Parlando di amore…

Enrico Salfi, Cantico dei Cantici, 1900-30 ca da Wikipedia

Nella Bibbia troviamo temi, toni e modalità di scrittura estremamente vari.

C’è ad esempio un libretto che, se fosse tradotto in modo un po’ coraggioso, con quella libertà interpretativa che aiuta il lettore moderno a capire il senso di un discorso e che spesso i teologi applicano ad altri passi, potrebbe facilmente scandalizzare alcuni credenti, e potrebbe essere ritenuto inadatto per una lettura in chiesa.

È un libro il cui titolo è un superlativo: in traduzione letterale il “Cantico dei cantici”, ma potremmo anche rendere quell’espressione con il “cantissimo”, il canto per eccellenza.

Chi lo ha scritto?

I biblisti non mancano mai di interrogarsi a lungo sugli autori dei libri biblici. Nella maggior parte dei casi, in realtà, non riusciamo ad arrivare ad altro che a ipotesi e tentativi di indovinare. Il Cantico non fa eccezione, ma per una volta il dibattito può diventare interessante, anche se non condurrà a nessuna conclusione certa.

Il testo ne attribuisce la composizione a Salomone (Ct 1,1), ma è chiaramente una finzione letteraria: la lingua in cui è composto è anche molto moderna, tanto che potrebbe essere stato scritto nel ii o i secolo a.C. Salomone era ritenuto il modello di re saggio e poeta, e attribuirgli un cantico non doveva essere sembrato fuori luogo. La tradizione si è poi allargata, immaginando che fosse un canto dedicato da Salomone a una pastorella di Gerusalemme, innamorata e promessa sposa ad un altro.

Si potrebbe in realtà trattare di inni nuziali, magari destinati a celebrare tra ragazze l’addio alla verginità prima del matrimonio. C’è chi ha ipotizzato che in origine fossero stati composti all’interno di liturgie pagane, come peraltro sappiamo essere successo per alcuni salmi. Anche se così fosse, in ogni caso, questi cantici potevano anche avere una vita propria, tanto più che, nella forma in cui ci sono arrivati, non si adattano immediatamente a una liturgia. Sono poesia, e lo restano anche per noi.

C’è però un particolare aspetto del libro che ha fatto avanzare ad alcuni un’ipotesi più ardita, benché, come abbiamo già detto, del tutto ipotetica. Le descrizioni fisiche dei due amanti sono infatti molto diverse tra loro: dettagliatissime e precise, anche nelle conseguenze fisiche dell’eccitazione sessuale, quelle riservate alla ragazza, mentre l’amato è ritratto in modo molto generico e approssimativo. Una spiegazione possibile è che si ponga molta più attenzione e dedizione a ciò che davvero interessa, e che quindi sia un uomo ad aver scritto queste pagine, come la maggior parte di quelle bibliche. Ma c’è anche chi ha pensato che la differenza vada spiegata diversamente, come una composizione scritta da ragazze per essere cantata tra ragazze, attratte dagli uomini di cui però potrebbero non aver avuto ancora un’esperienza piena e completa. La composizione sarebbe così precisa sul corpo e sulla fisiologia femminile perché scritta da chi le donne le conosceva estremamente bene, ossia potrebbe essere stata scritta da donne. Solo un’ipotesi, ma affascinante.

Il contenuto

E quindi? Di che cosa si parla in queste pagine che sarebbero tanto sconvenienti?

Innanzi tutto, non dimentichiamoci che siamo di fronte a un’opera poetica, e forse anche composita. Non tutto è logico e chiaro, non c’è un percorso narrativo preciso.

A parlare è quasi sempre una ragazza, che sogna il suo amato, che immagina di andarlo a cercare, o di sentirlo armeggiare fuori dal cancello del giardino, che sembra peraltro alludere simbolicamente alle parti intime della ragazza. La voce narrante viene chiamata in un’occasione “sulammita”, ma non è neppure chiaro se sia un nome proprio, la deformazione del nome di Salomone, un’appartenenza geografica o altro ancora. Di lei sappiamo che la presentazione che se ne offre non è idealizzata: ammette di essere bruna, abbronzata, che nell’antichità mediorientale non era un tratto estetico apprezzato.

Firenze, sermoni sul cantico dei cantici di Bernardo da Chiaravalle, Volgariz da Govanni da San Miniato e copiato da suor cecilia, 1545 (cov. s. 469) Da Wikipedia

Tutto trasuda passione, trasporto verso l’amato, desiderio anche sessuale, benché sempre presentato in toni allusivi, erotici e poetici. La coppia e l’amore non sono presentati come qualcosa di concreto, e ancora meno come consigli, ma idealizzati e sognati. Se il contesto mediorientale antico vedeva soprattutto matrimoni di interesse conclusi dai genitori degli sposi, qui tutto parla di amore, affetto, desiderio, visti nella loro dimensione più pura e intoccabile. «Se un uomo offrisse tutta la ricchezza di casa sua in cambio dell’amore, di certo sarebbe deriso» (Ct 8,7). Come accade normalmente tra gli innamorati, sembra che tutto si concluda tra loro due, che tutto ciò che è a loro esterno sia in qualche modo invidioso, nemico, o trascurabile: sono le guardie che non sanno aiutare nella ricerca e picchiano la donna (Ct 5,7), i fratelli che pensano alla sorella come qualcosa da difendere e pure non se ne prendono cura (Ct 1,6; 8,8-10). Ma anche gli ostacoli sono vissuti con leggerezza, con gioia, nella consapevolezza che «forte come la morte è l’amore; tenace come il regno dei morti è la passione» (8,6), e non ci sarà ostacolo che varrà a spegnerlo.

Che senso ha?

Inutile negare che il motivo per cui il Cantico dei Cantici è stato inserito nel canone biblico ebraico e di conseguenza poi cristiano è stata la sua lettura simbolica. L’amore di cui si parlerebbe, cioè, non è quello “banale” tra un uomo e una donna, ma sarebbe immagine dell’amore tra Dio e la chiesa.

Non si nega certo che una tale interpretazione, oltre che tradizionale, sia possibile. Ma il simbolo funziona se non solo è vera la realtà a cui allude, ma anche il modo che si ha di esprimerlo. Ad esempio, il pane può essere simbolo di nutrimento spirituale, ma solo perché nutre anche il corpo: sarebbe stato ben strano che Gesù offrisse, come cibo che rimandava al dono di sé, nutrimento per la vita spirituale, un pezzo di legno, anche se poteva alludere meglio alla croce. Non si può, insomma, sostenere il significato mistico dell’amore narrato nel Cantico se si nega quello fisico. «Offende l’amore tra un uomo e una donna chi pensa che per trovare un significato religioso al Cantico occorra cercarci altro» (P. Beauchamp).

Il punto è proprio che Dio si trova anche nell’amore fisico, sensuale, appassionato tra due giovani (o di qualunque età: ma nel libro biblico siamo di fronte a due giovani). È un amore che si presenta alla pari, senza alcuna traccia di sottomissione della donna all’uomo (Ct 6,3; 7,11), quindi anche capace di andare contro le attese culturali del mondo da cui quel libro nasce. È un amore di dono di sé, che non cerca l’altro per il piacere, ma cerca l’incontro con l’altro anche nel piacere. È un amore gioioso, non possessivo, che sa vedere lucidamente gli ostacoli ma è sicuro di riuscire a superarli. Un amore in cui conta la persona che si ha di fronte, non la sua ricchezza, fama o ruolo sociale.

In questo, davvero, riscopriamo che il Cantico, parlandoci di amore, ci parla di Dio. Perché, se Dio è amore (1Gv 4,8), ciò che è amore autentico non può che parlare di Dio. Un Dio che spesso è più imprevedibile e sorprendente delle nostre categorie mentali, che si fa incontrare anche nei contesti più strani e inattesi o che ci sembrerebbero inopportuni, ma sempre parla di bellezza, di gioia, di vita.

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