Tutto è vapore

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Havèl havalìm, haqqòl hàvel.

La poesia richiede anche di essere ascoltata, e chi sa scrivere bene poesia non si dimentica che questa si affida anche ai suoni, ai ritmi.

«Vanità delle vanità, tutto è vanità»: così lo capiamo meglio, ma forse è meno ammaliante.

E non è neanche del tutto preciso.

Giudizio morale?

Nell’interpretazione cristiana spesso queste parole sono state applicate a una valutazione del comportamento delle persone, che è il primo significato del termine “vanità” italiano. Ma la parola che in quel breve mezzo versetto tornava tre volte, e in tutto il libro del Qohelet ben trenta, non ha innanzitutto un senso morale. Hèvel (che in certi contesti può cambiare accento e vocali) indica il vapore, compresa quella nebbiolina che persino in Palestina al mattino può comparire in certe valli, ma che in un clima secco e caldo come quello ha ben poca speranza di resistere più di mezz’ora… (sarà solo un caso, che quella parola sia anche la forma ebraica del nome di Abele?).

Vapore, che se ne va senza lasciare traccia di sé, se non forse un effimero sollievo e un breve ricordo del quale possiamo anche dubitare. Come certi tempi o contesti di gioia, nella vita. Ma quando questa si fa seria e impegnativa, abbiamo un disperato bisogno di qualcosa che regga, che tenga, su cui possiamo contare e a cui appoggiarci.

Chi ha scritto il libro del Qohelet (un tempo lo si chiamava Ecclesiastico, ma è quasi una traduzione, poi ne parliamo) è alla ricerca del perno a cui aggrapparsi.

Tutto è inutile

E questa ricerca porta a risultati imprevedibili… Non è la sapienza, ciò che potrebbe darci solidità nella vita, perché «chi accresce il sapere accresce il dolore» (1,13-18), e alla fine «un’unica sorte attende il saggio e lo stolto» (2,14), chi è sapiente morirà come il superficiale. Ma non porta solidità neppure ricercare l’allegria o il piacere (2,1-3), né affannarsi a compiere grandi opere (2,4-6), così come è inutile la ricchezza (2,7-11).

Non ci aspetteremmo forse, in un libro biblico, che si dica che è inutile anche rispettare Dio (7,15; 9,1-2): «vi sono giusti ai quali tocca la sorte meritata dai malvagi», e viceversa (8,14). Anche dagli uomini, peraltro, non ci si può aspettare riconoscenza (9,13-16).

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Si arriva a dire che la vita stessa, che finirà in una decadenza lunga e faticosa (11,10-12,6), non serve a nulla e non dà gioia: «Ho proclamato felici i morti, già trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita. Ma più felice di tutti chi ancora non esiste» (4,2). Punto d’arrivo di tutto questo pessimismo è proclamare che potrebbe non esserci neppure alcuna differenza tra l’essere umano e gli animali: «Chi sa se lo spirito dell’uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende in basso, nella terra?» (3,21).

Neppure ci si può aspettare che qualcosa cambi in futuro, «non c’è nulla di nuovo sotto il sole»: «Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui» (2,12).

L’autore

Verrebbe da pensare che a scrivere queste righe così catastrofiche deve essere una persona depressa, sfortunata, perseguitata dalla vita. È sicuramente questo il motivo per cui chi ha composto queste pagine si immagina re, si immedesima in Salomone (1,1: «figlio di Davide, re a Gerusalemme»), il sovrano che aveva settecento mogli e trecento concubine (1 Re 11,3), che visse sempre in pace, a cui affluivano le ricchezze di tutta la terra (1 Re 9,14-28) e che era rinomato per la sua sapienza (1 Re 3,28; 5,9-14).

In realtà la lingua in cui è scritto il libro è relativamente moderna (dovrebbe risalire a non prima del ii secolo a.C.), per cui non può certo trattarsi di Salomone, ma l’autore ha voluto dire che non ci sono alibi, la vita davvero è senza punti fermi e senza garanzie, senza serenità e senza gioia sufficienti, paragonabili con ciò che la vita stessa promette.

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Non è forse un caso che, pur presentandosi come re, chi ha scritto queste pagine si definisca in realtà Qohelet (1,1 e altre sei volte nel libro): si tratta di un participio che rimanda all’assemblea religiosa, il qahal, quasi come se pensasse a se stesso semplicemente come a un membro della comunità credente (da qui il titolo, che è in realtà una traduzione, di Ecclesiaste). Quasi però a complicare la presentazione di un libro sempre sfuggente e sorprendente, di per sé qohelet è comunque un participio femminile. Può darsi che indichi una funzione, come fosse un nome astratto, ma ci si potrebbe vedere il tentativo di non incasellare lo scrittore in alcuna categoria. Forse, persino, ci può essere un’allusione quasi “femminista”: quelle donne che solitamente non potevano parlare né scrivere, se potessero farlo sarebbero ancora più catastrofiche nella valutazione della vita umana. (Non facciamone, comunque, un paladino dell’uguaglianza tra uomini e donne, perché non è immune da una vena misogina: 7,27-29).

Quale uscita?

C’è quindi una via d’uscita, una qualche risposta alla domanda del libro?

Non proprio. Ci sono alcuni abbozzi di sentiero, che sembrano comunque migliori di altri, o meno rovinosi.

Vale infatti la pena, data la situazione, godere del poco conforto che la vita offre, sapendo che potrebbe essere passeggero ma è intanto un bene, provvisorio, che ci viene concesso (3,22; 11-12). È uno sguardo molto parziale, ma già positivo: quel bene sarà instabile, resterà anch’esso “vapore”, ma intanto esiste e può essere goduto.

Un secondo contesto di consolazione è nelle relazioni umane. «Meglio essere in due che uno solo» (4,9-12); «Mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto; godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua breve esistenza» (9,9-11). Non ci saranno certezze né garanzie, ma tra gli esseri umano può svilupparsi il bene, per quanto fragile e precario.

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E poi, Qohelet arriva anche a dire che, in fondo, è comunque meglio essere giusti davanti a Dio, anche se non sa spiegarne il motivo (3,13; 5,1.18).

È un punto di arrivo, non definitivo, che ci sembra essere profondamente in sintonia con la nostra sensibilità moderna. Mancano, infatti, affermazioni decise, nette, radicali. Si resta consapevoli che non ci sono certezze o garanzie, ma anche, nello stesso tempo, che qualche traccia di sentiero buono, per una vita positiva, esiste, e può valere la pena di seguirlo. Senza aspettarsi più di tanto, ma altrettanto consci che una parte di bene, fragile ed evanescente, è comunque già un bene.

Angelo Fracchia

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