Chi legge di seguito i primi due capitoli della Bibbia (affrontandola come se fosse un romanzo), resta probabilmente sconcertato e stupito. Nella prima pagina ha trovato un mondo completamente allagato, in cui le prime fatiche di Dio consistono nel dividere le acque dalle acque e di porre loro un limite; nella seconda, la terra è arida e riarsa. Nella prima pagina Dio fa tutto dal nulla, nella seconda si trova un mondo già quasi completo, che manca però del capolavoro. Nella prima pagina Dio parla e tutto succede, nella seconda si mette a impastare, prova, si accorge degli errori, li corregge… È molto probabile che siano state persone diverse a scriverle, ma è chiaro che chi le ha messe insieme pensava di poterlo fare. Evidentemente non immaginava che avremmo letto queste righe come una cronaca dell’inizio del mondo, ma come una spiegazione delle sue “coordinate di fondo”, di come funziona il mondo e l’uomo, o meglio di come dovrebbe funzionare per non guastarsi.
E da questo punto di vista il secondo capitolo della Genesi completa il discorso già iniziato.
C’è da creare un mondo
C’è dunque una terra arida e morta. Perché? Sorpresa! «Perché Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo» (Gen 2,5). Magari non ci accorgiamo subito di quanto ciò sia strano, ma, se rileggiamo bene, la Genesi ci sta dicendo che sulla terra non c’era la vita per due motivi: perché mancava la pioggia, dono di Dio, ma anche perché mancava un coltivatore. Ossia, ci potrà essere la vita solo quando i due, uomo e Dio, collaboreranno nella creazione. L’uomo crea insieme a Dio.
Se ci mettessimo a fare i filosofi, d’altronde, sembrerebbe quasi una conseguenza logica del primo capitolo: se l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26), ciò che Dio ha fatto finora è stato semplicemente di creare, dunque anche l’uomo è creatore.
Potremmo andare avanti, e affermare che, secondo la Genesi, come Dio è creatore, cioè è anche responsabile che questa creazione continui a vivere, la medesima responsabilità è condivisa dall’uomo, che è chiamato a prendersi cura di questa creazione, perché continui a vivere. Il mondo non si perfeziona senza l’opera dell’uomo. E se l’uomo non collabora, semplicemente è meno uomo.
Certo, la differenza tra Dio e l’uomo è che è ancora Dio a creare anche l’uomo (Gen 2,7). Ma una volta che l’uomo è creato, i due collaborano per tutto il resto.
Primi problemi
A questo punto, però, quando tutto sembra a posto, per la prima volta nella Bibbia si dice che qualcosa non va. E può stupire che a dirlo sia Dio. Ma come? Ha fatto tutto lui, come può esserci qualcosa che non funziona?
È come se gli autori biblici ci dicessero che persino Dio non può creare tutto in un attimo, con uno schiocco di dita. Anche lui ha bisogno di provare, di valutare, di accorgersi dei problemi, di correggerli, procedere… La cosiddetta “imperfezione” del nostro vivere non è qualcosa che ci allontani da Dio, anzi lui stesso l’ha condivisa.
L’importante è accorgersi dei problemi. E qual è il problema che Dio vede? «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Ma come? Non è solo! Ha Dio! Per secoli i mistici di tutte le religioni ci hanno detto che per l’uomo l’essenziale è parlare con Dio, ci siamo fatti sedurre dall’idea che i mistici siano i credenti perfetti, e la Genesi ci dice che quell’uomo che ha solo Dio con cui parlare (per cui non si farà neppure distrarre…) è da solo?
Sembra davvero strano, ma per capire meglio dobbiamo fare un passo fuori dal discorso, per ricordare come pensava quella cultura che ha scritto queste pagine. Il nostro mondo dice che tutti gli uomini hanno la stessa dignità e importanza, esalta molto la dimensione orizzontale, che può poi comportare dei problemi, come vedremo tra poco, ma che almeno sui rapporti umani è conquista importante. La cultura che ha prodotto tra l’altro anche la Genesi pensava invece che tutte le relazioni del mondo fossero gerarchiche: io sono più importante di alcuni e meno di altri, e la domanda implicita che mi pongo incontrando uno sconosciuto è chi dei due ha più dignità.
Ecco perché il secondo capitolo di Genesi deve arrivare a parlare delle tre dimensioni di fondo dell’uomo prendendola un po’ alla larga…
Un aiuto come in faccia a lui
Dio prende l’iniziativa di risolvere il problema presentando all’uomo tutti gli esseri viventi. Lo scopo è di trovare all’uomo «un aiuto come in faccia a lui» (o «che gli corrisponda», come traduce oggi, con più eleganza, la CEI: Gen 2,18). Ma l’uomo, davanti a tutti gli animali che gli sono posti davanti, non trova ciò che cerca. Dà loro il nome, cioè entra in relazione, ma entra in relazione come chi è più importante. È il genitore a dare il nome al figlio, non viceversa. E in tanti contesti umani che vogliono sottolineare che non sei più in relazione e dipendenza con tuo padre, ti viene cambiato il nome. Adamo è signore del creato, cioè è più importante e quindi chiamato a prendersene cura, ma questo non imposta una relazione alla pari.
Ecco che cosa aveva intuito Dio. Ottimo che Adamo sia in rapporto con Dio stesso, che però non è alla pari: questa è una relazione che Adamo mantiene con l’alto, con ciò che lo supera. E ottimo anche che Adamo sia in relazione con il creato, con ciò che gli rimane inferiore. Ma queste due relazioni, che per l’antichità erano chiare, non sono tutto. L’uomo ha bisogno anche di una relazione alla pari. Senza le tre dimensioni, l’uomo è incompleto, e la sua situazione “non è buona”.
Il nostro mondo, la nostra cultura, valorizza molto il rapporto alla pari, ed è bene. Ma non è sufficiente. È questo il motivo per cui, quando ci rapportiamo con la natura, o non ci ricordiamo che esista o la trattiamo come se ci trovassimo davanti a esseri umani (cioè, non la consideriamo come qualcosa di inferiore a noi, di cui dobbiamo prenderci cura) e non sappiamo parlare del rapporto con ciò che ci supera, con la trascendenza, che siano le generazioni prima e dopo la nostra o che sia Dio stesso.
Finalmente, questa volta…!
Dio, dunque, ha visto un problema, ha provato a risolverlo e ancora una volta ha fallito. Ma non si scoraggia. Il problema rimane, quindi va risolto. Addormenta Adamo. Ciò che succede adesso non dipende dall’uomo, che non è padrone di ciò che succede mentre è nel sonno. Dio gli estrae una costola e intorno a quella impasta la donna.
Dicono i rabbini medioevali, che spesso hanno il coraggio di mettersi a valutare l’operato di Dio come se fosse uno studente volenteroso ma a volte incapace, che qui Dio ha fatto davvero bene! Perché se avesse preso un osso del piede di Adamo, questi avrebbe potuto considerarsi superiore alla donna. Se lo avesse preso dalla testa, sarebbe stata la donna a potersi ritenere più importante. L’ha preso dal fianco, però, perché è vero che la donna è un aiuto come in faccia all’uomo, ma non proprio in faccia. Se infatti avesse preso dallo sterno, i due avrebbero potuto guardarsi alla pari, ma avrebbero solo potuto contemplarsi, il che sarebbe già stato buono ma non sufficiente. Ha preso dal fianco, perché i due siano alla pari ma, insieme, sostenendosi, camminino insieme in avanti, non si accontentino di ciò che sono.
Quando comunque Adamo si sveglia, pur ignorando ciò che i rabbini medioevali avrebbero detto di lui, ammette che finalmente, questa volta, Dio ce l’ha fatta! Questa donna è come l’uomo, «osso delle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna (isshà, in ebraico) perché dall’uomo (ish) è stata tratta» (Gen 2,23). Non è più Adamo a darle il nome (non le è superiore) ma ammette che “sarà chiamata”, vale a dire da Dio. Anche lei è in rapporto dal basso verso l’alto con Dio, ma alla pari con l’uomo.
Una carne sola
L’annotazione finale di Adamo è culturalmente sorprendente. Non dobbiamo dimenticarci che questi scritti nascono in un contesto preciso, per il quale parlano. Restano preziosi anche per noi, a secoli di distanza, ma non sono scritti in primo luogo per noi. Il mondo al quale scrivono in primo luogo è un mondo in cui la donna non è autonoma, ma proprietà prima del padre e poi del marito. È il clan familiare il luogo in cui si cresce, ed è per questo che è preferibile che nascano dei maschi, perché restano nel clan, mentre le donne andranno ad arricchirne altri, dando loro dei figli.
Dire quindi che «per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre» (Gen 2,24) è affermare ciò che non succedeva. Ma chi scrive capisce che questo legame assolutamente alla pari è l’ideale per l’uomo, al punto da mettere in discussione tutti gli altri legami umani. Al punto di dire che sarà l’uomo a trasferirsi in casa della donna…
E poi sostiene che i due «saranno un’unica carne». Per il mondo ebraico l’uomo non è composto da anima e corpo, ma è un tutt’uno (ciò che dicono anche le nostre scienze umane contemporanee), anche se in questa unità si possono distinguere aspetti diversi. Solitamente il mondo ebraico identifica, tra questi aspetti, lo spirito (è la razionalità, i sentimenti e la capacità di progettare e decidere, che anche gli animali possiedono), l’anima (è il rapporto con il trascendente, con Dio, e secondo il mondo biblico solo l’uomo lo possiede) e la carne. Questa è la dimensione di maggiore fragilità dell’uomo, è ciò che lo costringe a doversi cibare, dissetare, dormire, che lo sottomette alle incomprensioni, alle malattie, alla morte. Ebbene, dei due non si dice che costituiranno un’unica anima (potranno anche avere rapporti diversi con il trascendente, restano autonomi…), né un unico spirito (potranno anche nutrire progetti e relazioni diverse…) ma un’unica carne: nei due che si rapportano alla pari, a diventare unica è la fragilità, la sofferenza, il limite. Mantengo i miei sogni, i miei progetti, ma la tua fatica è anche la mia fatica.
Questo significa anche, però, che secondo la Genesi il nucleo più autentico dell’uomo non è il suo rapporto con Dio (per quanto ciò sia sorprendente, in un testo religioso!) né i suoi progetti o realizzazioni, ma la sua fragilità. L’uomo è profondamente se stesso quando si mette di fronte al proprio limite.
Per il cristiano, ciò significa anche che se Dio vuole essere come noi, deve assumere fino in fondo la nostra fragilità, la carne dell’uomo.
Angelo Fracchia