio. Altri ritengono che potrebbe trattarsi del Deuteronomio, che in effetti si chiude su minacce di conseguenze negative qualora quella legge non fosse rispettata.
C’è anche chi si spinge oltre, sostenendo che potrebbe darsi che il libro in questione, secondo costoro in effetti il Deuteronomio, potrebbe addirittura essere stato fatto comporre apposta dal re, e la sua “scoperta” essere stata organizzata apposta.
Il senso di questa ipotesi è politico. Giosia, si dice, aveva sì conquistato militarmente l’ex regno del nord, legato a Giuda dalla fedeltà al Dio d’Israele, ma avrebbe ritenuto troppo faticoso mantenerne il controllo solo militarmente. Piuttosto, sarebbe stato interessante convincere gli abitanti e fedeli del nord a legarsi liberamente a Gerusalemme, come unico centro in cui venerare adeguatamente Jahweh. In effetti il libro del Deuteronomio risponderebbe abbastanza bene a queste esigenze: il suo tema teologico, infatti, è che l’unicità di Dio comporta l’unicità del popolo che da lui è stato scelto (“Non importa che siamo giudaiti del sud o israeliti del nord, abbiamo un solo padre, Abramo, e siamo protetti da un solo Dio, Jahweh”) e l’unicità del luogo in cui venerarlo, il tempio di Gerusalemme. Invitando i fedeli settentrionali a venire a venerare Dio là, nella città del re, si sarebbero rafforzati anche i legami tra le due parti del popolo che un tempo, forse, erano state unite.
Fatto sta che al ritrovamento del libro tutta la corte cade in una profonda prostrazione, il re stesso inizia a vestirsi di sacco, come gesto di pentimento, perché si percepisce di non essere stati fedeli alle indicazioni divine. Che cosa fare?
Ricerca di una conferma
Di fronte a un possibile segno celeste, è indispensabile cercare una conferma, l’indicazione che non ci si stia inventando tutto, un suggerimento sul comportamento da seguire. È qualcosa che comprendiamo benissimo anche noi. Fin qui potevamo pensare di trovarci semplicemente di fronte a un episodio storico, di tanti secoli fa, magari anche da seguire con attenzione ma con un certo distacco. Ma sulle decisioni sulla nostra vita, quando percepiamo che forse ci è giunto un suggerimento utile per vivere meglio, siamo ben esperti e capiamo quanto siano faticose. Anzi, proprio da qui può arrivare un’istruzione anche per noi. Anche perché nel testo del libro dei Re arriva qui una sorpresa.
Siamo infatti alla corte di Gerusalemme, dove hanno accesso e vengono ascoltati non solo un ministro come Asaià, ma anche Safan lo scriba (quindi esperto di storia, di libri anche sacri, di legge anche divina) e il sacerdote Chelkia (2 Re 22,12). Insomma, abbiamo a disposizione le persone più preparate e sagge che si potrebbero immaginare in questo regno di Giuda che era benedetto dalla presenza del Dio d’Israele. Eppure questi eminenti personaggi non si sentono sufficienti.
È la prima indicazione interessante di questo passo: giusto rivolgerci a chi, per ruolo e preparazione, può ritenere di avere una parola di maggiore peso e significato. Ma anche loro possono restare incerti e fermi di fronte alle questioni più profonde e importanti della nostra vita. Il re Giosia è tuttavia fortunato perché questi esperti che lo circondano e che potrebbero orientarne le scelte ammettono umilmente di avere bisogno di un altro aiuto esterno.
E lo vanno a cercare, seconda sorpresa, da una “profetessa”, di cui non sapevamo niente e di cui dopo questo passo non si parlerà più. Uscita dal nulla, rientra nel nulla. Eppure loro sembrano essere consapevoli che si tratti, appunto, di una “profetessa”. I profeti nella tradizione ebraica sono sempre stati personaggi particolari, che intuiscono il cuore di Dio, ciò che il Signore pensa, pur senza aver bisogno di appoggiarsi a prove della Scrittura. Proprio per questo sono sfuggenti, ambigui, in fondo non offrono garanzie, perché un profeta potrebbe anche inventarsi un messaggio e divulgare semplicemente il proprio pensiero. Ma quello che i profeti fanno è simile a ciò che fanno gli artisti, suggerendo un modo diverso e più profondo di vedere la vita, sul quale chi ne fruisce deve provare a sintonizzarsi. Per capire un’opera d’arte, bisogna farsi un po’ artisti, pensare un po’ secondo il suggerimento dell’artista. Per vagliare le parole di un profeta, bisogna farsi un po’ profeti.
Dicevamo che si tratta di una sorpresa, perché potevamo immaginare che un sacerdote di corte, uno scriba e un ministro regio potessero decidere da sé. Ma, è chiaro, la sorpresa è anche che si tratti di una donna. Non è l’unica figura profetica femminile che troviamo nella Bibbia, ma di certo non sono molte. E questa è probabilmente meno limpida e convincente di altre (per questo, di sicuro, è anche meno conosciuta).
Un messaggio sconfortante?
Come per le donne in genere, come per i profeti spesso, di Culda non riusciamo a sapere moltissimo. Anzi, viene presentata semplicemente come moglie di Sallum, e poi gli autori si dedicano a presentarci per bene Sallum, il marito, non lei.
Le sue parole, poi, non suonano particolarmente gradevoli. Culda, infatti, parla di sciagure che devono effettivamente venire sul popolo (v. 16), come punizione per l’aver abbandonato il Signore. E anche la fine del suo breve messaggio (v. 20) torna a parlare di sciagura.
A ben guardare, però, dentro a una scorza molto urticante è nascosto un messaggio più dolce. Nel dire, infatti, che le punizioni divine si scateneranno contro il popolo perché ha abbandonato Dio, Culda conferma che le parole di quel libro ritrovato davvero venivano da Dio. E se fosse davvero, come sembra, il Deuteronomio o qualcosa che gli assomiglia, proprio quel libro era stato chiaro nel dire che quel Dio “geloso” avrebbe punito la colpa fino alla terza o quarta generazione, sì, ma avrebbe anche mostrato la sua bontà fino alla millesima generazione (Dt 5,9-10). È vero che in un contesto antico in cui si pensava che Dio dovesse intervenire subito e fosse duro e rigido si parla di punizioni, ma l’affetto e la bontà sono immensamente superiori…
D’altronde, poi, si parla di punizioni nel caso di tradimento di Dio, di suo abbandono. Ma ciò che Giosia e tutta la corte, e quindi tutto il popolo, stanno facendo è esattamente tornare a Dio, riprendendo una relazione stretta. Insomma, se davvero le parole di quel libro, come Culda lascia intendere, sono affidabili, ora il re e il popolo possono riconfortarsi.
E non a caso, pur parlando di sciagure e punizioni, la profetessa conferma che non cadranno su Giosia, che morirà sereno, in quanto ha mostrato di voler seguire Dio.
Insomma, ci troviamo davanti a una profetessa a prima vista molto antipatica, che però sta confermando i suoi ascoltatori che hanno fatto bene ad andare da lei, a seguire le indicazioni del libro, a cambiare comportamento.
Anche per noi, in fondo, Culda parla, riconfermandoci che la realtà a volte si presenta in modi inattesi, anche fastidiosi, eppure dobbiamo essere capaci di andare in profondità, perché laggiù spesso si nasconde una promessa più affidabile e promettente… insieme a un Dio che sempre è pronto ad aprire la porta e riprendere la comunione con noi.
Angelo Fracchia