
Ci sono brani evangelici che attirano la nostra attenzione, ci affascinano, spesso perché chi li ha scritti voleva proprio che lo facessero, voleva che li leggessimo con particolare cura.
Uno di questi si trova nel quinto capitolo del vangelo di Marco, copiato anche da Luca al capitolo 8.
Un invito inatteso
Nel vangelo di Marco sono pochissime le persone indicate per nome: i dodici, qualche personaggio storico importante (Pilato, Anna e Caifa…), Bartimeo al capitolo 10, e prima Giairo. Di lui si dice che fosse capo della sinagoga di uno dei paesi “al di qua” del mare di Galilea, quell’importante e grande lago molto profondo e pescoso sulle sui rive spesso Gesù si fa trovare (Mc 5,22; Lc 8,41). La Palestina di quel tempo conosceva ancora il tempio, punto di riferimento per tutti gli ebrei, ma poteva contare anche su una rete di sinagoghe che, nei diversi paesi, facevano da luogo di incontro, di preghiera, di studio, e i cui responsabili erano probabilmente qualcosa di simile ai nostri parroci, garantendo anche la presenza di una persona di maggiore cultura e affidabilità religiosa. Ma Gesù non sembra proprio il modello del perfetto parrocchiano: ha abbandonato la famiglia bisognosa, si è raccolto intorno dodici perdigiorno che a loro volta avevano mogli, figli e lavori, e va in giro per la Galilea dicendo cose strane e facendo prodigi incomprensibili. Sarebbe la persona da cui Giairo dovrebbe mettere in guardia i suoi compaesani.
Ma Giairo ha un problema, il quale a sua volta è ben poco prevedibile o condivisibile. Perché a stare male è la sua figlia, dodicenne. Per il mondo di Giairo, le figlie sono dei beni poco utili, di cui bisogna prendersi cura per poi cederle ad altri. E prima dei tredici o quattordici anni non servono neppure a stringere qualche accordo con altre famiglie, tramite il matrimonio. Sono semplici pesi, con l’aggravante che vanno tenute più custodite e mangiano di più. Per il mondo di Giairo, le figlie dodicenni sarebbe meglio non averle. Per Giairo, però, no.
Per lui la relazione personale, l’affetto, anche se non previsto dalla sua cultura, è decisivo. Ama sua figlia, cosa che avrebbe fatto inorridire i suoi contemporanei, sarebbe parsa una caduta di dignità, di stile. E, poiché ama sua figlia, che è gravemente malata, e siccome ha sentito parlare di questo guaritore religiosamente poco affidabile, che passa dalle sue parti, decide di non tenere in alcun conto la dignità, le opportunità, le convenzioni e le convenienze, e di andare a chiedergli di guarirla.
E il Maestro, che spesso aveva mostrato di non nutrire simpatia nei confronti di coloro che detenevano il potere religioso, davanti a un padre che si commuove per una inutile figlia, ascolta, si mette in moto, andrà in casa sua.

Un intoppo
Salvo che, all’improvviso, si ferma: «Chi mi ha toccato?» (Mc 5,30; Lc 8,45). E i discepoli quasi lo prendono in giro: “Maestro, ci schiacciano da tutte le parti, siamo in mezzo a una folla innumerevole, e ti chiedi chi ti ha toccato?”. Ma Gesù si ferma, vuole vederci chiaro, vuole che esca la persona che lo ha nuovamente coinvolto.
E mentre lui cerca, chissà che cosa pensa Giairo? Che quel rabbi di cui si è fidato lo sta prendendo in giro? Che ha fatto finta di ascoltarlo per poi fermarsi con quelli che sono chiaramente pretesti? Gli evangelisti non ci dicono niente, ma noi restiamo lì, con lui, e potremmo persino anche noi dimenticarci di lui, perché intanto c’è una nuova emergenza.
Si tratta di una donna. Un’altra. Una donna che ha perdite di sangue, da dodici anni (l’età della figlia di Giairo). Che, quindi, non solo non può avere figli, quelli che in quella cultura rendevano sensata la vita di una donna, ma in più è costantemente impura, perché sempre a contatto con il sangue, e rende impuri coloro che tocca, per cui sarà condannata a vivere da sola, a non avere relazioni sociali, a non poter comprare, vendere… parlare con altri, abbracciarli.
Anche lei deve aver sentito parlare di Gesù, e si è avvicinata, fiduciosa che le sarebbe bastato toccare l’abito di quello strano rabbì per essere guarita. E in effetti si è sentita guarita. Ma ha paura a mostrarsi. Perché?
Gli ebrei prendevano molto sul serio le regole sulla purità. Come abbiamo detto, chi toccava il sangue restava impuro, e rendeva impuro chi avesse toccato. Chi era impuro non poteva compiere, tra l’altro, atti religiosi. Se si era impuri, toccare (di nascosto!) qualcuno di puro sarebbe stato un gesto decisamente scortese, perché si sarebbe esposta quella persona a commettere sacrilegi (compiere gesti importanti, rituali, solenni, da impuri) senza che lo sapesse. Probabilmente è per questo che la donna si nasconde: sa di aver commesso una scorrettezza, anche se mossa dal desiderio di riprendere a vivere e dalla fiducia che Gesù le avrebbe potuto restituire la vita.
Quando infine si denuncia, forse non si aspetta la reazione di Gesù: «Figlia! La tua fede ti ha salvata». È l’unica volta nel vangelo che Gesù chiama qualcuna “figlia”, con affetto e tenerezza. Non solo non la castiga, ma gioisce con lei.
Di nuovo in cammino
E Giairo? È sempre lì, pazientemente in attesa. Sua figlia (un’altra figlia!) sta morendo, e lui lo sa. Poteva pensare che il difficile sarebbe stato convincere Gesù, che invece non ha avuto bisogno di essere pregato. Ma quando le cose sembravano essersi incanalate, ecco l’intoppo di un’altra “figlia”. E mentre si rimettono in cammino, arrivano messaggeri da casa sua: “Non disturbare più il maestro, non serve più. È morta” (Mc 5,35; Lc 8,49).
Stavolta Gesù prende l’iniziativa, non aspetta neanche la reazione di Giairo: «Non temere! Continua solo ad avere fiducia!». Gesù non aveva messo alla prova il capo della sinagoga, davvero era stato fermato dal bisogno di ridare vita e serenità a una “figlia”. E, come un padre, si preoccupa della reazione di colui ha fatto aspettare. E poi licenzia tutti, se non tre discepoli, e va alla casa di Giairo, il quale forse potrebbe pensare che avrebbe potuto affrettarsi prima, ma che in realtà resta muto.
E una volta là, sale nella stanza della ragazza, accompagnato solo da quei tre discepoli e dai genitori. Sgrida coloro che fanno lutto, quasi a prendere in giro il dolore, e a farsi prendere in giro.
Ma poi si avvicina al letto: «Talità, kum» (Mc 5,41). Capita forse anche a noi che quando narriamo episodi delicati e cruciali della vita di persone care, restituiamo anche le loro parole, anche con la loro cadenza dialettale. Qui Marco ci restituisce le parole di Gesù in aramaico, la sua lingua madre, quella che aveva sentito dai genitori, che aveva parlato in casa. Anzi, ce la restituisce addirittura con un errore (usare la forma maschile dell’imperativo per rivolgersi a una donna) che però era molto diffuso nel linguaggio popolare.
E la ragazza si alza.
E mentre tutto intorno si scatena un prevedibile trambusto, Gesù si licenzia con parole stupefacenti: «Datele da mangiare» (Mc 5,43; Lc 8,55). “Povera ragazza, è stata malata per molti giorni, ora è guarita, ha fame. Smettete di stupirvi, e pensate a nutrirla”, come se la vita, davvero, riprendesse in modo quotidiano, semplice, banale.
Una morale?
Forse è bene lasciare che i racconti parlino da sé. Ma forse, anche, qualche indicazione possiamo raccoglierla, perché probabilmente i vangeli la lasciano.
La prima, e più fondamentale, è di un Gesù che incontra le persone. Non importa se siano reietti o importanti, adulti, o bambini. E soprattutto, non importa in nessuna direzione. Quelli tra noi che dicono di non voler privilegiare i potenti, magari li lasciano apposta in fine alla coda, li trascurano intenzionalmente. Gesù neanche questo: se il capo di una sinagoga viene da lui mosso da un sentimento sincero e spaventato, lo ascolta, esattamente come se fosse una donna malata da dodici anni. Gesù guarda le persone e vive nelle relazioni, non si occupa di ruoli o di potere.
Poi, è un Gesù che le persone le ascolta. Se si va a lui con sincerità, non si nega, non si nasconde. Si mette in cammino insieme a loro.
E ancora, può portare una parola di fiducia anche quando la fiducia sembra morta. E anche a ognuno di noi, probabilmente, continua a ripetere: “Qualunque sia la tua situazione, fidati ancora, figlia mia”.
Angelo Fracchia