Ma san Paolo era maschilista?

The Apostle Paul from Gary Stock Bridge from Getarchive.net

Paolo è un autore fondamentale del Nuovo Testamento, ma si porta dietro la fama di essere un irriducibile maschilista misogino. In effetti tra i suoi scritti non mancano espressioni che ci sembrano oggi retrive e discriminanti.

Ma è davvero così?

Leggere e capire

«La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia» (1 Tm 2,11-12). Questo passo, senza dubbio, è presente nel Nuovo Testamento. Anzi, nella tradizione ecclesiale si continua a proclamare che si tratti di una lettera di Paolo.

Questa paternità, per molti motivi (lingua utilizzata, temi trattati, approccio di fondo), è molto improbabile, quasi impossibile. Ma ovviamente resta una pagina, fortemente maschilista, che è inserita in un filone di letteratura attribuita a Paolo. Come trattarla?

Chi legge la Bibbia deve ricordarsi che è “parola di Dio” non perché ogni singola virgola è stata voluta da Dio stesso, proprio con le parole che leggiamo. Il fatto stesso che il Primo Testamento sia arrivato ai cristiani in tre lingue diverse, e che anche la traduzione greca sia considerata ispirata, significa che non si è mai creduto che Dio si esprimesse in una lingua specifica. Ma siccome sappiamo che la lingua che parliamo condiziona anche la forma dei nostri pensieri, è chiaro che se Dio ispira il nucleo del messaggio di un libro biblico, dipendono invece dalla sensibilità dell’autore e dalla cultura in cui vive le forme con cui quel nucleo si esprime, i rivestimenti che prende, addirittura alcune questioni secondarie, che magari non sono approfondite. Come facciamo anche noi, che sui temi su cui non abbiamo pensato molto finiamo con il ripetere quello che si dice in giro. Non è un caso che le prime generazioni cristiane non si siano contrapposte con forza alla schiavitù, in quanto era talmente scontata e diffusa nel loro mondo, che era difficile accorgersi di quanto fosse contraria all’intenzione divina.

Il mondo nel quale nasce praticamente tutta la Bibbia è fortemente maschilista, e non è raro che questa impostazione trabordi anche negli scritti biblici. Compreso quello da cui siamo partiti, che ha al cuore la speranza di ricondurre le chiese paoline nell’alveo delle altre chiese, e di garantire che vivano in pace e ordine. Per quel mondo, “ordine” significava non disturbare le convenzioni sociali, compresa quella che prevedeva le donne mute e ubbidienti. Quanto poco questa immagine corrisponda al volere divino è stato intuito da altri scritti biblici, più centrali e significativi, ma nei testi continuiamo a sentire anche toni che restano, secondo noi, più discutibili.

Ma se allora volessimo tornare al cuore del messaggio di Paolo, abbandonando lettere che probabilmente non ha scritto lui, riusciremmo quindi a trovare un contenuto più interessante? O dobbiamo rassegnarci a un “apostolo delle genti” incapace di apprezzare le donne?

L’impostazione di fondo

«Tutti voi siete figli di Dio in Cristo Gesù mediante la fede; infatti, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non esiste più giudeo né greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o donna: tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28). La lettera ai Galati è sicuramente paolina, e anzi tratta di un tema che gli sta particolarmente a cuore, ossia il fatto che la relazione piena e autentica con Dio (“la salvezza”) sia frutto non dello sforzo faticoso dell’uomo (“le opere”) ma del dono gratuito di Dio, che semplicemente vuole vivere in comunione con gli esseri umani (“la grazia”). E siccome questa armonia con Dio è un dono per tutti gli esseri umani, non ci possono essere condizioni che ne escludano o la rendano più probabile. Se qualcosa la condiziona, sono le scelte dei singoli, ma non le situazioni che loro non hanno deciso. Paolo riprende esplicitamente le tre grandi discriminazioni che si riteneva garantissero di essere migliori. Esisteva addirittura una preghiera che ringraziava di non essere pagano, di non essere schiavo e di non essere donna, perché erano condizioni che non concedevano abbastanza conoscenza o libertà per essere all’altezza di Dio. Paolo sottolinea con tutta la forza possibile che Dio non fa preferenze. Quindi, neppure tra uomini e donne.

Icona di Aquila e Priscilla from Wikimedia Commons

Questa è l’intuizione “teorica” di Paolo, chiarissima. È il cuore del suo messaggio, quello che lui ha capito e si sforza di comunicare. Può capitare anche a noi, di avere presenti dei principi a cui vogliamo aderire perché sappiamo che fanno il nostro bene, ma poi magari a volte scivoliamo in vecchie abitudini di cui non ci viene da vantarci. O addirittura che ripetiamo frasi fatte che non sono in sintonia con ciò che pensiamo, ma non ce ne accorgiamo neanche. Succede anche a Paolo? Può darsi che abbia intuito la pari dignità maschile e femminile ma poi magari non sia riuscito a viverla nella pratica?

A giudicare da quello che dice delle sue collaboratrici, non parrebbe così: « Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita» (Fil 4,2-3): qui Paolo deve rimproverare due donne che litigano (e non deve trattarsi di un semplice bisticcio), ma lo fa con leggerezza, quasi lodandole per tutto il bene che hanno compiuto prima.

La prima lettera ai Corinzi è un testo lunghissimo in cui Paolo risponde anche a molti dubbi dei suoi corrispondenti. Prima, però, quasi all’inizio (1 Cor 1,11), ritiene di dover cominciare con un rimprovero su un comportamento che gli è stato riferito dalla “gente di Cloe”, che è una donna: informatrice dunque ritenuta tanto affidabile e autorevole, per Paolo, da citarla per nome e iniziare il suo discorso da lì.

Tra i tanti collaboratori e amici citati nelle sue lettere autentiche, d’altronde, Paolo elenca circa un terzo di donne: certo, non sono in pari numero rispetto agli uomini, ma persino in tanti contesti politici o dirigenziali odierni, una percentuale di questo tipo sarebbe già fantastica.

Ma poi, tra queste collaboratrici, qualcuna sembra avere una forza e un’autorevolezza superiori a quelle degli uomini, e pare che Paolo se ne fidi totalmente: è Prisca, ad esempio apparentemente più importante del marito Aquila (Rom 16,3), è la Lidia ricordata negli Atti degli Apostoli (At 16,14.40). Ma è poi anche una donna come Febe (Rom 16,1-2).

Per capire l’importanza di quest’ultima sono necessarie due spiegazioni. La prima è la sua definizione, come “diacono di Cencre”. Questo posto era il secondo porto di Corinto, città su due mari. Per quanto fosse quello meno grande, doveva contare diverse migliaia di abitanti. Il fatto che Paolo non dica “una dei diaconi”, come pure l’utilizzo di una forma al maschile (come se fosse una carica più che una definizione), fa pensare che lei fosse l’unico diacono in quel centro, che però era costituito con tutta probabilità da tante piccole chiese familiari. Insomma, anche se il termine “diacono” per noi ha un significato più preciso e allora indicava il “servitore”, verrebbe da pensare a una figura unica, di coordinamento o addirittura di guida. Qualcosa di vagamente simile al nostro odierno vescovo. E di certo in una chiesa fondata da Paolo non poteva essere alla guida della comunità credente di Cencre qualcuna che Paolo non avesse come minimo approvato.

Ma poi, di Febe si dice che sia la “postina” della lettera a Roma. Quella ai Romani è una lettera delicatissima e fondamentale, per Paolo, lo scritto in cui argomenta meglio la centralità della fede sulle opere. E nell’antichità chi portava delle lettere non si limitava a consegnarle, ma solitamente le leggeva e spiegava. (E nella lettera ai Romani da spiegare c’è tanto!). Insomma, per un incarico tanto delicato, da cui dipendeva moltissimo della prosecuzione del lavoro di Paolo, lui sceglie una donna. Per un presunto misogino, non c’è male!

Alcune espressioni complicate

Ci sono però nelle lettere sicuramente paoline anche espressioni e pensieri che ci lasciano più perplessi.

Il più ampio è un’elucubrazione che troviamo nel capitolo 11 della prima lettera ai Corinti. Lì Paolo si sforza di argomentare che è bene che le donne portino il velo. E gli uomini no. E lo prova a dimostrare parlando del primato dell’uomo nella creazione (11,8-9), salvo rimangiarsi l’osservazione subito dopo (11,11), quasi si fosse accorto di aver detto una stupidaggine. Poi fa appello al motivo “degli angeli”, o forse “dei messaggeri”, che però non spiega bene, per cui noi non siamo sicuri di capirlo, e lo lascia subito cadere, come se non fosse decisivo. Alla fine, approda a un «noi non abbiamo il gusto della contestazione» (11,16) che però forse ci fa comprendere meglio di tutto il resto dov’è il problema.

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Nel mondo in cui vive Paolo, le donne fuori casa erano invisibili e mute, e non andavano in giro se non con i capelli coperti. Quando accoglievano qualcuno in casa, era a volte possibile che godessero di maggiore libertà, ma sempre presentandosi con modestia, con il velo in testa. Solo con i parenti stretti si sarebbero potuti vedere i loro capelli. Se Paolo contesta l’abitudine delle donne di restare a capo scoperto, se ne deduce che succedeva che nelle riunioni dei cristiani le donne si presentassero come in famiglia, in intimità, a capo scoperto: in fondo, i cristiani tra loro si chiamavano “fratelli”. Ma si direbbe anche che Paolo in realtà sia soprattutto preoccupato dell’eventualità che i gruppi cristiani si facciano la fama di essere rivoluzionari o contestatori, su questioni che chiaramente dovevano sembrargli secondarie. Se sulla schiavitù suggerisce un comportamento in parte diverso dal consueto, pur non ordinando stravolgimenti sociali (si può leggere la brevissima e deliziosa lettera a Filemone), pare che sul velo voglia dire qualcosa del tipo: “Non è fondamentale, tenetevelo e non piantiamo grane!”.

Molto più avanti nella lettera, peraltro, Paolo sembra farsi ancora più duro: «Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti, perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace. Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea. Forse la parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto a voi?» (1 Cor 14,32-36).

A partire da quanto abbiamo colto sopra, e dall’accenno iniziale, si direbbe di nuovo che Paolo voglia innanzi tutto evitare che la comunità cristiana di Corinto sembri un covo di rivoluzionari confusionari. Tanto è vero che al “disordine” contrappone non l’“ordine” ma la “pace”. Qui Paolo sta parlando di coloro che nell’assemblea si sentivano migliori perché ispirati dallo Spirito a parlare in lingue sconosciute: lungi dall’esaltarsi per un dono tanto straordinario, risponde sostanzialmente che, se la preghiera e l’edificazione si possono capire, bene, altrimenti lui preferisce uno che insegna e spiega a uno che non si capisce che cosa dica. Qui aggiunge l’osservazione sulle donne, che forse sono parenti o mogli di quelli che parlavano in lingue strane; o forse Paolo vuole semplicemente mettere un freno al pettegolezzo e alle chiacchiere inutili. In fondo, se avesse voluto che le donne tacessero sempre, nelle sue chiese, non avrebbe esaltato tante che predicavano, né avrebbe parlato tanto bene di Priscilla e Febe… Insomma, qui bisogna ammettere che forse Paolo non si è espresso bene, altrimenti sarebbe incoerente con tanto altro che dice e fa.

Una parola conclusiva

Paolo misogino, quindi? No. Ma un Paolo inserito nel suo mondo culturale, di cui respira anche i difetti, che a volte fa propri. E che scrive lettere che a volte non rilegge, buttandole giù di getto.

Ma soprattutto un apostolo che ha aiutato il mondo cristiano a capire che seguire Cristo è perfettamente possibile per tutti, in qualunque condizione, perché davanti a Dio non ci sono differenze di grado, non ci sono preferenze. Dio accoglie tutti alla stessa maniera: pagani ed ebrei, schiavi e liberi, uomini e donne…

Angelo Fracchia

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