Ferro e Fuoco

Santa Teresa di Lisieux Civita di Oricola
SPUNTI DALL’ESPERIENZA DI UNA CONGREGAZIONE FEMMINILE MISSIONARIA IN DIALOGO CON TERESA DI LISIEUX

«… una sola missione non mi basterebbe, vorrei al tempo stesso annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo, e fino alle isole più remote. Vorrei essere missionaria non soltanto per qualche anno, ma vorrei esserlo stata fin dalla creazione del mondo, ed esserlo fino alla consumazione dei secoli»

(Teresa di Lisieux)

INTRODUZIONE

In questa breve comunicazione condivido alcuni spunti e luci raccolti lasciando interagire, nella riflessione e nella preghiera, il vissuto delle Missionarie della Consolata – la Congregazione missionaria ad gentes di cui sono parte – con l’esperienza di Teresa di Lisieux, come emerge dai suoi scritti.

S. TERESA DI LISIEUX, PATRONA DELLE MISSIONI

Santa Teresa di Lisieux fu dichiarata Patrona delle Missioni da Papa Pio XII nel 1927, due anni dopo la canonizzazione e trent’anni dopo la morte. Teresa non era mai uscita dal suo monastero, eppure eccola divenire protettrice speciale dei missionari e delle missionarie, assieme a San Francesco Saverio. All’origine di questa scelta di Pio XII occorre riconoscere l’azione di vari Vescovi missionari nel mondo, in particolare il Venerabile Ovide Charlebois, OMI, Vicario apostolico di Keewatin, Canada. Mons. Charlebois, nel maggio 1925, mese della canonizzazione di Teresa di Lisieux,

«comunica ad alcuni vicari apostolici del Canada l’idea di far proclamare la nuova santa patrona delle missioni. Raccoglie 12 firme di adesione. Nel marzo del 1927 le adesioni di Vescovi di tutto il mondo sono già 232. Con mirabile sintesi Mons. Charlebois poteva scrivere al Carmelo di Lisieux: “Non c’è da attribuirmi tutto il merito. Ammetto di aver suggerito l’idea e di aver prestato il mio nome… Però, soprattutto, è stata la nostra buona santina che dall’alto dei cieli faceva scendere la sua pioggia di rose, dando esito positivo a tutti i nostri passi. Lei desiderava di cuore essere Patrona dei missionari che tanto amò e per i quali tanto soffrì”».

Che cosa era successo?

Quando viene creato il vicariato apostolico di Keewatin, Mons. Charlebois affida al missionario p. Arsenio Turquetil, OMI, originario della Normandia, l’incarico di fondare una missione a Chesterfield Inlet, in pieno territorio eschimese.

«Arriva sul posto assieme ad altri due compagni nell’agosto 1912. Vivono un anno di assoluta solitudine in quel deserto di neve e di gelo, senza comunicazioni col resto del mondo. Si sforzano di imparare la lingua senza grammatica e senza un dizionario, solo per mezzo dell’ascolto, della osservazione e delle domande rivolte agli indigeni. Però la burla e il sarcasmo sono frequenti tra gli uditori. Nel novembre 1913 tutti sono colti di sorpresa alla notizia del martirio di due Missionari Oblati,  p. Jean-Baptiste Rouvière e p. Guillaume Le Roux, poco lontano da loro. Mons. Charlebois decide di sopprimere la missione, che si presentava sterile e senza futuro. Frattanto arriva la posta annuale dall’Europa, da Lisieux. Contiene una breve vita di Sr. Teresa di Gesù Bambino e buste di polvere della sua cassa prelevate in occasione della esumazione dei suoi resti mortali. Una santa della sua nativa Normandia, che ha promesso di aiutare i missionari e mantiene la promessa? P. Turquetil dice a Fr. Girard: “Domani mattina, quando gli Eschimesi si troveranno riuniti nella sala per ascoltare il grammofono, io terrò loro una catechesi come si deve. Mentre io parlo loro, tu invocherai Teresina; aprirai i sacchetti e con discrezione spargerai il contenuto sulla testa dei miei uditori”. Il giorno seguente la sorpresa. Lo stregone di Chesterfield, il peggior nemico della Missione, chiede il Battesimo».

Molti eschimesi cominciano ad avvicinarsi alla missione e chiedono di iniziare il cammino cristiano. Nel 1923 Mons. Charlebois, che anni addietro voleva sopprimere la missione, decide di creare altre stazioni missionarie. A Pointe-aux-Esquimaux sarà costruita la prima chiesa in onore della Beata Teresa di Gesù Bambino.

«Il 15 luglio 1925 P. Arsenio Turquetil viene nominato primo prefetto apostolico della Baia di Hudson. La nuova circoscrizione missionaria viene consacrata al patrocinio celeste della nuova Santa, che amava la neve e promise di passare il suo cielo facendo del bene sulla terra. La sua statua posta nella cappella costituisce una attrazione per gli Eschimesi. Mons. Turquetil inaugura l’ospedale “S. Teresa” a Chesterfield, il primo del grande Nord. Lo sviluppo cristiano della zona sorprende la Congregazione di Propaganda Fide, che nel luglio 1931 eleva la missione a Vicariato Apostolico, conferendo il 23 febbraio 1932 la consacrazione episcopale a Mons. Turquetil».

Nell’Istituto dei Missionari della Consolata e nell’Istituto delle Missionarie della Consolata, fondati a Torino dal beato Giuseppe Allamano per la prima evangelizzazione, rispettivamente nel 1901 e nel 1910, l’attenzione a S. Teresa di Lisieux partì dal Fondatore stesso. L’Allamano, rendendosi conto della forza spirituale di Teresa e avvertendo in sé una particolare sintonia con l’esperienza della carmelitana di Lisieux, la propose come “protettrice dell’anno” per i suoi due Istituti all’inizio del 1923, prima ancora che fosse dichiarata beata! Il 29 aprile 1923, giorno della beatificazione di Teresa, l’Allamano così disse ai suoi Missionari:

«A quest’ora possiamo già invocare la nostra protettrice col nome di Beata. In tutta la vita non ha fatto nulla di grande, ma tutto piccolo: “gloria eius ab intus”. Dal 1914 entra nei processi ed oggi è già Beata: e sperano nel ’25 di canonizzarla: certo se continua a fare miracoli così. È protettrice dell’anno perché ha pregato assai per la causa delle Missioni e protegge i Missionari. Quando ne sarà stabilita la festa, la solennizzeremo anche noi». 

Anche alle Missionarie della Consolata l’Allamano parla di Teresa, proponendola come modello di fede, di amore di Dio e di carità fraterna. Ecco le sue parole alle Missionarie, pronunciate il 5 marzo 1916, dunque molto prima della beatificazione: «Sr. Teresa del Bambino Gesù a 24 anni era bruciata d’amor di Dio; qualcuna di voi dovrebbe già essere bruciata. Qui non ardet [chi non brucia] non arderà e le sue parole cadranno fredde». Il 20 maggio 1923, poche settimane dopo la beatificazione di Teresa di Lisieux, l’Allamano rivolse alle sue Missionarie queste parole:

«… dovete pregare, non solo per la vostra santificazione, ma anche per ottenere le grazie straordinarie quando ne avrete bisogno: anche il dono di guarire se avete da curare i lebbrosi…[…]. Basta aver fede. La beata Teresa, io credo che avrebbe fatto così se fosse stata una missionaria, perché essa aveva tanta di quella fede e confidenza in Dio che il Signore non le negava niente».

LUCI PER L’EVANGELIZZAZIONE

L’accostamento tra l’esperienza di Teresa di Lisieux e il vissuto missionario di una Congregazione femminile ad gentes come la nostra apre l’occhio del mio cuore alla percezione di alcune luci che divengono immediatamente vie di una evangelizzazione nel segno della piccolezza, della sorellanza e della passione.

Santa Teresa di Lisieux chiesa del Carmine di Palmi
La via della piccolezza

La piccolezza è un tema centrale dell’esperienza di Teresa di Lisieux. Come ebbe a dire Benedetto XVI nella sua catechesi sulla santa, «Teresa è uno dei “piccoli” del Vangelo che si lasciano condurre da Dio nelle profondità del suo Mistero». La Storia di un’anima si apre con l’immagine del fiore, uno dei simboli preferiti da Teresa, sul quale ritorna molte volte e col quale si identifica. Teresa percepisce la sua storia come quella di «un fiorellino bianco» , un «fragile fiorellino», un «fiorellino colto da Gesù». Teresa applica continuamente a sé stessa immagini che evocano fragilità, debolezza, piccolezza e povertà, assieme a delicatezza e umile bellezza. In queste rappresentazioni di sé non si scorge alcuna sorta di tristezza, chiusura, paura o ripiegamento vittimistico.  Al contrario, il piccolo e fragile fiore,  la piccola Teresa, «la più piccola tra tutte le anime», come lei si definiva, si percepisce amatissima, graziata, premurosamente circondata di cure, attraversata e percorsa, come una canna vuota e flessibile, da una Forza incandescente che non è Sua ma alla quale viene unita, associata, fusa, con immensa tenerezza e gioia; è la Forza mite e travolgente dell’Amore:

«Quando un giardiniere circonda di cure un frutto che vuol far maturare prima della stagione, non è mai per lasciarlo sospeso all’albero, ma per presentarlo su una tavola brillantemente servita. Era con un’intenzione simile che Gesù prodigava le sue grazie al suo piccolo fiorellino… Lui che esclamava nei giorni della sua vita mortale in un impeto di gioia: “Padre, ti benedico perché hai nascosto queste cose ai saggi e ai prudenti e le hai rivelate ai più piccoli” voleva far risplendere in me la sua misericordia, egli si abbassava verso di me, perché ero piccola e debole, mi istruiva in segreto delle cose del suo amore. Ah! se dei sapienti dopo aver passato la vita nello studio fossero venuti ad interrogarmi, sarebbero stati certo stupiti nel vedere una ragazzina di quattordici anni capire i segreti della perfezione, segreti che tutta la loro scienza non può svelare loro, perché per possederli bisogna essere poveri di spirito!…».

La cifra della fragilità segna in modo evidente, oggi, la nostra esperienza missionaria, suscitando non poche volte paura, perplessità, nostalgia dei tempi in cui… «eravamo tante, giovani e forti». La contrazione numerica, la diminuzione di forze, l’aumento dell’età media dei membri degli Istituti Missionari, la crisi economica, la perdita di un’immagine prestigiosa e possente, il ripensamento della missione, a volte la confusione sull’identità e sul senso della vocazione missionaria costituiscono occasioni critiche e benedette di approfondimento del significato della missione, di ritorno non al passato ma alle origini, al centro umilissimo e infuocato della nostra vocazione missionaria, come Chiesa e come Istituti Missionari.  Sì, la consapevolezza e l’accoglienza della nostra fragilità ci fa bene, ci è salutare, ci può guarire e liberare da tante sovrastrutture che ci appesantiscono come persone, come Istituti Missionari e come Chiesa, ci aiuta a tornare al Vangelo, a Gesù che invia i suoi come piccoli, umili e deboli agnelli, senza borsa, senza sacca e senza sandali (cfr. Lc 10, 3-4), creature vulnerabili, nude di ogni tipo di arma e di difesa, spoglie di ogni potere e grandiosità e libere di lasciare che l’Amore le abiti e le viva. E qui non posso non pensare a storie di donne fragili, umili, libere e coraggiose trasformate e trasportate sulle strade della missione da questo Amore tenero e forte.

Mogadiscio, Somalia, 17 settembre 2006: suor Leonella Sgorbati, Missionaria della Consolata, viene uccisa mentre esce dall’ospedale pediatrico dove lavora. 7 colpi di arma da fuoco la trafiggono. Prima di morire, riconoscendo chi le ha sparato, sussurra: «Non fategli del male, è un povero ragazzo». E conclude la sua vita pronunciando le parole più sublimi dell’esperienza cristiana: «Perdono, perdono, perdono…». Suor Leonella viene beatificata nel 2018.

Kamenge, Burundi, 8 settembre 2014: Bernardetta, Olga, e Lucia, Missionarie Saveriane, vengono barbaramente uccise durante la notte. «Erano tre missionarie anziane con grandi problemi di salute che erano appena tornate in Burundi perché desideravano tornare dalla loro gente», racconta Giordana, la Direttrice Generale delle Missionarie Saveriane di Parma. «Sto tornando in Burundi, alla mia età e con un fisico debole e limitato, che non mi permette più di correre giorno e notte come prima. Interiormente però credo di poter dire che lo slancio e il desiderio di essere fedele all’amore di Gesù per me concretizzandolo nella missione è sempre vivo», aveva detto Lucia il 1 ottobre 2013, ripartendo da Parma per il Burundi.

La lista potrebbe continuare. Ma fermiamoci qui. Leonella aveva 66 anni e non pochi problemi di salute, quando venne uccisa su una strada di Mogadiscio. Da anni, assieme ad altre consorelle in Somalia, viveva sotto le bombe di una  guerra assurda, protetta non da qualche bunker di cemento armato né da qualche auto blindata, ma dalla passione per Gesù Cristo, dalla sorellanza che la legava alle altre missionarie con cui condivideva la vita, dall’amore per il popolo. Bernardetta, Olga e Lucia avevano rispettivamente 79, 83 e 75 anni quando la furia omicida le strappò alla loro gente, tra cui avevano scelto di tornare nonostante l’evidente fragilità dovuta all’età e alla salute malferma.

Potremmo chiederci: perché l’odio, la violenza, il Male, si scatenano contro creature così vulnerabili, fragili, inermi, lontane dagli apparati di potere, agli antipodi della ricerca di visibilità, di imponenza, di trionfo e di fama? Insomma, a chi danno fastidio simili creature? Probabilmente danno fastidio e fanno paura proprio al Male, in quanto si tratta di creature del tutto vulnerabili, ma straordinariamente forti nello spirito perché abitate da Dio, infiammate dal suo Fuoco. Simili, troppo simili, all’Agnello di Dio, indifeso e umile, che prende su di sé il dolore, la malattia e il peccato dell’universo e restituisce consolazione, guarigione, perdono, salvezza. C’è una fragilità abitata da Dio che fa paura al Male, che dà fastidio al Male, lo terrorizza. Il Male non ha paura del potere, della forza, del successo, dei trionfi, della fama, della grandezza, della durezza, perché il Male vive e si nutre di tutto questo! Il Male cede invece, sconcertato, davanti all’umiltà, al perdono, alla consegna amorosa, allo svuotamento appassionato, all’obbedienza all’Amore, come ha fatto Cristo. Fino alla fine. Fino all’Ora suprema in cui l’Amore rivela la sua forza mite e travolgente, fermando in se stesso ogni freccia di odio, di violenza, e restituendo misericordia, perdono, tenerezza. Sì, al Male fa paura la fragilità abitata da Dio, consegnata all’Amore. Contro di essa, il Male non ha armi ed impazzisce.

Nell’aprile 2018, proprio la settimana di Pasqua, mi trovavo a Kabul, assieme a una mia consigliera, in visita alla Comunità Intercongregazionale femminile che gestiva una piccola scuola per bimbi diversamente abili provenienti da fasce sociali disagiate. Il progetto si è dovuto tristemente concludere con l’arrivo dei talebani in Kabul lo scorso agosto. Assieme alle due suore presenti in quel momento, una Guanelliana e una Missionaria della Consolata, andammo a celebrare la Pasqua nell’unica cappella cattolica esistente in Afghanistan, quella dell’ambasciata italiana, ove risiedeva il Superiore ecclesiastico responsabile della Missio sui Iuris in Afghanistan. Per raggiungere l’ambasciata dal luogo di periferia dove ci trovavamo, prendemmo un taxi e attraversammo la città. La zona delle ambasciate, ovviamente, era fortemente militarizzata. Ma sia i militari afghani sia quelli dei contingenti stranieri conoscevano ormai le sorelle, per cui non trovammo resistenze al nostro passaggio. Arrivate all’ambasciata italiana, incontrammo alcuni militari della vicina base NATO, anche loro giunti lì per partecipare alla Messa. La base NATO era poco distante dall’ambasciata e i militari non avevano da percorrere che poche centinaia di metri per raggiungerla. Non potei fare a meno di rilevare, con commozione, l’evidente differenza tra il modo di procedere dei militari e quello delle sorelle, a partire proprio dall’abbigliamento. Ecco i soldati NATO, grandi e grossi, incedere pesantemente bardati, nel rispetto delle regole loro imposte, con la divisa mimetica, il giubbotto anti-proiettile, casco, visiera, grossi stivaloni, cinturone e fucile mitragliatore a tracolla.  Ci misero un po’ di tempo prima di liberarsi da alcuni di questi aggeggi ed entrare un po’ più leggeri in cappella. Lì vicino, ecco le sorelle, splendide e fragili donne semplicemente avvolte in tenui tessuti afghani e in un delicato velo islamico, col crocifisso al collo, gelosamente custodito e nascosto sotto l’abito leggero.  Mi venne in mente l’immagine di Davide, il ragazzo che, toltasi l’armatura che Saul gli aveva dato per proteggersi nella lotta, procede nudo, libero e armato solamente di ciottoli e fionda verso Golia – il gigante rivestito di corazza e elmo di bronzo –  confidente non in se stesso e nelle armi, ma nel suo Dio (cfr. 1Sam 17,1-54). Non potrò mai dimenticare il commento di un ufficiale NATO: «Queste due donne, straordinarie, umili e dedicate, fanno per questo popolo infinitamente di più di quanto riusciamo a fare tutti noi militari messi insieme».

La via della sorellanza
Maso Bornie, chiesa di Santa Teresa

Come ricordavamo sopra, le prime pagine della Storia di un’anima sono costellate dalla simbologia del fiore.

«Gesù si è degnato di istruirmi su questo mistero: mi ha messo davanti agli occhi il libro della natura e ho capito che tutti i fiori che ha creato sono belli, che lo splendore della rosa e il candore del Giglio non tolgono il profumo alla piccola violetta o la semplicità incantevole alla pratolina… Ho capito che, se tutti i fiori piccoli volessero essere rose, la natura perderebbe il suo manto primaverile, i campi non sarebbero più smaltati di fiorellini… Così avviene nel mondo delle anime che è il giardino di Gesù. Egli ha voluto creare i grandi santi che possono essere paragonati al Giglio e alle rose, ma ne ha creati anche di più piccoli e questi devono accontentarsi di essere delle pratoline o delle violette destinate a rallegrare lo sguardo del buon Dio quando Egli lo abbassa verso terra: la perfezione consiste nel fare la sua volontà, nell’essere ciò che Egli vuole che noi siamo… Ho capito inoltre che l’amore di Nostro Signore si rivela tanto nell’anima più semplice che non resiste in nulla alla sua grazia, quanto nell’anima più sublime: infatti, essendo proprio dell’amore abbassarsi, se tutte le anime somigliassero a quelle dei Santi dottori che hanno illuminato la Chiesa con la chiarezza della loro dottrina, sembrerebbe che il buon Dio non discenda abbastanza in basso venendo fino al loro cuore. Ma Egli ha creato il bambino che non sa niente e che emette solo deboli grida, ha creato il povero selvaggio che per guidarsi ha solo la legge della natura ed è fino al loro cuore che Egli si degna di abbassarsi: sono quelli i fiori dei campi la cui semplicità Lo rapisce!».

Secondo P. Léthel,

«Teresa si esprime in parabole. Ci dà un magnifico esempio della sua teologia simbolica che riunisce il libro della Scrittura ed il libro della Natura (cioè della creazione) intorno a questo grande simbolo antropologico del fiore, significando al tempo stesso la bellezza e la fragilità dell’essere umano in questa vita sulla terra. In questo breve testo, Teresa è passata immediatamente dalla sua anima a tutte le anime, a questo “mondo delle anime che è il giardino di Gesù”, dal più grande santo al “povero selvaggio”, secondo il linguaggio dell’epoca. […] Così la Storia di un’anima si apre con questa visione di tutta l’umanità creata e salvata dall’Amore Misericordioso di Gesù, una visione inseparabilmente personale e comunitaria».

Teresa di Lisieux è apertamente e inequivocabilmente inclusiva. Lei è un piccolo fiore, fragile e bello, in un giardino non certo solitario o elitario, ma abitato da tanti altri fiori, vari e diversissimi, tutti belli, ognuno amato e guardato da Dio con tenerezza e singolare attenzione. «In Teresa di Lisieux, c’è un passaggio continuo dalla sua anima a tutte le anime, senza nessuna eccezione né esclusione», dal fragile fiorellino al giardino pieno di fiori, dall’io al noi, un noi che include tutti.  Teresa sembra essere profondamente consapevole che «nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme», come oggi Papa Francesco ama ricordarci. Non solo. Teresa, col suo spiccato amore alla natura, di cui ama «leggere il libro», e il suo profondo senso di unione con gli uomini e le donne di tutti i luoghi e di tutti i tempi, sembra anticipare di molto l’odierna consapevolezza che «tutto è connesso», che «tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi, con tenero affetto, al fratello sole, alla sorella luna, al fratello fiume e alla madre terra».  

Lungo il suo percorso spirituale, Teresa affina sempre più l’esperienza della sorellanza, sia nei confronti delle sorelle del Carmelo, sia nei confronti dei due Missionari che le vengono affidati spiritualmente e che non esita a chiamare «fratellini», accompagnandoli nel loro percorso e sostenendoli con la preghiera e l’offerta, sia verso l’umanità tutta, senza esclusioni, specialmente verso coloro che vivono il buio interiore, il non-senso, la lontananza da Dio, fino ad arrivare a sentire nella propria anima l’esperienza desolante e drammatica di chi non conosce l’Amore del Signore. Attraverso la Grazia ricevuta nella Pasqua del 1896, che rappresenta un momento di svolta nel suo percorso spirituale, «Teresa entra ancora più profondamente nella Passione redentrice di Gesù, portando dolorosamente nella sua anima questo nuovo peso del peccato contro la fede, quello degli atei del suo tempo, di questi nemici accaniti della Chiesa che per lei sono anche dei “fratelli” che devono essere salvati ad ogni costo».

Narra Teresa:

«Nei giorni così gioiosi del tempo pasquale, Gesù mi ha fatto sperimentare che ci sono veramente delle anime che non hanno fede, che per l’abuso delle grazie perdono questo tesoro prezioso, sorgente delle sole gioie pure e vere. Permise che la mia anima fosse invasa dalle tenebre più fitte e che il pensiero del Cielo così dolce per me non fosse altro che un motivo di lotta e di tormento… Questa prova non sarebbe durata solo alcuni giorni, alcune settimane: sarebbe svanita solo nell’ora stabilita dal Buon Dio e… quell’ora non è ancora arrivata… Vorrei poter esprimere ciò che sento, ma ahimé, credo che sia impossibile. Bisogna aver viaggiato sotto questo cupo tunnel per capirne l’oscurità. […] Signore, tua figlia l’ha capita la tua luce divina, ti chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di mangiare per quanto tempo vorrai il pane del dolore e non vuole affatto alzarsi da questa tavola piena di amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori prima del giorno che hai stabilito… Così ella può dire a nome suo, a nome dei suoi fratelli: Abbi pietà di noi Signore, perché siamo poveri peccatori!… Oh! Signore, rimandaci giustificati».  

Teresa si sente sorella di tutti gli atei del mondo, che chiama “fratelli”, solidarizzando con loro e vivendo nel suo cuore il dramma della lontananza da Dio, fino a divenire uno con essi, e passare dal “loro” al “noi”: abbi pietà di noi Signore, perché siamo poveri peccatori… Signore, rimandaci giustificati. «D’altra parte – afferma Papa Francesco in LS – quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità». Sì, Teresa sembra sperimentare, in modo misterioso e profondissimo, un intenso e reale legame d’anima con le persone che il Signore le affida, dalle più vicine alle più lontane, ed è in questa dimensione squisitamente relazionale che vive la sua missione.

Commentando la Parola del Cantico dei Cantici: «Attirami, noi correremo all’odore dei tuoi profumi» (Ct 1,3), Teresa così si esprime:

«O Gesù, dunque non è nemmeno necessario dire: Attirando me, attira le anime che amo. Questa semplice parola: “Attirami” basta. Signore, lo capisco, quando un’anima si è lasciata avvincere dall’odore inebriante dei tuoi profumi, non potrebbe correre da sola, tutte le anime che ama vengono trascinate dietro di lei: questo avviene liberamente, senza fatica, è una conseguenza naturale della sua attrazione verso di te. Come un torrente che si getta impetuoso nell’oceano trascina dietro di sé tutto ciò che ha incontrato al suo passaggio, così, o mio Gesù, l’anima che si immerge nell’oceano senza sponde del tuo amore attira con sé tutti i tesori che possiede… Signore, tu lo sai, io non ho affatto altri tesori se non le anime che ti è piaciuto unire alla mia; questi tesori, sei tu che me li hai affidati».  

Teresa vive in modo eminente la «mistica del noi» di cui oggi parla Papa Francesco, sviluppando sempre più, lungo il suo breve e densissimo percorso spirituale, la dimensione della solidarietà, della connessione profonda con le persone che Dio le affida, con l’umanità tutta con le sue gioie e i suoi dolori, divenendo vera «sorella universale», come la definì Benedetto XVI, fino a sentire in se stessa il dramma dell’altro: «quando il cuore assume tale atteggiamento, è capace di identificarsi con l’altro senza badare a dove è nato o da dove viene. Entrando in questa dinamica, in definitiva sperimenta che gli altri sono “sua stessa carne” (cfr Is 58,7)».

Non credo sia possibile vivere autenticamente la missione senza l’esperienza della vera sorellanza/fraternità, come intesa da Teresa di Lisieux e da Papa Francesco in Fratelli tutti, dono da chiedere a Dio in umile supplica e da coltivare orientando le nostre energie al  prenderci cura gli uni degli altri, ad abbracciare la vulnerabilità nostra e altrui, a custodire sempre il fratello e la sorella, a recuperare la gentilezza, la delicatezza e la riverenza come parte di una sana e dignitosa umanità, di una carità autenticamente cristiana e di un vero spirito di sorellanza/fraternità, a passare dall’io al noi, dal voi al noi, dal loro al noi, perché mio fratello e mia sorella sono mia stessa carne. Senza questa esperienza, non è semplicemente possibile andare e rimanere vicino all’altro abbracciando la propria e altrui fragilità, dolore, dramma con cuore libero, ardente, consolato.

Liberia, 2014. Siamo nel pieno dell’epidemia di Ebola che sta decimando drammaticamente la popolazione. Anche molti religiosi e religiose, sacerdoti, missionari e missionari vengono inesorabilmente falciati dal virus. Telefono alle mie consorelle, un piccolo gruppo di donne meravigliose provenienti da diversi Paesi. La più giovane allora ha 39 anni, la più anziana 79. Chiedo loro come si sentono e propongo a ciascuna di discernere se rimanere o spostarsi in un altro Paese, prendendo un aereo intanto che è ancora possibile. In breve tempo ogni sorella mi restituisce la propria risposta. È unanime: io rimango. Questa è la mia gente. Questi sono i miei fratelli e sorelle. Questi sono i miei figli. Come può una madre abbandonare il figlio/la figlia che sta male? Come può una sorella abbandonare suo fratello/sua sorella che sta male? Sono rimasta qui con la nostra gente durante gli anni tremendi della guerra, vuoi che scappi davanti a un virus? La loro vita è la mia vita. Il loro dolore è il mio dolore. Il loro virus è il mio virus. Il mio posto è qui. E le Missionarie rimangono. Tutte. Fino ad oggi. Perché per ciascuna di loro, il fratello e la sorella sono sua stessa carne.  

La via della passione
Toss, chiesa di San Nicolò Statua santa Teresa di Lisieux

Nel Ms C, Teresa torna sul passo del Cantico dei Cantici: «Attirami, noi correremo», per spiegare alla sua Priora ciò che vive.

«Cos’è dunque chiedere di essere Attirata, se non unirsi in modo intimo all’oggetto che avvince il cuore? Se il fuoco e il ferro avessero intelligenza e quest’ultimo dicesse all’altro: Attirami, dimostrerebbe che desidera identificarsi al fuoco in modo che questo lo penetri e lo impregni con la sua sostanza bruciante e sembri formare una cosa sola con lui. Madre amata, ecco la mia preghiera, chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore, di unirmi così strettamente a Lui, in modo che Egli viva ed agisca in me. Sento che quanto più il fuoco dell’amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò: Attirami, tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo rottame di ferro inutile, se mi allontanassi dal braciere divino), correranno rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato, perché un’anima infiammata di amore non può restare inattiva».

Quello del fuoco è un altro simbolo caro a Teresa. «Con la simbolica del fuoco, Teresa ritrova spontaneamente il grande simbolo delle divinizzazione dell’uomo della teologia dei Padri: il ferro dell’umanità reso incandescente dal fuoco della Divinità nel dono dello Spirito Santo». L’unione profonda a Gesù che Teresa chiede e sperimenta, trasforma il «rottame di ferro» in sostanza incandescente, trasfigura la sua persona rendendola dimora del Cristo che vive e agisce in lei. Teresa, infiammata da tale Amore tenero e ardente, dolce e appassionato, «non può restare inattiva». Lo straordinario slancio missionario di Teresa, che la rende pienamente donna «in uscita», si radica in questa unione che, lungi dal ripiegarla in qualche tipo di intimismo, la spalanca, come abbiamo detto, alla sorellanza universale e la coinvolge totalmente nella missione di Gesù Cristo, Figlio missionario del Padre, Fratello nostro, Agnello immolato che carica in se stesso il dolore e il peccato dell’universo e col suo sangue lava, guarisce, salva, perdona, ridona vita.

Teresa si immerge così direttamente nel nucleo incandescente della missione, che si rivela sulla Croce, nel Cuore trafitto del Cristo che versa sul mondo sangue e acqua, balsamo rosso e infuocato che rigenera l’umanità e la creazione tutta.  I desideri immensi del fragile fiore, a cui non sarebbe bastata una sola missione, perché avrebbe voluto allo stesso tempo «annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo e fino alle isole più lontane», avrebbe voluto «essere missionaria  non solo per qualche anno ma […] esserlo stata dalla creazione del mondo ed esserlo fino alla consumazione dei secoli» e avrebbe soprattutto voluto versare il sangue per Gesù «fino all’ultima goccia» nel martirio, questi desideri infiniti si condensano e si compiono proprio nell’inabissamento nella fonte viva e incandescente della Missione: la consegna totale del Figlio al Padre, amando fino alla fine. Teresa si immerge tutta nel Mistero Pasquale, vivendo la passione della sofferenza fisica e interiore nella consapevolezza che tale dolore consegnato, divenuto offerta viva, divenuto fuoco d’Amore, è partecipazione alla missione redentrice del Cristo: «l’Amore mi ha scelta per olocausto, me, debole e imperfetta creatura… Questa scelta non è forse degna dell’Amore?… Sì, perché l’Amore sia pienamente soddisfatto, bisogna che si abbassi, che si abbassi fino al niente e che trasformi in fuoco questo niente».

Nell’Atto d’Offerta all’Amore Misericordioso come Vittima di Olocausto, che Teresa scrive il 9 giugno 1895, si rivolge alla Trinità, alla quale esprime i suoi desideri più grandi:

«O mio Dio, Trinità Beata, io desidero Amarti e farti Amare, lavorare alla glorificazione della Santa Chiesa salvando le anime che sono sulla terra e liberando quelle che soffrono nel purgatorio. Desidero compiere perfettamente la tua volontà e arrivare al grado di gloria che mi hai preparato nel tuo regno; in una parola, desidero essere Santa, ma sento la mia impotenza e ti domando, o mio Dio, di essere tu stesso la mia Santità!».

Più innanzi così si scrive:

«Ti ringrazio, o mio Dio, di tutte le grazie che mi hai accordate, in particolare di avermi fatta passare attraverso il crogiolo della sofferenza. Sarà con gioia che ti contemplerò nell’ultimo giorno mentre reggi lo scettro della Croce. Poiché ti sei degnato di darmi in sorte questa Croce tanto preziosa, spero di rassomigliarti nel Cielo e di veder brillare sul mio corpo glorificato le sacre stimmate della tua Passione».

Alla fine, esplicita la sua offerta:

«Allo scopo di vivere in un atto di perfetto Amore, mi offro come vittima d’olocausto al tuo Amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima le onde d’infinita tenerezza che sono racchiuse in te, così che io diventi Martire del tuo Amore, o mio Dio! Questo martirio, dopo avermi preparata a comparire davanti a te, mi faccia infine morire e la mia anima si slanci senza ritardo nell’eterno abbraccio del Tuo Amore Misericordioso!». 

Il 3 aprile dell’anno successivo, nella notte fra il giovedì ed il venerdì santo, cominciano a manifestarsi in modo evidente i sintomi della malattia che la condurrà alla morte, avvenuta, dopo un doloroso calvario, il 30 settembre del 1897. Nello stesso tempo, Teresa entra nel «cupo tunnel» della prova della fede, che durerà fino alla fine della vita.  

Kenya, 31 ottobre 1930: Irene Stefani, Missionaria della Consolata muore a 39 anni dopo aver contratto la peste dagli ammalati che assisteva. Irene, chiamata dalla sua gente «Madre tutta misericordia», vive appieno la missione, in tutte le sue fasi o dimensioni: la fase preparatoria, la fase dell’invio, la fase della permanenza operosa, fino ad arrivare alla fase ultima, in cui veramente la missione si compie, si consuma, si realizza ed esprime tutta la sua fecondità amorosa. È la fase appunto della consegna, dell’assorbimento totale nel mistero dell’Ora di Gesù Inviato, nella croce, nella morte, nella resurrezione e nel ritorno al Padre. Nell’ultima tappa del suo percorso spirituale, in Irene si intensifica l’esigenza di partecipazione piena al mistero dell’Ora, ed arriva a offrire a Dio la sua vita per il bene della Missione. Due settimane dopo questa offerta, Irene muore di peste. Ma la sua gente commenta: «L’ha uccisa l’Amore». La morte fisica diviene l’ultimo passo della consegna di tutta se stessa a Dio, nella consegna di Gesù nel mistero pasquale. Irene Stefani viene beatificata nel 2015.

Italia, novembre 2015. Chiamiamola suor Giorgia (non è il suo vero nome). La incontro l’ultima volta durante la visita a una nostra casa di sorelle anziane e ammalate. È rientrata da due anni dal Kenya, dove ha vissuto per 35 anni. È rientrata perché la salute va male. Ha 77 anni e un cancro la sta divorando. L’avevo incontrata tre anni prima in Kenya, fragile ma attivissima e felice, in una missione non facile, sfidante. Passo a salutarla una sera per augurarle la buonanotte. Ha in corso una flebo con antidolorifici. Sa di essere in fase terminale. Non voglio stancarla, penso di darle semplicemente un saluto. Invece lei mi ferma: «Siediti qui, parliamo». I suoi occhi luminosi mi convincono a obbedirle. «Ti ricordi quando ci siamo incontrate tre anni fa, in Kenya? Correvo. Ero felice. Ho avuto una vita bella, piena. La missione mi ha donato tanto. Sono riconoscente. Ma, sai? Non tornei indietro. Non cambierei con nulla ciò che adesso sto vivendo». I suoi occhi si fanno ancora più luminosi, nel volto scavato dalla malattia. «Adesso capisco veramente cos’è la missione. Adesso la vivo pienamente. Sono con Lui, Lui è con me. Sono abbracciata a Lui, alla Sua Croce. Non avevo mai sperimentato un’intimità con Lui così forte e vera. È bellissimo, è un dono. No, non tornerei mai indietro. Sono molto felice. Adesso la missione si compie. Offro tutto per l’Istituto, per la missione». Sr Giorgia muore dopo pochi mesi, consumata dal cancro, ma non solo. Tutto in lei è ormai «olocausto», ossia «bruciato interamente»: il ferro è ormai tutt’uno col Fuoco.

CONCLUSIONE

Ringrazio il Signore e tutti voi per l’opportunità che mi è stata donata di stare con Teresa di Lisieux, di dialogare con lei e lasciare che la sua esperienza illumini quella della nostra Congregazione missionaria ad gentes. Mi ha colpito la riscoperta di una Teresa di Lisieux attuale, capace di aprire strade di una spiritualità missionaria che ha molto da dire oggi alla Chiesa. Teresa ha promesso di continuare ad essere missionaria dal Cielo, di esserlo per l’eternità. Nella lettera scritta al suo “fratello” missionario, P. Roulland il 14 luglio 1897, gli annuncia con semplicità e letizia la sua prossima partenza per il Cielo e precisa:

«Conto proprio di non restare inattiva in Cielo: il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime. Lo chiedo al Buon Dio e sono certa che mi esaudirà. Gli Angeli non si occupano forse continuamente di noi senza mai smettere di contemplare il Volto divino, di perdersi nell’Oceano senza sponde dell’Amore? Perché Gesù non mi dovrebbe permettere di imitarli?

Fratello mio, vede che se lascio già il campo di battaglia, non è certo con il desiderio egoistico di riposarmi. […]

Quello che mi attira verso la patria dei Cieli è la chiamata del Signore, è la speranza di amarlo finalmente come l’ho tanto desiderato e il pensiero che potrò farlo amare da una moltitudine di anime che lo benediranno eternamente».

Sono certa che Teresa ha mantenuto la sua promessa e cammina con noi sulle strade dell’evangelizzazione, oggi. Interceda per noi tutti e accompagni la Chiesa sulle vie della Missione nel segno della piccolezza abitata di Dio, della sorellanza e della fraternità universale, della passione ardente per Dio e per l’umanità.

Sr Simona Brambilla, MC

Nepi, 07 marzo 2022

 Léthel, F.M., «Teresa di Lisieux, Dottore della Missione evangelizzatrice della Chiesa», in: Omnis Terra – Approfondimenti e analisi a cura dell’Agenzia Fides, 31.10.2019, p. 3. http://omnisterra.fides.org/articles/view/126

 Ciardi, F., «Perché Teresa di Lisieux è patrona delle missioni?» http://fabiociardi.blogspot.com/2013/10/perche-teresa-di-lisieux-e-patrona.html, 01 ottobre 2013.

 Ibidem.

 Ibidem.

 Cfr. Pavese, F., Scegliendo fior da fiore. I cinquantun santi di Giuseppe Allamano, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2014, p. 304.

 Allamano, G., Le “Conferenze spirituali” del Servo di Dio Giuseppe Allamano. Gli autografi e le trascrizioni dalla viva voce, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1981, Vol. III, p. 678.

 Allamano, G., Conferenze del Servo di Dio Giuseppe Allamano alle Suore Missionarie, Edizioni Suore Missionarie della Consolata, Grugliasco 1984, Vol. I, p. 316.

 Idem, Vol. III, p. 525.

 Benedetto XVI, Santa Teresa di Lisieux, Udienza generale, 6 aprile 2011. https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110406.html

 S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Opere complete – Scritti e ultime parole, Libreria Editrice Vaticana, Edizioni OCD, Roma 1997, Ms A, 2r. Mi riferirò sempre a questa edizione degli Scritti di Teresa di Lisieux, che riunisce i tre Manoscritti Autobiografici (Ms A, B, C con i numeri dei fogli recto/verso) le Lettere (LT), le Poesie (P), le Pie Ricreazioni (PR), le Preghiere (Pr), gli Ultimi Colloqui (UC) e gli Scritti Diversi (SD).

 Ms A, 27v.

 Ms A, 3v.

 Ms B,1v.

 Un altro simbolo caro a Teresa è proprio quello della canna, la quale figura, come il fiore, anche nel suo stemma araldico (Ms A, 85v) e appare nelle lettere 49 e 55: un’altra immagine di fragilità, debolezza e al contempo di flessibilità e apertura. Teresa è una piccola e fragile canna, ma questa debole canna è di Gesù (Cfr.  LT, 54).

 Cfr. Ms A, 35r.

 Ms A, 48r-48v.

https://parma.repubblica.it/cronaca/2014/09/07/news/due_missionarie_saveriane_uccise_in_burundi-95229424/

 Ms A, 2v-3r.

 Léthel, F.M., «Teresa di Lisieux, Dottore della Missione evangelizzatrice della Chiesa», in: Omnis Terra – Approfondimenti e analisi a cura dell’Agenzia Fides, 31.10.2019, p. 6. http://omnisterra.fides.org/articles/view/126

 Léthel, F.M., «Dio e l’uomo in Cristo Gesù Via, Verità e Vita. La sintesi teologica di Teresa di Lisieux, Dottore della Chiesa», in Teresianum, 2018 /1, p. 252.

 Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti, Assisi 2020, n. 32.

 Cfr Ms A, 2v. Papa Francesco intitola il capitolo secondo della sua Lettera enciclica Laudato si’: “Il vangelo della creazione”.

 Cfr Ms B, 3v.

 Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, Roma 2015, nn. 117. 138.

 Idem, n. 92. Credo che sarebbe interessante studiare l’esperienza di Teresa di Lisieux in rapporto al paradigma dell’ecologia integrale che Papa Francesco propone in LS.

 Cfr Ms C, 31v. Scrivendo ai due Missionari, Padre Roulland e don Belliére, spesso si rivolge loro con l’appellativo “Fratello mio” (cfr. ad esempio LT 193, LT 201, LT 221, LT 226… ) o anche “Mio caro piccolo Fratello” (LT 224, LT 247…), dichiarandosi la loro “piccola sorella” (Cfr per esempio LT 254).  Le lettere scritte a questi due Missionari risplendono di ardore apostolico, limpida speranza e sincero affetto.

 Léthel, F.M., «Teresa di Lisieux, Dottore della Missione evangelizzatrice della Chiesa», in: Omnis Terra – Approfondimenti e analisi a cura dell’Agenzia Fides, 31.10.2019, p. 7. http://omnisterra.fides.org/articles/view/126

 Ms C, 5v.

 Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, Roma 2015, n. 92.

 Ms C, 34r.

 Francesco, Costituzione apostolica Veritatis gaudium circa le università e le facoltà ecclesiastiche, Roma 2017, n. 4. Francesco, Lectio divina alla Pontificia Università Lateranense, Roma 26 marzo 2019. Cfr. Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, Roma 2013, nn. 87 e 272; cfr Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti, Assisi 2020,n. 78.

 Benedetto XVI, Santa Teresa di Lisieux, Udienza generale, 6 aprile 2011. https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110406.html

 Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti, Assisi 2020, n. 85.

 Cfr Direzione Generale delle Suore Missionarie della Consolata, Circolare n. 4, 25 dicembre 2020, p. 13.

 Ms C, 35v-36r.

 Léthel, F.M., «Dio e l’uomo in Cristo Gesù Via, Verità e Vita. La sintesi teologica di Teresa di Lisieux, Dottore della Chiesa», in Teresianum, 2018 /1, p. 240.

 Cfr Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, Roma 2013, nn. 20-24.

 Ms B, 3r.

 Ms B, 3v.

 Pr, 6.

 Ms C, 5v.

 È il significato etimologico del sostantivo “olocausto”.

 LT, 254.

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