LA DIMENSIONE FEMMINILE DELLA MISSIONE
Itthu sothene sinnètta pili pili.
Tutte le cose vanno due a due.
(Proverbio macua)
Introduzione
In questa comunicazione vorrei offrire semplicemente alcune riflessioni stimolate dall’esperienza di vita con la gente Macua Scirima nel distretto di Maúa e dintorni e dalla collaborazione con missionarie e missionari della Consolata che condividono la fede con questo popolo, nel nord del Mozambico.
Uno dei passi biblici in cui l’animo Macua può riconoscersi immediatamente, trovandovi rispecchiato il proprio orizzonte matriarcale, matrilineare e matrilocale, è il seguente: «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2, 24). Per la cosmovisione macua, l’uomo-maschio è un essere in movimento, è colui che lascia il nido femminile materno per pellegrinare alla ricerca di un’altra donna, a cui tornare. La metafora del viaggio di uscita e di ritorno ad una Donna-Madre caratterizza la visione del mondo e la sapienza originale macua: l’onnipresente archetipo femminile/materno, la rielaborazione sfaccettata del mito cosmogonico del monte Namuli, è cantata a più voci nel vivere, nel pensare, nel sentire e nell’agire del popolo e delle persone.
A Maúa, i dialoghi con tante persone, lo studio dei testi della sapienza originale, la partecipazione alla vita della gente, la condivisione con i confratelli e le consorelle sono state per me un’occasione preziosa di approfondimento del senso della missione consolatina; felicemente contaminata dalla prospettiva macua mi sono ritrovata a gustare e valorizzare in modo inedito la dimensione femminile e materna della missione, che il nostro carisma di figli e figlie della Consolata evidenzia in modo tutto particolare.
Compenetrazione
La questione dell’interazione tra dato genetico e ambiente (derivazione dell’antico binomio natura – cultura, nature – nurture) continua a stimolare la riflessione di molti studiosi dell’umano. Un’importante esponente della psicoanalisi contemporanea come Ana-Maria Rizzuto, trattando di tale interazione nella formazione della personalità, propone il concetto di compenetrazione. A somiglianza della compenetrazione tra gamete maschile e femminile che è all’origine del nuovo individuo, la continua compenetrazione tra l’individuo e l’ambiente che lo circonda ne plasma la personalità in modo irripetibile. La compenetrazione tra individuo e ambiente si riflette anche nell’organizzazione anatomica e fisiologica cerebrale: gli stimoli ambientali sono in grado di influenzare lo sviluppo dei circuiti neuronali. Si può dunque dire a ragione che l’ambiente plasma il cervello. L’ambiente umano che circonda la persona, formato dalle relazioni significative che essa instaura, viene come impresso nell’organizzazione psichica attraverso la formazione di schemi di esperienza che rimangono attivi nell’individuo. In tal modo, «coloro che si prendono cura di noi e il nostro ambiente diventano intrinseci al nostro stesso essere». L’interazione del bambino con gli adulti che si prendono cura di lui ha dunque un’influenza fondamentale nel plasmare i suoi modelli relazionali, modelli che si attivano anche nella relazione con Dio. Tali modelli non riescono ad essere raggiunti e trasformati semplicemente da uno stimolo cognitivo, perché la loro natura risiede nelle esperienze affettive, che possiedono un linguaggio diverso. In altre parole, la trasformazione della relazione con Dio raramente avviene attraverso lo studio accademico della teologia o del catechismo. C’è bisogno di raggiungere lo strato affettivo, i modelli relazionali, e questo è possibile attraverso una comunicazione che sappia ascoltare ed articolare il linguaggio degli affetti e dei simboli.
La compenetrazione degli esseri, a livello fisico, psichico, razionale e spirituale, sembra configurarsi come una legge essenziale dello sviluppo umano. Dio stesso partecipa allo sviluppo della persona seguendo questa legge: egli imprime in noi la sua immagine, un po’ come avviene per i genitori; quindi diventa il Dio-con-noi nella compenetrazione di due nature in un’unica Persona. Infine, si fa nostro nutrimento nell’eucaristia, anticipando la festa nuziale preparata nei cieli.
Che cosa c’entra tutto questo con la missione?
Mi pare che qui si possano fare alcune osservazioni:
- La missione è un processo relazionale che trasforma: essa parte da Dio che si proietta fuori di sé e cambia la nostra storia, perché ama; non si trattiene lassù nei cieli ma scende in una carne umana. Per questa compenetrazione di due nature, la storia si trasforma per sempre.
- L’evangelizzazione, se autentica, non si limita a raggiungere gli strati intellettuali della persona e del popolo, ma scende, sprofonda e penetra nell’humus affettivo e simbolico, là dove trovano radice le forze e le motivazioni che orientano la vita. Allora il Vangeloarricchisce e trasforma le radici della persona e della cultura e nel contempo diviene vivo della vita della persona e della cultura che incontra.
- Ogni compenetrazione suppone l’incontrodi differenze in movimento. Vi è un movimento di proiezione all’esterno: i verbi andare, scendere, penetrare, inoltrarsi, esplorare, varcare i confini denotano la dinamica maschile della compenetrazione. Vi è un movimento di recezione all’interno: i verbi ricevere, recepire, accogliere, ospitare, custodire, includere, denotano la dinamica femminile della compenetrazione.
Ora, il mandato della Chiesa è di annunciare ma anche di accogliere l’annuncio: nella Chiesa si riconosce la dimensione petrina e quella mariana, ossia una dinamica maschile e una dinamica femminile. Il maschile è atto che si proietta all’esterno, il femminile è struttura ontologica: non è il verbo ma il seno in cui si incarna. Frizzi, analizzando il testo di Lc 10,5-7 nota che nella missione da una parte troviamo chi dà il kerigma e riceve l’ambiente culturale e dall’altra chi dà l’ambiente culturale e riceve il kerigma. Nella dinamica dell’incarnazione, che è alla radice della missione, da una parte, Dio dà il Verbo e riceve la carne, dall’altra parte l’umanità riceve il Verbo e dà la carne: avviene qui una trasformazione della carne e del Verbo; il Verbo diventa qualcosa che prima non era, diventa carne, mette la tenda fra noi, si manifesta, ed ora l’umanità può udire, vedere, toccare il Verbo della vita (cf. 1 Gv 1,1-3).
Mi pare che l’inculturazione del Vangelo altro non faccia che riflettere la danza di questi due movimenti nella compenetrazione dell’elemento maschile e di quello femminile della missione, nell’armonia tra l’annuncio e l’accoglienza, tra la semina e la mietitura della messe matura da ricevere nel granaio, tra l’andare con la semente da gettare e il ritornare portando i covoni (cf. Sal 126,6), tra il varcare i confini e l’ospitare la novità, tra il dare e il ricevere la Vita.
La via femminile
Vorrei precisare che, quando parlo dell’elemento femminile della missione, non intendo riferirmi solo alla donna, ma voglio indicare la dimensione femminile dell’esperienza umana, che solitamente si concentra e si manifesta in modo più pieno ed evidente nella donna ma che, insieme alla dimensione maschile, gioca una parte fondamentale nella vita di qualsiasi persona o gruppo.
Nell’orizzonte vitale Macua, l’abbiamo visto, l’elemento femminile dell’esperienza umana vibra e risuona con una forza che per le culture di impronta patriarcale suona nuova e provocante. Il femminile rimanda a un’origine, a un ritorno, allo sprofondamento nel tempo mitico che diviene occasione di rilancio, rinascita, attualizzazione dell’atto cosmogonico originario in cui, nel contatto con la scaturigine della vita, è ri-creata la realtà personale e collettiva.
La vibrazione macua si acutizza nell’accostamento a certi testi biblici assai vicini, per forma e contenuti, alla letteratura originaria del popolo, per esempio ai proverbi e agli enigmi tradizionali. Un testo come quello di Proverbi 30,18-19 non può non infiammare la sensibilità macua:
Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell’uomo in una giovane donna.
In questo periodo i collaboratori del Centro Studi Scirima di Maúa si stanno immergendo nella contemplazione di questo testo, approfondendone il senso e i risvolti e lasciando che esso stimoli le profondità del cuore: sarà interessante conoscere che cosa emergerà da questo contatto tra la Parola biblica e la sensibilità macua scirima, e apprezzare ancora una volta, come già successo tante altre in passato, come la Parola rivelata nella Scrittura e la Sapienza del popolo, lasciate interagire, trovino punti di intesa ed illuminino prospettive e scenari altrimenti inimmaginabili.
Ma anche se non siamo Macua, possiamo cogliere da questo testo qualche provocazione. Il testo di Proverbi in questione è stato l’oggetto della lectio magistralis che il Card. Angelo Scola ha tenuto nel giugno del 2008 al festival biblico di Vicenza, da cui possiamo trarre qualche spunto. L’Autore dei Proverbi confessa la propria incapacità di comprendere alcune «vie»: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare e la via dell’uomo in una giovane donna. In qualche modo, la giovane donna rappresenta per l’uomo una via, rappresenta per l’uomo ciò che il cielo è per l’aquila, ciò che la roccia è per il serpente e ciò che l’alto mare è per la nave. Le tre immagini – del cielo, della roccia, dell’alto mare – veicolano un’impressione rispettivamente di ampiezza e spazio, di compattezza e stabilità, di profondità e mistero. La donna, enigma che sfugge alla comprensione, è presentata come via, ed una via che in qualche modo riunisce/coniuga in sé le dimensioni dell’ampiezza e dello spazio, della compattezza e della stabilità, della profondità e del mistero. La via del femminile non è qualcosa da capire con la ragione cerebrale, a cui si sottrae, ma piuttosto è una realtà da abitare (spazio), come un’aquila fa col cielo, è una realtà della quale si sente l’inequivocabile presenza (solidità), come un serpente che sperimenta la compattezza della roccia con la quale il suo corpo è a diretto contatto, è una realtà nella quale immergersi e lasciarsi andare (profondità), come una nave si lascia sostenere dal mare. L’incontro dell’aquila col cielo, del serpente con la roccia, della nave con l’alto mare, della mascolinità con la femminilità costituiscono l’occasione del movimento, la vittoria sulla staticità, l’inizio di qualcosa di nuovo che cammina nella storia. Un autorevole esegeta contemporaneo come Paul Beauchamp, commentando questo testo, arriva a dire che «L’enigma che sorpassa gli altri, secondo i Proverbi, è “la strada dell’uomo attraverso la donna” (Prov. 30, 18s), ossia è ciò che fa passare l’uomo attraverso l’immagine di colei che sta al suo inizio e che lo fa uscire da essa quando nasce, il che fa dell’incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo. […] L’esperienza della Sapienza è legata a quella della differenza dei sessi. Là dove l’uomo ritrova la propria sorgente e da cui esce un altro uomo, là è il luogo di elezione della Sapienza». Beauchamp probabilmente non è mai stato a Maúa, eppure il suo pensiero in questo punto enuclea uno dei pilastri fondanti della visione del mondo che il popolo Macua coltiva da millenni.
La dialettica ed il paradosso segnano profondamente la mentalità macua, allergica ad un approccio esclusivo e naturalmente aperta alla coesistenza degli opposti, refrattaria alle pretese di appiattimento delle polarità, duale e non dualista. Nel Monte Sacro, il Namuli, dalla forma esterna fallica e dalle grandi e profonde caverne in cui scorrono misteriose acque, il femminile e il maschile convivono come polarità in relazione dentro un’unica e variegata, solenne e umile, stabile eppur sempre danzante realtà. L’incontro tra il maschile e il femminile è via: via di comunicazione tra i due mondi, quello visibile e quello invisibile, ponte di connessione tra i due margini del fiume che segna il confine tra l’orizzonte umano e quello di Dio e delle creature spirituali, tra il giorno e la notte, tra il tempo presente e il tempo mitico delle origini.
La donna, Namuli vivente, è porta tra i due mondi, grotta di coniugazione tra i due emisferi, caverna primordiale da cui la vita esce e a cui ritorna per trasformarsi e rigenerarsi. L’incontro sessuale è morire per vivere, è ritorno al Namuli, terra e casa materna, viaggio alle origini, all’utero generatore laddove si trova il grande rimedio della vita. La vita nasce dall’incontro/comunicazione tra i due emisferi: ella varca le soglie dell’aldilà per entrare nell’aldiquà. Ma anche la morte è incontro tra i due emisferi, passaggio della vita nel suo viaggio di ritorno. L’incontro sessuale, in questo senso, segue la stessa dinamica della morte/rinascita: è un varcare la soglia del mondo invisibile, rientrare al Namuli ed essere di nuovo dati alla luce; è accoglienza di chi ritorna e ospitalità generativa. La sessualità allora condensa, esalta e celebra la polifonia delle polarità del mondo duale macua: uscire/ritornare, notte/giorno, tempo mitico e tempo presente (khalai/nanano), uccidere/generare, morire/vivere, uomo/donna, terra/cielo, sole/luna, roccia/acqua, negativo/positivo, aldilà/aldiquà, lotta/unione. Lì, nell’incontro tra il maschile e il femminile, si apre la via alla Sapienza, al ritorno, al ricominciamento, alla novità.
Come la luna
La sapienza tradizionale macua scirima non ha scritto saggi teorici sul femminile. Ha elaborato però tanti proverbi sulla luna. Ne gustiamo alcuni:
Muthiyana òwani okhwa ni ovinyerera: ti xeni? Mweri.
Una donna in casa muore e resuscita, che cos’è? La luna.
Yoriheya ohiyu enàsiwa ni mweri.
L’oggetto perduto si cerca di notte alla luce della luna.
Mweri wari wowuma murima, khanònaka itheneri.
Se la luna avesse il cuore cattivo non vedremmo le stelle.
Mweri onathaliha itthu sa Muluku.
La luna comunica le cose di Dio.
Mweri elolá ehinatutha mmaithoni Muluku opankiyaiye.
La luna è uno specchio fatto da Dio che non acceca.
Mweri mutokwené: onaririha mirima sothene sipattuxiwe vathi vá.
La luna è importante/grande: rinfresca tutti i cuori creati su questa terra.
Nsuwa ni mweri mutokwené mweri.
La luna è più grande del sole.
Omwene wa mweri wàreru, miri khasinùma.
Nel regno della luna, nonostante ella brilli, gli alberi non seccano.
Mweri erimarima ya itthu sothene s’ohiyu.
La luna è il nucleo cardiale dell’universo notturno (di tutte le cose della notte).
Mweri ori Namuli mutokwene athiyana yale avahiwe oyara.
La luna è il grande Namuli: le donne lo ricevettero per generare.
Mweri onahima muthiyana òpatxera variyari vasimaye.
La luna è la prima donna tra le madri.
Mweri muttuxí w’atthu akumi ni akhwiye.
La luna è l’ombra dei vivi e dei morti.
Vahikhanle mweri, sothene khasinawerya otxentxeya.
Senza la luna non si riesce a modificare nulla.
Mweri enukú ya ekumi.
La luna è seme di vita.
Akina annaweha mweri wirimu, akinaku arino mweri mmurimani.
Alcuni contemplano la luna nel cielo, altri hanno la luna nel cuore.
La luna, nel mondo scirima, condensa i significati relazionali legati ai luoghi d’ombra di cui la notte è somma espressione. La luna, di fatto, è il cuore delle realtà notturne, l’ombra dei vivi e dei morti, perciò dei due emisferi vitali e ponte comunicativo delle cose di Dio. Essa è inequivocabilmente donna, grande Namuli generatrice di vita. Per questo la luna è più grande del sole. La luna conosce fasi, conosce momenti di presenza e momenti di assenza; ella è maestra della gradualità, delle sfumature, di ciò che non è completamente chiaro ma nemmeno completamente oscuro, del mistero. La sua luce, a differenza di quella solare, illumina senza bruciare, anzi, ha il potere di rinfrescare/calmare i cuori. Il sole, quando sorge, spegne le stelle. La luna, al contrario, brilla nella notte e la sua luce, riverberandosi nelle stelle, valorizza ed esalta il loro splendore. Il sole è talmente luminoso che non lo si può guardare. La luna si può guardare, godere dello spettacolo del cielo stellato e, al suo chiarore, lasciarsi ispirare. La luna diviene allora uno specchio in cui la realtà può riflettersi senza esserne abbagliata. Al suo chiarore discreto si cerca ciò che si era perduto: la luna lascia quello spazio di ambiguità e libertà perché chi cerca possa non solo vedere ma anche immaginare. Per questo, senza la luna non è possibile alcuna trasformazione: una trasformazione che avviene non solo perché si è visto qualcosa, ma anche perché lo si è immaginato, sognato, desiderato, in qualche modo creato e alla luce discreta dello specchio lunare, trovato. La luna provvede così quello spazio di «gioco» in cui il cambio può avvenire perché ciò che è cercato viene in qualche modo non solo trovato ma anche creato interiormente. La luna costituisce allora una presenza trasformante e terapeutica. Essa si pone quale ponte tra i due emisferi, mediatrice di messaggi altrui e della luce altrui: ella, di fatto, non brilla di luce propria, ma riflette la presenza di un altro astro, che è sorgente della luce.
Ma la luna non si trova solo in cielo: c’è chi ce l’ha nel cuore e in qualche modo diviene luna per il pellegrino in viaggio su strade spesso aride e assolate. Un pellegrino che, alla luce discreta dell’astro della notte, può accorgersi che il Namuli, il Monte Sacro meta del suo andare, non va solo trovato là fuori ma anche generato dentro. E che il viaggio a cui è chiamato è, di fatto, un «gioco serio» di trasformazione interiore che chiede sì di guardare al Namuli, ma soprattutto di calarlo nel cuore.
Allora, per il Scirima, il principio namulico si configura anche nella relazione con l’altro e con l’Altro: si tratta di un andare e un venire, un prendere distanza e un riavvicinarsi, un po’ come il ragno (ranttasi) che tesse la sua tela tra realtà diverse, unendole in una nuova composizione. Un po’ come le termiti che lavorano all’interno del loro termitaio (eruwa) uscendo per spedizioni alimentari o riproduttive per immancabilmente tornarvi e continuare il loro lavoro di costruzione e trasformazione dell’utero che le ha generate.
La relazione si rivela una realtà potente e trasformante: l’altro non è solo là fuori ma è anche profondamente dentro. Il Namuli al quale il pellegrino era diretto chiede ora di trovare uno spazio interiore; il Namuli che chiama ed accoglie il pellegrino si fa egli stesso pellegrino e chiede ora di essere ricevuto interiormente, in uno scambio reciproco di doni. Non ci sarà più solo un pellegrino del Namuli, ma anche un Namuli del pellegrino. Allora, il cantico della reciprocità potrà innalzarsi nell’ombra notturna, al chiarore discreto della luna che custodisce il mistero dell’incontro.
Conclusione
Tutte le culture sono sostenute da metafore e miti di base che formano le strutture portanti dell’edificio culturale e che, coscientemente o no, orientano la vita emozionale e influenzano le scelte della persona e della collettività. Questo fatto non è privo di conseguenze dal punto di vista del dialogo interculturale e dell’evangelizzazione inculturata.
Il dialogo interculturale, nella sua espressione più profonda, è dialogo tra i valori che danno senso alla vita, valori custoditi nei miti e nelle metafore basilari che costituiscono il cuore della dinamica culturale ma anche della dinamica personale; è la possibilità di porre sulla mensa della stessa umanità il prezioso tesoro di ciò che dà significato e direzione all’esistenza, di ciò che rappresenta l’originalità di un popolo e di una persona. Si tratta, insomma, di attuare la «convivialità delle differenze», di realizzare il sogno di Isaia in cui la ricchezza dei popoli viene su dromedari, cammelli e navi e si riversa nello spazio accogliente della città di Dio, dimora dell’umanità tutta, che si alimenta succhiando «il latte delle genti» (cf. Is 60, 4-16).
L’evangelizzazione inculturata non può prescindere dal dialogo interculturale e dal dialogo interreligioso, che ne rappresenta il cuore. Se la missione è questione di relazione trasformante – e trasformante nel profondo, fino alle radici – allora il Vangelo chiede di raggiungere gli strati più intimi e vitali della cultura e della persona. Ma raggiungere i valori di base del popolo, i miti, le configurazioni simboliche, le metafore portanti non è questione di tecnica e nemmeno solo di convivenza. E’ prima di tutto dono dell’Altro e dell’altro che hanno la libertà invitare o no l’evangelizzatore ad un passo oltre la soglia della conoscenza superficiale degli usi e costumi per accedere al cuore vitale dell’identità del popolo. Ed è anche compito dell’evangelizzatore che, cosciente della propria ignoranza rispetto al mondo dell’altro, con rispetto, empatia, gratitudine, meraviglia e desiderio di imparare, può accettare l’invito dell’altro ad entrare in casa sua.
Mentre, in ambito missionario e missiologico, la dimensione maschile del dialogo interculturale e dell’inculturazione del Vangelo è stata sufficientemente enfatizzata – i verbi come andare, varcare i confini, penetrare vengono spesso usati per parlare di evangelizzazione – non si può dire altrettanto della dimensione femminile, che si esprime nelle categorie dell’accoglienza, del ritorno, del ricevere, recepire, ospitare, includere, custodire.
Per noi, missionari e missionarie della Consolata, che troviamo nella nostra Madre l’ispirazione per il nostro essere e per il nostro agire, la dimensione femminile della missione è (o dovrebbe essere) particolarmente rilevante. La vita di molti missionari e missionarie della Consolata si è intrecciata con quella del popolo Macua e la felice e feconda compenetrazione di queste vite è forse una delle caratteristiche più belle della missione attuale in Maúa – e di quante altre esperienze missionarie consolatine! Le comunità cristiane di Maúa e dintorni hanno assunto una spiritualità eminentemente consolatina, che in qualche modo riesce ad esaltare e si lascia volentieri contaminare dalla spiritualità scirima imperniata sull’esperienza di Dio Madre e della vita come un viaggio di ritorno al Suo grembo tenero e forte, sempre gravido di vita. Il carisma consolatino, in questo scambio di doni, si è arricchito di nuove sfumature nei missionari e missionarie che hanno avuto la grazia di entrare empaticamente in questo flusso vitale in cui ognuno si dispone a dare e a ricevere gratuitamente: spiritualità consolatina e spiritualità scirima hanno potuto così stringere un’alleanza feconda, di cui possiamo oggi godere tanti saporosi frutti.
Sr Simona Brambilla, MC