
“Padre, ci aiuti a riconciliarci con la famiglia di Chan?”. Sokha mi coglie di sorpresa. “Come si fa ad aiutare due famiglie a fare pace?”, penso. “Facciamo come quando si celebra il sacramento della confessione, ma tutti insieme”, risponde lei intuendo i miei dubbi. “Cioè?”. “Veniamo in chiesa, ci chiediamo scusa per quanto è accaduto, preghiamo insieme, e poi tu ci dai la benedizione. Loro sono già d’accordo”. E così, la domenica successiva, ci troviamo noi cinque: Sokha e suo marito Phan da una parte, Chan e sua moglie Noon dall’altra, io in mezzo. Un canto allo Spirito Santo e dopo il segno della croce Phan prende la parola a nome della sua famiglia. È visibilmente imbarazzato, ma riesce comunque a esprimere il suo dolore per quanto accaduto. Avevano sempre vissuto come fratelli e sorelle e poi, a causa di uno di quei piccoli incidenti che capitano tra vicini, hanno cominciato ad allontanarsi fino a non parlarsi più… per anni. Ascolto Phan e la mia stima per lui cresce a dismisura. Conosco bene la fatica di chiedere scusa, e di farlo per primi. È difficile per tutti, ma in Cambogia ancora di più. La stessa parola utilizzata, somtoh, implica un errore molto grave, che il termine italiano “scusa” non rende. L’ho capito molto tempo dopo essermi lamentato almeno un migliaio di volte del fatto che i cambogiani non chiedono mai scusa. In verità lo fanno, ma con un gesto o un dono. Ascoltare quindi Phan chiedere esplicitamente scusa e non in maniera generica, ammettendo gli sbagli compiuti, risultava sorprendente ai miei occhi. Dopo di lui, anche Chan ha fatto lo stesso, compiendo uno sforzo enorme per dire quella parola: somtoh. Abbiamo poi cantato il salmo 50 (Pietà di me o Dio, nel tuo grande amore cancella il mio peccato…) e ho dato loro la benedizione del Signore.
SALIRE AL PIANO SUPERIORE
Ripenso alle parole che la figlia maggiore di Chan mi aveva detto riferendosi alla tensione che c’era con la famiglia di Sokha. Davanti al mio invito a fare la pace, chiuse categoricamente il discorso: “Padre, siamo uomini, non angeli”. Come a dire: il Vangelo chiede l’impossibile. Eppure a ogni santa Messa, la prima cosa che facciamo è proprio chiedere scusa, riconoscendo davanti a Dio onnipotente e a tutti i fratelli e le sorelle di aver molto peccato, non solo in parole e in opere ma anche con i pensieri e le omissioni. E, come se non bastasse, ci battiamo il petto tre volte, a ribadire che è proprio colpa nostra, che il problema è in noi, non negli altri. Questa confessione pubblica, ripetuta ogni domenica, non può non lasciare un segno. Perlomeno lo ha lasciato in Phan e Sokha. Il seme del Vangelo è diventato in loro un albero solido sui cui sono saliti con Chan e Noon, per vedere le cose dal punto di vista di Dio.

Salire a un livello più alto, “su di un piano superiore, che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto” è quanto ci propone Papa Francesco nel denso capitolo VII di Fratelli Tutti. “La vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente […] impariamo a puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la comprensione e l’impegno reciproci si trasformano in un ambito dove i conflitti, le tensioni […] possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita” (nn. 244-245).
IL FRUTTIVENDOLO HA RAGIONE
La visione evangelica del perdono non è di facile comprensione: in Cambogia è uno di quegli argomenti che generano equivoci e pregiudizi verso i cristiani. Come la volta che al mercato mi ero fermato a parlare con uno dei fruttivendoli. Con mia grande sorpresa, quando gli avevo detto di essere un missionario cattolico, lui aveva immediatamente esclamato: “Roma! Papa!”. È rarissimo incontrare un cambogiano che abbia questo tipo di conoscenze. Il 99.9% non ha la minima idea di chi sia un missionario cattolico, immaginarsi il Papa! Ma lui era un fruttivendolo particolarmente curioso del mondo. Dopo un po’ di chiacchiere, ecco arrivare la domanda: “È vero che i cristiani credono che il loro Dio perdona tutto e anche il crimine più grande viene cancellato come se niente fosse accaduto?”. Voi, cosa rispondereste? Io ho cercato di spiegargli che non è proprio così ma non credo di aver avuto molto successo. In ogni caso quella domanda ha continuato a risuonare in me: è proprio vero che il perdono è come un colpo di spugna che cancella tutto? In Fratelli Tutti abbiamo la risposta. Il Papa sta parlando del perdono tra gli uomini, ma in filigrana si coglie anche quello di Dio in Gesù. Dopo aver costatato come la proposta evangelica del perdono si presti a fraintendimenti e possa essere presentata in modo tale che finisca “per alimentare il fatalismo, l’inerzia o l’ingiustizia, oppure, dall’altro lato, l’intolleranza e la violenza” (n. 237), il Papa ribadisce con forza che il vero perdono non annulla il passato ma lo guarisce, lo assume in una nuova sintesi. Perdonare non è voltare pagina come se niente sia successo, perché “quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male. Spezzano il circolo vizioso, frenano l’avanzare delle forze della distruzione. Decidono di non continuare a inoculare nella società l’energia della vendetta, che prima o poi finisce per ricadere ancora una volta su loro stessi” (n. 251).
IL MALE VA PRESO SUL SERIO. COME IL BENE
Così in effetti lo ha vissuto Gesù. Il suo perdono sulla croce è stato tutt’altro che un semplice colpo di spugna. Il suo corpo martoriato sulla croce testimonia tutta la serietà con cui ha affrontato il male degli uomini. Gesù non ha semplicemente voltato pagina alla storia umana, ma vi è entrato totalmente. Si è immerso nel male del mondo, e, invece di alimentarlo, lo ha assorbito in sé con l’amore. Il perdono cristiano non è chiudere gli occhi di fronte al male, far finta che non esista, lasciandolo agire liberamente, ma prenderlo sul serio, facendo di tutto per interromperlo tramite la giustizia. “Non si tratta – dice il Papa – di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui a essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano.” (n. 241).

Questa visione del perdono ha inciso con tale profondità nella mentalità occidentale da avere generato quel concetto di giustizia che è alla base dei tanti tribunali sorti, a partire dalla II Guerra mondiale, per giudicare i crimini compiuti contro l’umanità. Anche in Cambogia un tribunale dell’ONU ha recentemente cercato di fare luce su quanto accaduto dal 1975 al 1979 sotto il regime dei Khmer Rossi (“khmer” è sinonimo di cambogiano, “rosso” indica il colore politico) ma ha dovuto fare i conti con un’idea di giustizia molto diversa. In Cambogia si sente ripetere spessissimo questo proverbio: “Fai il bene avrai il bene, fai il male avrai il male”. Ovvero, c’è una legge infallibile di causa-effetto che regola le vicende umane, e il bene o il male che tu compi, al momento giusto ti torneranno indietro. Non è quindi necessario che gli uomini anticipino il corso della giustizia tramite tribunali, come quello per i Khmer Rossi, perché essa arriverà da sola e chi ha fatto del male, in un modo o nell’altro, pagherà. Certo anche noi crediamo che un giorno arriverà per tutti il giudizio di Dio, però ciò non toglie, anzi esige, dice il Papa, che se vogliamo costruire una società più giusta e fraterna dobbiamo farlo partendo proprio dal fare verità su quanto successo. “È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde […]. Non mi riferisco solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono stati capaci di recuperare la dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono, la fraternità. Fa molto bene fare memoria del bene.” (n. 249)
LY, ARTIGIANA DI RICONCILIAZIONE
È quanto ha cercato di fare Ly. Tra le prime donne laureate in Cambogia, dopo che i Khmer Rossi hanno preso il potere è riuscita a scampare allo sterminio che si stava compiendo a danno di tutti gli intellettuali. Suo marito, suo padre e i suoi due fratelli vengono invece fucilati insieme a centinaia di notabili della sua città. “In un universo del tutto ignoto – racconta – mi sforzai di sopravvivere con i miei figli. L’aggressione psicologica era fortissima… Feci l’esperienza di una angoscia esistenziale assoluta. Un solo grido esisteva ancora in me: un grido di collera e di odio senza fine. Sperimentai la forza dell’odio, capace di tenermi in piedi nel turbine della violenza”. Sfollata in Francia, viene accolta in una parrocchia cattolica. Lì incontra Gesù e riceve il battesimo col nome di Claire. Ha raccontato la sua storia e il suo non facile cammino di riconciliazione e perdono in diversi libri, pubblicati anche in italiano, che vi consiglio di leggere.
“In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia” (n. 225).
DI P. LUCA BOLELLI, MISSIONARIO DEL P.I.M.E.