
“Prima di questo viaggio, odiavo i vietnamiti, ma adesso… mi sono diventati addirittura simpatici!”, confessa Vet, mentre stiamo rientrando in Cambogia, dopo alcuni giorni trascorsi in Vietnam. Effettivamente l’accoglienza ricevuta è stata a dir poco sorprendente: non c’è stato pranzo o cena che non sia stato offerto da qualcuno, e anche le suore che ci hanno ospitato non hanno voluto nulla. E non eravamo pochi, c’era il Consiglio pastorale al completo! Ma ancor più sorprendenti sono ora le parole di Vet, perché conosco bene l’avversione verso i vietnamiti radicata nel cuore dei cambogiani. La Cambogia da sempre si sente oggetto di predazione da parte del Vietnam. Racconti, veri o presunti, di tutta una serie di soprusi, subiti nel corso dei secoli, continuano a fomentare un odio che, purtroppo, non risparmia neanche i cristiani. L’ho toccato con mano diverse volte.
Ricordo il volto di una donna molto credente indurirsi e diventare improvvisamente aggressivo, al solo sentir parlare della presenza dei vietnamiti in Cambogia. Era una persona che stimavo molto per la fede profonda e la passione missionaria con cui animava la nostra parrocchia, ma la sua fede, pur così profonda, non aveva ancora scalzato il rancore verso i vietnamiti. La stessa esperienza l’ho rivissuta con una giovane catechista, che reputavo di mente molto aperta. Si era diffusa la voce che gruppi di vietnamiti girassero per le campagne a rapire bambini cambogiani per poi rivenderne gli organi; una notizia totalmente falsa, diffusa tramite Facebook, che aveva preso piede fino a creare una paranoia collettiva. Per la paura, i bambini non venivano mandati neanche più a scuola. Così una domenica mattina, alla fine della Messa, ho colto l’occasione. Ho cercato di spiegare, con materiale attinto da vari siti internet anti-bufale, come nascono le fake-news e come difendersi. Tra i vari esempi spiccava quello di un presunto riso di plastica venduto dai vietnamiti per avvelenare i cambogiani: un video “inequivocabile” mostrava il riso, scaldato in una pentola, prendere fuoco. Per inciso, lo stesso video era circolato anche in Italia, in chiave anti-cinese… In realtà, si trattava di un tipo di pellet molto simile al riso. Terminata la spiegazione, la mia giovane catechista “di mente aperta” alza la mano e con tono bellicoso chiede: “Padre, se è vero quello che tu dici, allora perché l’altro giorno la bimba dei miei vicini, dopo aver mangiato riso vietnamita, è stata male?”. Amen. Le mie parole non avevano scalfito di un millimetro la sua profonda fede… anti-vietnamita. E se lei, che aveva avuto occasione di conoscere il mondo, pensava così, figuriamoci gli altri, il cui mondo arrivava a malapena ai villaggi vicini.

Ecco perché avevo accolto le parole di Vet come una lieta sorpresa. Cosa era successo? Semplicemente quello che suggerisce Papa Francesco nell’Enciclica Fratelli Tutti: “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto…” (n. 198). Fino a quel momento Vet aveva conosciuto i vietnamiti in casa sua, come immigrati venuti a rubare terra e lavoro. Ora invece li aveva conosciuti in casa loro. È incredibile come la percezione di una persona (o di un popolo) possa cambiare quando la incontri a casa sua. Quando sei straniero, e magari ti senti ospite sgradito, entri facilmente in tensione con il padrone di casa e viene fuori più facilmente il tuo volto peggiore. Ciò che ha operato in Vet il cambiamento è stato aver incontrato il nemico in casa propria ed essere trattato fraternamente. Si aspettava ostilità e ha trovato accoglienza.
Entrare nella casa dell’altro, mettersi nei suoi panni, o nei suoi sandali (come si direbbe in Cambogia) è il miglior modo per conoscerlo e riuscire a capire meglio le ragioni della sua diversità. Questo non significa diventare come lui, rinunciando alla propria identità, ma cercare di comprenderlo, perché, come ci ricorda il Papa, “in un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione. Così diventa possibile essere sinceri, non dissimulare ciò in cui crediamo, senza smettere di dialogare, di cercare punti di contatto, e soprattutto di lavorare e impegnarsi insieme” (n. 203).

Quella di produrre energia buona, sfruttando lo strofinio che le differenze provocano nelle nostre relazioni, è una delle sfide più impegnative per l’uomo di ogni epoca e, oggi, per noi. È una sfida che, come missionario, vivo costantemente. Conosco la fatica di vivere con gente diversa, anzi di essere io… il diverso: dover imparare la loro lingua, la loro cultura, senza mai riuscire a farlo completamente; sentirti estraneo perché le tue radici affondano in un’altra terra. Conosco il disagio di non capire e di non essere capito, e la frustrazione di fare pure la figura dello stupido! E conosco la tentazione di “fare da padrone” in casa altrui: giudicare il popolo che ti ospita in base alle tue categorie, fare ingiusti paragoni con la tua terra di origine o facile ironia sulle contraddizioni, e purtroppo anche restituire il pugno quando l’essere straniero ti viene buttato in faccia quasi come una colpa. Grazie a Dio, conosco anche i frutti che maturano dalla fatica di innestare la tua vita in quella di un altro popolo, farti piccolo e tornare letteralmente a scuola per provare a rinascere in una nuova cultura, cercare di mettere insieme le diversità e collaborare con persone che provengono da realtà molto lontane dalla tua. Il Papa ce lo ricorda: “Le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso dell’umanità” (n. 203).

I cristiani hanno dovuto affrontare questa stessa sfida da sempre. C’erano due gruppi: uno che si sentiva padrone di casa, perché proveniva dal popolo eletto, Israele; l’altro arrivato da fuori, dalle genti, quasi un’ospite inatteso. La nostra Chiesa è nata dal faticoso, fecondo, incontro di questi due gruppi. Una gestazione che a dire il vero non si è mai conclusa, come testimonia la storia della Missione. E non a caso, tra le tante possibili caratteristiche che la descrivono, la comunità cristiana ha preferito quella di “cattolica”, cioè universale o, letteralmente, “secondo il tutto” (dal greco: katà + òlos), ad indicare che nel popolo di Dio c’è posto per tutti, come singoli e come gruppi, ognuno con la sua ricchezza; e che nessuna cultura, neppure la più antica, può rivendicare nella Chiesa maggiori diritti di cittadinanza: tutti chiamati a conversione, passando per la porta stretta del Vangelo, e a contribuire con la propria unicità al grande mosaico del Regno. L’ebreo Paolo di Tarso lo ricordava con forza ai cristiani greci di Efeso: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio!” (Ef 2,19). Infatti, come scrive il Papa, “le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze. Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo” (n. 215).
Costruire comunione è un processo “artigianale”, dice Francesco in Fratelli Tutti. Mi vengono in mente ancora una volta Vet e le altre famiglie della mia parrocchia di Kdol Leu, che ogni giorno, con paziente tenacia, si siedono a intrecciare lunghi listelli di bambù per trasformarli in ceste. Recentemente ho scoperto che, nella Bibbia, lo stesso termine ebraico tēbah viene utilizzato per indicare sia l’arca di Noè sia il cesto in cui il piccolo Mosè viene posto e affidato alle acque del Nilo. Mi piace immaginare che l’arte con cui Vet pazientemente intreccia i suoi cesti di bambù è la stessa con cui noi siamo chiamati a intrecciare le nostre diversità e farne delle arche di salvezza dove c’è posto per tutti. È proprio vero, come scrive il Papa, che “non c’è bisogno di dire a che cosa serva il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto” (n. 198).

La settimana scorsa Ciay Eng, una giovane ragazza sempre di Kdol Leu, mi ha mandato le foto del suo fidanzamento con Somnang. Lei, cambogiana-khmer. Lui, figlio di immigrati vietnamiti. Hanno deciso di unirsi per creare una nuova famiglia. Questo fa l’amore. E va pure oltre, perché Ciay Eng sta anche imparando il vietnamita.
Il mondo ha bisogno di “silenziosi eroi del dialogo”, come li chiama papa Francesco. “Dio voglia che questi eroi stiano silenziosamente venendo alla luce nel cuore della nostra società.” (n. 202).
DI P. LUCA BOLELLI, MISSIONARIO DEL P.I.M.E.