
Un altro tassello sulla vita del Can. Camisassa con il Beato Giuseppe Allamano: personalità molto diverse, però in grande intesa, tanto che li consideriamo il Fondatore e Cofondatore della nostra famiglia missionaria!
E’ risaputo come il Fondatore fosse prudente nel campo della promozione vocazionale. Procedeva piuttosto lentamente, privilegiando la “qualità” dei soggetti sul loro numero. Tuttavia, lo sviluppo delle missioni e le continue richieste di personale che giungevano dal Kenya, lo obbligarono ben presto ad occuparsi anche del numero. In lui si vedono coesistere come due convinzioni che cercano di armonizzarsi il più possibile: l’assoluta priorità della qualità dei missionari, il loro entusiasmo interiore, e la coscienza del crescente e urgente bisogno di personale, da accrescere con opportune iniziative.
Queste convinzioni del Fondatore erano pienamente condivise dal Camisassa, a livello sia di principio che di attuazione. Così già nel 1909 decidono insieme di aprire un “Collegio per giovanetti che hanno ancora da compiere gli studi di latinità e che dimostrano inclinazione per la vita apostolica”. Questo scarno annuncio, apparso sulla quarta di copertina del periodico “La Consolata” già nel mese di marzo 1907, sarà ampliato, in seguito, in una specie di lettera circolare che il Fondatore manderà a sacerdoti di sua conoscenza. In essa annuncia l’apertura del “Collegio” (che poi sarà denominato “Piccolo Seminario S. Paolo”) spiega le crescenti necessità di personale delle missioni e indica le doti dei ragazzi candidati: «La S. V. così zelante del bene delle anime avrà forse tra quelli che frequentano la sua chiesa, catechismo o oratorio festivo qualche giovinetto di buona famiglia, di costituzione sana, inclinato alla pietà e allo studio e che dia indizi di vocazione alle Missioni estere».
Nella mente del Fondatore, però, risulta sempre prevalente la prudenza nella promozione vocazionale e nell’accettazione dei candidati alle missioni. C’è una lettera del 22 aprile 1921 a p. Sales, che si trovava nel seminario regionale di Bologna per una settimana di animazione missionaria. Fra gli altri suggerimenti di prudenza, il Fondatore sottolinea questo: «Sta però attento a non entusiasmarli poeticamente. Dì loro la vera natura dell’Istituto, la disciplina e lo spirito che lo regge». Inoltre, nel Fondatore si nota una certa propensione a preferire i soggetti che provengono da territori che lui conosce, in particolare, dal Piemonte. E ciò perché sa di quale tempra sono fatte le famiglie e, quindi, come sono preparati i giovani che da esse provengono.
Ovviamente questa propensione non era esclusiva. Basta sentire questa bella testimonianza molto originale di p. Bellani, il quale, essendo il primo non piemontese entrato nell’Istituto, trovava difficoltà per il fatto che i suoi compagni parlavano abitualmente in dialetto: «Mi decisi per questo di rivolgermi al venerato fondatore che mi aveva sempre concesso tanta paterna confidenza. Monsignore, gli dissi, ad una sua domanda se mi trovavo bene in comunità […]. Benissimo, ma quel dialetto che si parla da tutti non solo mi è incomprensibile, ma mi dà noia. «Provvederò, caro Don Bellani, e subito». La sera stessa la sua conferenza fu tutta sulla necessità che in casa e anche nelle ricreazioni si parlasse italiano per maggior educazione e rispetto a quanti, che potevano poi entrare nell’Istituto non piemontesi».
Lo stesso mons. G. Barlassina, quando era Prefetto Apostolico in Etiopia, scrivendo al Fondatore nel 1922, quasi per incoraggiarlo ad allargare i confini della promozione vocazionale, metteva in evidenza le doti di missionari non piemontesi e, come prova delle sue affermazioni, faceva tre nomi, che noi conosciamo molto bene: p. Angelo Bellani, Fr. Bartolomeo Liberini e Sr. Irene Stefani. Di loro diceva: «È dalla natura della loro terra natale, cioè da quell’ambiente morale delle famiglie […] che essi uscirono con una interpretazione più giusta, più completa dello spirito religioso, e già quasi pratici della vita religiosa, soda, veritiera, sempre serena, senza fronzoli, poesia e stravaganterie».
Il Camisassa era totalmente alleato con il Fondatore nella strategia della promozione vocazionale. Ecco che cosa scrive al p. Sales, in Kenya, nel dicembre 1918, per dargli un criterio valido nello scrivere articoli per la rivista “La Consolata“, giustificandosi di non poter pubblicare un suo scritto sulle difficoltà della vita missionaria. E rafforza le proprie affermazioni con il pensiero e l’autorità dell’Allamano: «Coll’ultimo plico postale ricevetti i tuoi scritti sulla guerra e i neri (alla Leodokowska), le locuste e i pericoli dei missionari in viaggio. Grazie, grazie di cuore per tutti, sebbene l’ultimo il Sig. Rettore non me lo lascerà pubblicare (come non volle si pubblicasse quello sulle delazioni e disagi della vita missionaria) perché egli teme che queste cose, come i pericoli nei viaggi, possano spaventare e impedire vocazioni, massime di Suore. Cosa vuoi la vita di missione, o meglio la vocazione missionaria, non è come pel matrimonio […]. Insomma, se non si presenta nel suo bello, induce scoraggiamento colla conseguenza di ritrarne certi soggetti che qui se ne spaventerebbero, invece poi portati in quell’ambiente faran perfin dei miracoli – È questo il segreto per cui gli scritti di Monsignore piacciono alla folla e veniamo spesso a scoprire che furono essi l’incitamento a molte vocazioni. Eppure, egli non dice bugie; ma il brutto o lo sorvola o lo presenta nel suo lato bello, per cui anche le difficoltà finiscono per attrarre le anime generose. […]. Termino col finir della carta ripetendoti che la prima tua missione, è scrivere, scrivere, scrivere».
Come si vede da questi brevi cenni, sia il Fondatore che il Camisassa “volevano” vocazioni, ma le volevano “di qualità”, che dessero garanzie, entusiaste del “bello” e della “poesia e sublimità” della missione. Allora «faran perfin dei miracoli». È sempre la stessa linea: qualità e quantità, come lo stesso Fondatore ha riconosciuto, parlando alle suore: «Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è…».
P. Francesco Pavese, imc