In cammino verso il Regno: il pellegrinaggio nella Bibbia

Care amiche ed amici, sono Carlo Miglietta, un laico, papà e nonno, medico e biblista, e avrò il piacere quest’anno sinodale di riflettere con voi sul senso del cammino nella Bibbia. Sinodo infatti deriva da syn e odòs, e significa proprio “camminare insieme”. Ha scritto Papa Francesco: “La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata… Anche la misericordia è una meta da raggiungere e richiede impegno e sacrificio”.

UN POPOLO IN ESODO

L’essere pellegrini è una dimensione fondamentale per i cristiani: non per nulla la Bibbia presenta l’esperienza di fede come un cammino. Il popolo eletto nasce dall’obbedienza di Abramo e la sua disponibilità a mettersi in viaggio, uscendo dalla propria terra (Gn 12,1-4); nelle sue confessioni di fede Israele proclamerà sempre: “Mio padre era un Arameo errante” (Dt 26,5); e sarà l’Esodo dalla schiavitù d’Egitto alla Terra Promessa che gli farà sperimentare Dio e lo formerà come popolo credente.

Anche per il Nuovo Testamento la fede è un cammino: Luca addirittura interpreta tutta la vita di Gesù come un grande viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28), e poi come un esodo verso il Padre (24,51); sempre in Luca, Gesù è il buon Pastore in cammino (15,4-7), che procede “decisamente”, “davanti agli altri” (9,51.53.56.57); essere discepoli significa, di conseguenza, per Luca “seguire Gesù” (5,11), “camminare con lui” (10,38), insieme a tutta la folla (14,25), ed è lungo il cammino che il Risorto si rivela ai discepoli di Emmaus (24,13-35).

Il Cristianesimo è perfino chiamato semplicemente “la via” (At 9,2): diventare cristiani significa fare esodo convertendosi a Dio (Lc 5,8-10), prendere la propria croce dietro al Maestro (Lc 9,23-25), ed infine andare in tutto il mondo a predicare il Gioioso Annuncio (Lc 10,1; 24,46). L’intero libro degli Atti descrive il cammino evangelizzante della prima comunità cristiana. I credenti sono, perciò, “stranieri e pellegrini (pàroikoi kaì parepìdemoi) sopra la terra” (Eb 11,13; 1Pt 2,11). Paroikìa, da cui deriva il nostro termine “parrocchia”, viene da parà oikìa, “presso le case”, e indica il nomade di passaggio; il suo contrario, katoikìa, significa “abitare nel proprio paese” (Nm 24,21). “Parrocchia” dovrebbe quindi evocare non stabilità, sicurezza, potenza ma, all’opposto, provvisorietà, precarietà, transitorietà. Il salmista si definisce così uno straniero davanti a Dio: “Io sono un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri” (Sl 39,13).

IL PELLEGRINAGGIO, VIAGGIO VERSO DIO

Il pellegrinaggio, pratica in uso presso tutte le religioni, è un viaggio verso un luogo nel quale si pensa che la divinità sia presente in modo del tutto particolare, e propizio, quindi, per rapportarsi con essa. È antica tradizione in Israele recarsi presso vari santuari, quali Betel, Sichem, Bersabea, Ofra, Zorea… A partire dalla costruzione del tempio, che diviene la sede dell’Arca dell’Alleanza, perciò luogo della presenza di Dio, è invece Gerusalemme che diventa, per ogni pio ebreo, la meta dove “tre volte all’anno comparire alla presenza del Signore” (Es 23,17). Nascono allora i cosiddetti “Salmi graduali”, cioè i “Salmi della salita” alla Città Santa, quelli dal 120 al 134. Anche Gesù si mette più volte in viaggio verso Gerusalemme (Lc 2,4150; Gv 2,13; 5,1; 7,14), come farà poi Paolo (At 20,16; 24,11). Ma il Cristo annuncia ugualmente la distruzione del tempio, presentando la sua stessa persona come il Nuovo Tempio, “sede” vera della Divinità.

Ecco allora che la vita diventa, per i cristiani, un pellegrinaggio verso il Signore Risorto: “Finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore” (2Cor 5,68), “perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Eb 13,14).

Il pellegrinaggio evoca pertanto la dimensione di “esodo” tipica del credente, chiamato a lasciare la sua terra, le sue sicurezze, i suoi idoli, affinché, non più stordito dal benessere terreno, capisca che solo Dio è l’essenziale, che solo da lui tutto proviene e tutto ritorna.

NOMADI DI DIO

Credo che dovremmo essere riconoscenti agli Zingari e ai numerosi popoli nomadi sparsi sui quattro continenti perché, con il senso della provvisorietà e dell’essenzialità che necessariamente li caratterizza nella ricerca di sempre nuove libertà e nuovi spazi, ci restituiscono in modo concreto questo aspetto della condizione umana. Essi ne sono in qualche modo “sacramento”, segno tangibile, così come lo sono stati quei “pellegrini di Dio” dei secoli passati (si pensi al famoso “Pellegrino russo”). Tutti loro svolgono oggi per noi quella misteriosa ma benefica funzione che, nell’Antico Testamento, era propria della tribù dei Recabiti, la tredicesima tribù, quella caratterizzata appunto dal nomadismo: costoro, di cui ci parla il profeta Geremia, rifiutavano la sedentarietà per poter essere in Israele segno e profezia vivente della dimensione esodica e peregrinante della fede: “Ionadab, figlio di Recab, nostro antenato, ci diede quest’ordine: «Non costruirete case, non seminerete sementi, non pianterete vigne e non ne possederete alcuna, ma abiterete nelle tende tutti i vostri giorni, perché possiate vivere a lungo sulla terra, dove vivete come forestieri»” (Ger 35,6-7); essi erano esempio vivo per Israele, tanto che Dio stesso invitò il popolo a cogliere il segno da essi rappresentato: “Non accetterete la lezione?” (Ger 35,13).

L’esistenza stessa degli Zingari e dei popoli nomadi ci ricorda, dunque, che siamo popolo in esilio: che non dobbiamo mettere radici né diventare regno stabile e potente di questo mondo, ma vivere nel provvisorio sperimentando quotidianamente la gratuità di Dio, “cercando le cose di lassù, dove si trova Cristo” (Col 3,1); ed essere popolo significa accompagnarsi alla gente in cammino come noi, entrare in dialogo con tutti i “colleghi” di viaggio, occasionali e non, mai paghi delle mete raggiunte, sempre pronti a uscire da noi stessi, dai nostri schemi, dalle nostre tradizioni, dai nostri pregiudizi, per andare dove Dio ci indica, in marcia verso il Regno (Ap 15,4).

UN CAMMINO INTERIORE

Ben vengano allora quei pellegrinaggi che possano aiutarci a recuperare la nostra dimensione di viatores, come dice il Papa. Guai però a fare del mero turismo religioso! Perché ciò che conta non è tanto l’atto fisico del mettersi in viaggio, ma il cammino interiore che si intraprende per andare incontro a Dio. Ci ammonisce Gregorio di Nissa, già nel IV secolo: “Voi che temete il Signore, lodatelo là dove vi trovate. Perché il cambiamento di luogo non comporta avvicinamento a Dio, ma, dovunque tu sia, sarà Dio a venire a te, purché l’albergo della tua anima sia trovato tale che il Signore possa abitare in te e camminare con te. Ma se tu hai pieno l’uomo interiore di pensieri malvagi, quand’anche tu stia sul Golgota o sul Monte degli Ulivi o giù nel Sepolcro della risurrezione, sei lontano dall’aver accolto Cristo… Consiglia dunque, o caro, ai confratelli di andare pellegrini dal corpo del Signore e non dalla Cappadocia alla Palestina”. Il vero pellegrinaggio è allora rientrare in noi stessi, autentici templi del Signore, è andare all’Eucaristia, è accorrere presso il povero e il sofferente (Mt 25,3146), luoghi tangibili della sua Presenza. Perché, afferma san Girolamo, “sia per chi sta a Gerusalemme sia per chi sta in Britannia è ugualmente aperta la dimora celeste, perché il regno di Dio è dentro di noi”. 

Carlo Miglietta

questo articolo è stato pubblicato su Andare alle Genti

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