
Ci sono pagine dei vangeli che hanno la capacità di affascinarci di più e che quindi conosciamo meglio. Anche queste, tuttavia, meritano uno sguardo più ravvicinato, per scoprire che probabilmente sanno ancora parlarci.
Una di queste si trova nel capitolo 15 del vangelo di Luca, uno dei capitoli più propriamente “suoi” e originali, e in particolare nei versetti dall’11 al 32: si tratta della parabola nota come “del figliol prodigo” o anche, negli ultimi tempi (e più opportunamente), “del padre misericordioso”. Quando Luca racconta senza condizionamenti, senza copiare da altri, sfodera uno stile che non sfigura neppure nei tempi nostri, pur avendo forse a volte bisogno di qualche spiegazione per parlare con più pienezza. Quel capitolo è l’esempio migliore.
Allestimento della vicenda
Tutti i racconti, i film, persino le barzellette, hanno bisogno di una prima parte in cui entriamo nella vicenda, si allestisce la scena, così che poi possiamo godere appieno di ciò che è il cuore del racconto.
Come ci ricordiamo bene, si racconta la vicenda di un “uomo” (spesso Luca paragona Dio a un uomo) che aveva due figli, il minore dei quali gli chiede la sua parte di eredità. Il testo greco, “addomesticato” nelle nostre traduzioni perché suoni leggibile in chiesa, dice che il padre «divise loro la vita» (v. 12). L’espressione risulta strana anche nell’originale, ma se ne può ben capire il senso: l’eredità viene divisa tra gli eredi quando il proprietario muore. Chiedere di avere già la propria parte d’eredità significa invocare la morte del padre. “Visto che non ti decidi a morire, almeno dammi i soldi”. È lecito provare ad immaginare come reagiremmo noi di fronte a una situazione del genere, perché Luca vuole presentarci l’agire di Dio, e lo confronta implicitamente con il nostro. Chi di noi, di fronte a qualcuno che invoca la nostra morte, si affretterebbe a regalare dei beni propri? Eppure è proprio ciò che fa Dio, che, a chi si augura di poter fare a meno della sua presenza paterna, apre la cassaforte e la porta di casa.
Quando il figlio ha sperperato tutto, nella regione in cui si è trasferito viene una carestia, e lui “si unisce” a un abitante di quella regione: il verbo indica il servizio da schiavo, ma anche l’adeguamento in tutto, comprese le consuetudini e gli usi religiosi. Di fatto, si mette ad accudire quelli che tutto il mondo antico sapeva essere animali immondi per gli ebrei. Anzi, si sarebbe accontentato di mangiare il cibo dei maiali, ma non riusciva ad ottenerne.
La crisi
A questo punto, ovviamente, il giovane va in crisi. Potremmo pensare che si accorga finalmente dell’errore che ha fatto, del male che ha provocato. La parabola, in realtà, non ci presenta niente del genere: semplicemente, si ricorda che in casa di suo padre i servi hanno da mangiare, e lui ha fame.
Inizia a elucubrare un discorso in cui ammette di aver mancato contro suo padre e contro quell’ordine divino che gli chiedeva di onorarlo, e in cui invoca la propria salvezza, come schiavo. Non riconosce la propria colpa, cerca solo di salvarsi.
Luca pare sapere che ci sono “conversioni” che sono semplicemente questioni di opportunismo. Come reagirà Dio di fronte a cambiamenti di questo tipo, lui che conosce l’intimo dell’uomo?
Sappiamo, di sicuro, come reagiremmo noi…

Prima svolta
È ancora lontano da casa quando il padre lo vede e gli corre incontro. Potevamo pensare (e il figlio poteva ritenere) che un padre tanto disponibile a lasciare andare via il figlio non fosse in realtà interessato a lui. Adesso scopriamo invece che lo aveva lasciato andare per affetto, pronto a mettersi sulla torre di casa per vederlo tornare quando ancora fosse stato lontano.
Di nuovo, come avremmo reagito noi? Ci saremmo vendicati di chi aveva invocato la nostra morte? Ci saremmo atteggiati a fintamente severi e seri, ma con la gioia nel cuore, facendo sospirare un poco il perdono? Avremmo preteso dei segni di conversione autentica?
Luca ci racconta come reagisce Dio. Corre incontro al figlio (sconveniente e indegno, da parte di un padre anziano, e ancor più da parte di Dio!) e gli si getta al collo, come se fosse lui, il padre, a doversi far perdonare. Il figlio parte con il discorso che aveva immaginato, e che inizia esattamente come lo aveva congeniato, come se se lo fosse imparato a memoria e lo recitasse a macchinetta. Ma mentre ci prepariamo ad assistere alla reazione del padre, questi lo interrompe, non vuole sentire le scuse, e ordina immediatamente di trattare il ritornato come se fosse uno sposo: fa tirare fuori «la veste principale», quella di gala, gli fa mettere al dito un anello, come chi è amato ed importante, e gli fa cambiare i sandali, il primo segno di povertà e logoramento, in una società in cui si camminava a piedi. Quindi, fa uccidere «il vitello ingrassato a grano», quello destinato non a lavorare nei campi, ma a essere macellato, carne tenera e raffinata, per le nozze. «Perché questo mio figlio era morto ed è rivivificato, era perduto ed è stato trovato». E comincia la festa.
La parabola potrebbe sembrare finita qui. C’è chi la racconta interrompendosi qui. In fondo, si ragiona, è come se Luca alla fine la rovini un po’. La misericordia di Dio è stata chiarita, di fronte a tutto, è un messaggio tenero e confortante, ci si può fermare.
Ma Luca è più intelligente e profondo.
La seconda (vera) svolta
Dai campi, dal lavoro, ritorna il figlio più grande, che chiede la ragione della festa, e si offende. Dobbiamo ammettere che tutti noi, arrivati a questo punto, pensiamo che, però, un po’ di ragione il figlio grande ce l’abbia. Le parole che dice, ammettiamolo, ci sembrano sensate.
Non solo la parabola ha ancora qualcosa da dire, ma probabilmente ha il messaggio principale. Perché il padre, che sta facendo festa per il suo figlio minore tornato alla vita, esce dal banchetto, e va incontro anche al figlio maggiore, che lo rimprovera con astio: «Ti servo da tanti anni, e non mi hai dato mai neanche un capretto per far festa con i miei amici».
La risposta del padre è tenerissima e spiazzante, se solo la si ascolta con attenzione. Ed è il cuore della parabola, perché è scritta per quelli che in fondo ritengono di essere a posto, di essere buoni, sia pure con qualche limite e difetto. Insomma, è scritta per noi che stiamo leggendo.
La risposta va in due direzioni, entrambe sconcertanti. «Quello che è mio, è tuo»: non avevi bisogno che io ti dessi un capretto, potevi prendertelo. Non sei un servo, questa è casa tua. Ecco il primo appunto (non sembra neppure un rimprovero, nel contesto affettuoso del discorso) che secondo Luca Dio fa ai credenti: “Non vivete da servi, perché Dio non vi tratta così! Non pensate di dovervi massacrare per stare agli ordini di Dio come fosse un padrone spietato, perché non lo è. Non vi ha mai chiesto di vivere male, arrabbiati e scontenti. Anzi, le poche indicazioni che vi offre, servono a vivere meglio. Quello che è di Dio, è vostro”. «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 15,15). Dio non chiede di essere servito, ma amato. Chiede che facciamo festa, con lui. Chiede, spera, desidera che viviamo, e viviamo bene. Se ci incupiamo in un servizio che non vogliamo, trattiamo Dio da padrone, ma non è quello che vuole lui. Non è ciò che lui è.
E poi, o quindi, se siamo chiamati a vivere come Dio, perché non fare festa per una vita che torna a vivere? Non importa che lo faccia per fame e non perché ha capito chi è il padre: sembra quasi che questi confidi che poi, un giorno, comprenda.
D’altronde, la parabola apparentemente non finisce: non si dice che cosa risponda il figlio maggiore, o se il figlio minore alla fine intuisca com’è suo padre. Dio non sa che cosa faremo, non può anticipare che cosa capiremo. Si sforza soltanto di lasciarci liberi, amati, sempre accolti. La nostra risposta (che più spesso si trova davanti alle domande del figlio maggiore, e non alla fame del figlio minore) non può essere prevista, e Dio si limita ad aspettarla.
Angelo Fracchia, biblista