San Paolo e la libertà

Picture by Ted from Flickr – St Paul the Apostle

Spesso le lettere di Paolo ci suonano astruse e difficili. Questo accade perché gli capita di scriverne anche nel pieno dell’agitazione, e dà l’impressione di non averle solitamente rilette. Ma si può anche notare che di fronte alle questioni che gli si pongono, non si limita a dire “fate così”, ma conduce i suoi lettori a capire quali sono le conseguenze e le implicazioni delle diverse scelte.

Questo procedimento diventa particolarmente interessante anche per noi, anche quando tratta temi che per noi non sono più significativi.

Gli idolotiti

Uno di questi temi viene affrontato nei capitoli dall’8 al 10 della prima lettera ai corinzi.

La comunità di Corinto era vivace e propositiva, benché non sempre troppo portata alla teoria, si direbbe: d’altronde, era composta da commercianti e schiavi, persone pratiche e meno abituate a filosofeggiare. Anche per questo Paolo sembra trovarsi a volte come di fronte a dei ragazzini poco disciplinati, indubbiamente generosi ed entusiasti, ma a volte un po’ caotici.

Un esempio lo troviamo in una questione su cui sembra siano loro a interrogarlo e che riguarda gli «idolotiti», ovvero le «carni immolate agli idoli» (1 Cor 8,1).

La grande maggioranza dei culti dell’antichità, almeno nell’area mediterranea, comportava un sacrificio animale. L’idea simbolica era di offrire alla divinità qualcosa di prezioso, magari perché se ne nutrisse (bruciandone le carni sull’altare) e condividendo eventualmente il banchetto con il dio o la dea, come se fossero convitati. La carne che eventualmente avanzava andava ai sacerdoti, che se ne cibavano. È tuttavia facile immaginare che fosse tanta la carne immolata, cotta e avanzata. Siccome non aveva senso conservarla, in quanto il giorno dopo ne sarebbe arrivata altra, era abitudine venderla, alla fine della giornata, alle porte del tempio. Chi la comprava sapeva che era carne di buona qualità (non si offrono alle divinità gli scarti…), a basso prezzo (perché ai sacerdoti non era costata niente, e non volevano avanzare) e in più portava il vantaggio di essere passata dal tempio. Vale a dire che chi la comprava ovviamente sapeva di non averla offerta in prima persona, ma poteva immaginare che in qualche modo fosse stata “santificata” dal passaggio sull’altare. Infine, si sapeva che quei denari spesi sarebbero andati per le esigenze del tempio, e probabilmente molte persone anche per questo li spendevano volentieri, come un pellegrino di oggi non sta a disquisire sul prezzo di un souvenir comprato a un santuario, perché immagina che comunque quei soldi vadano a fin di bene.

Offering to the Dead – Greece – By NYPL Generative net Media

La domanda dei corinzi doveva riguardare quelle vendite: un cristiano poteva approfittarne? Paolo aveva spiegato loro che gli dèi non esistono, quindi quella era solo carne, di buona qualità e basso prezzo: non c’erano problemi ad acquistarla, vero? Se pongono la domanda a Paolo, in verità, deve essere perché non tutti erano d’accordo, probabilmente pensavano che non venerare gli idoli significasse rompere ogni rapporto anche con gli idolotiti. E poi, chissà, forse ci potevano essere non pochi che immaginavano che, va bene, erano diventati cristiani, ma nel dubbio tenersi buoni anche gli dèi poteva essere un’opzione da non scartare…

La situazione

Paolo potrebbe dire semplicemente “fatelo” o “non fatelo”, una riga. Invece riempie tre capitoli della sua lettera. Perché?

Perché non si accontenta di dare una risposta, ma vuole far capire come ci arriva, e perché la questione può essere più profonda e importante di quanto immaginino i corinzi.

Paolo inizia a fare il punto: «Noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo» (1 Cor 8,4), e che «non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio» (8,8). La questione, detta così, sembrerebbe già risolta. Nello stesso tempo, però, sappiamo con altrettanta chiarezza che non tutti hanno questa conoscenza limpida, probabilmente immaginano che mangiare gli idolotiti comporti di scendere a patti con gli idoli, di tenerli ancora in qualche considerazione, o forse sentono di essersi contaminati con quelle carni immolate. Come che sia, «la loro coscienza, debole com’è, si macchia» (8,7).

L’apostolo è chiarissimo: questi ultimi credenti sono deboli, e si sbagliano. Hanno ragione quelli che pensano che quelle carni che sono passate dal tempio siano semplicemente carne. Quindi, questione risolta?

Neanche per sogno. Già Paolo si permette di iniziare a tirare alcune conclusioni: «Badate che questa vostra libertà non diventi occasione di caduta per i deboli» (8,9). In quanto «per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto!» (8,11). L’ultima annotazione è pesantissima: anche per i deboli, per quelli che non capiscono abbastanza, Gesù ha donato la propria vita. Ha senso rimettere in questione la sua morte in croce semplicemente per difendere la propria libertà?

Il criterio di fondo

Come di fronte ad altri temi pratici, Paolo allarga il discorso. Questa volta è più semplice capire che non ha cambiato argomento. Semplicemente, ragiona sulla propria libertà. Non è forse vero che chi lavora per il vangelo ha il diritto di essere mantenuto, e di sposarsi, e di avere una vita normale? Paolo qui sostiene che Pietro, “i fratelli del Signore” e gli altri apostoli fossero sposati (9,5), e pare che solo Barnaba, oltre a Paolo, lavorasse per mantenersi (9,6).

Certo, spiega Paolo, avrebbe avuto il diritto di farsi mantenere, visto che lavora per il vangelo, però ha deciso di non farlo (9,15), perché pensa che l’annuncio del vangelo passi davanti a tutto il resto. Paolo rivendica di aver vissuto da ebreo con gli ebrei, da greco con i greci (9,20): «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a tutti i costi qualcuno» (9,22), con una formula che è bellissima, perché dice  con chiarezza la scelta assoluta con cui Paolo si è messo in gioco, senza però mai pretendere che al “tutto” che lui dà corrisponda il “tutto” della risposta, che resta libera, e quindi non prevedibile. E infatti già “qualcuno” salvato è un premio sufficiente.

Paolo fa poi l’esempio degli atleti, che mettono a dura disciplina il proprio corpo e la propria vita per una vittoria che pure tocca solo pochi… (9,24-27): senza impegno non si vince, ma impegnarsi non garantisce la vittoria. Paolo non vuole essere “eliminato”, cioè non riuscire a salvare qualcuno, solo perché il suo impegno non è stato sufficiente.

In tutto ciò, tuttavia, è chiaro che l’obiettivo non è di essere premiato, lodato o di vincere, ma di «guadagnare a tutti i costi qualcuno a Cristo».

L’applicazione

Il criterio di fondo per valutare l’opportunità delle scelte, quindi, è di pensare agli altri e alla diffusione del vangelo, e non ai propri diritti o alla propria libertà.

Una volta stabilito tale criterio, comunque, Paolo torna sulla questione. Nel farlo, tuttavia, riparte da molto lontano, ossia dalla storia biblica. Fa infatti notare che nella storia dell’esodo, tutti gli ebrei uscirono dall’Egitto, ma non tutti arrivarono nella terra promessa, perché non furono fedeli, pur essendo chiamati (10,1-12). Richiama quindi il principio di fondo: l’idolatria è da evitare, e su questo tutti sono d’accordo (10,13-22). Dopo di che, torna un ritornello già sentito diverse volte nella lettera: in Gesù non ci sono regole vincolanti, ma questo non significa che si possa fare tutto ciò che si vuole, perché non tutto ci fa bene (10,23): «”Tutto è lecito!”. Sì, ma non tutto edifica».

The Apostle Paul Detail from Gary Stock Bridge 617 from Google Art Project

Solo a questo punto arrivano davvero le indicazioni pratiche: se si trova carne in vendita, la si può comprare senza problemi (10,24-26), senza tutti quegli scrupoli che erano dei farisei (rimproverati da Gesù perché «pagate la decima sulla menta, sull’aneto e sul cumino», Mt 23,23, ossia su spezie che sono vendute in quantità minime). Allo stesso modo, non c’è bisogno di farsi problemi su ciò che, invitati in casa d’altri, ci mettono davanti (1 Cor 10,27): «Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo» (Mt 15,11).

Se però chi offre da mangiare avvisa che quella carne è di idolotiti, significa che per chi ospita questo particolare è significativo. In questo caso, Paolo consiglia di non mangiarne: «Per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro» (1 Cor 10,28-29).

È chiarissimo che cosa intenda suggerire Paolo: gli idoli rappresentano dèi che non esistono, quindi nessuna carne ne è contaminata. Ma può darsi che ci siano persone più deboli, dalla fede meno sicura, per le quali quello può essere una tentazione e un problema. A quel punto, non importa che la teoria dia ragione a chi ha una fede più formata, più solida, più matura. Per evitare di danneggiare il più debole, ci si accorda sui suoi scrupoli. «Non date motivi di scandalo né ai giudei, né ai greci, né alla chiesa di Dio, perché molti giungano alla salvezza» (10,32-33). Nella chiesa le persone valgono sempre più delle teorie.

Angelo Fracchia

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