
Gesù di Nazaret muore nei giorni di Pasqua, dopo averla celebrata a Gerusalemme. Solo un caso? Forse non del tutto. La Pasqua era già una grande festa ebraica, teologicamente la più importante, anche se magari tanti ebrei potevano sentirne altre con più trasporto (in fondo, anche oggi probabilmente molti cristiani vivono più intensamente il Natale che la Pasqua). Ed era già una festa a più strati, che si riescono ancora a cogliere, e probabilmente ci aiutano a capire anche qualcosa di più di ciò che probabilmente sarà passato nella mente di Gesù.
La primavera dei pastori
Da tempi antichissimi, sicuramente molto prima che iniziassero a venerare il Dio di Giacobbe, diversi gruppi di pastori celebravano in primavera una festa. In quello che per loro era l’inizio dell’anno, sacrificavano un agnello maschio nato nell’estate precedente e ne spargevano il sangue sui sostegni della tenda per tenerne lontani gli influssi malefici, prima della partenza per i pascoli. Si trattava di un gesto scaramantico, consistente nel “pagare pegno” di una vita nella speranza che le altre fossero salvate. Era una festa familiare, senza alcun intervento di sacerdoti o presenza di altare.
Alcuni dei segni di questa Pasqua che restano nei secoli (anche quando la si celebra da sedentari, sostituendo ai sostegni della tenda gli stipiti della porta di casa) sono tipici dei pastori seminomadi: cintura ai fianchi e sandali ai piedi, come chi partirà nella notte, agnello cotto alla brace e consumato interamente, perché nel deserto non ci sono pentole, con contorno di erbe amare, ossia non coltivate ma spontanee…
È collegato a questa celebrazione anche il nome della festa, da una radice verbale che sembra significasse in origine “saltare, zoppicare”, probabilmente nel significato traslato di “danzare” (è festa gioiosa, pur avendo echi cupi).

Gli azzimi
Altri ebrei avevano celebrato una festa diversa, tipica dei contadini sedentari, che in primavera mietono l’orzo, primo raccolto che in qualche modo segna l’inizio della stagione dei frutti pur non garantendo un sostentamento prolungato: non a caso la festa degli azzimi rimanda a quella che in qualche modo la completa, le Settimane, o Pentecoste, quando, dopo cinquanta giorni, si miete il grano, che darà invece da vivere fino a tutto l’inverno.
I contadini avevano l’abitudine di impastare la farina con una “madre” che si metteva da parte, prendendola dall’impasto della volta prima. Una volta all’anno, però, era bene buttare questa “madre”, che tendeva a impoverirsi, magari infettarsi… Ecco perché prima della mietitura dell’orzo, segno dei frutti che arriveranno di nuovo, ci si purificava dagli alimenti dell’inverno eliminandoli. Anche per noi è rimasta la sensazione delle “pulizie di primavera” come quelle più radicali, quando finalmente si possono tenere le finestre aperte e lavare tutto.
Come tutte le feste contadine, aveva una forte componente comunitaria, che non a caso si raccoglie abbastanza naturalmente intorno al tempio, con la conseguente presenza di sacerdoti, che gestiscono la festa. Essendo legata ad un raccolto, non aveva data precisa, se non quella orientativa del mese di abib, “delle spighe”.

L’uscita dall’Egitto
Accanto a queste feste un gruppo di persone, probabilmente non molto grande, iniziò a celebrarne un’altra, che forse cadeva già, magari solo per coincidenza, negli stessi giorni.
Ricordavano infatti come un loro antenato, con alcune persone, fosse fuggito dal ricchissimo Egitto sopraffattore, fidandosi semplicemente della promessa di un Dio di cui avevano persino dimenticato l’esistenza.
Questi iniziano a dire che in fondo anche per loro si era trattato di un “salto”, in quanto l’angelo sterminatore aveva “saltato” le case degli ebrei con gli stipiti macchiati dal sangue dell’agnello, o forse anche perché gli ebrei avevano “saltato” il mare verso il deserto della loro libertà.
Chissà se sono loro a notare che in fondo anche i contadini dovevano “fidarsi” buttando via il lievito vecchio, e i pastori abbandonando gli accampamenti invernali, ormai quasi senza cibo ma più sicuri. Chissà se già avevano iniziato a celebrare la festa del “passaggio” insieme agli altri. Chissà se già cadeva in primavera, tempo dei nuovi inizi…
Giosia
Nel 640 a.C. sale al trono di Gerusalemme un re, Giosia, che, approfittando del momento storico favorevole, inizia una “riconquista” del nord del paese, conquistato dagli assiri ottanta anni prima. Capisce che non basta però avanzare con l’esercito, occorre convincere le popolazioni ad avere interesse a restare uniti al re di Giuda. E allora come oggi le motivazioni economiche possono essere importanti, ma quelle ideali lo sono di più.
Ecco che Giosia probabilmente “inventa” il ritrovamento di un libro (potrebbe essere il Deuteronomio) che invitava ad avere un solo tempio, come uno solo era Dio e il popolo da lui amato. Il re inizia a chiamare tutti gli ebrei ad andare in pellegrinaggio, idealmente una volta dell’anno, all’unico tempio costruito nella città santa.
E probabilmente è lui a pensare che le diverse tradizioni religiose vadano a loro volta integrate, fuse, perché siano simbolo di questa unità del popolo. Non cancella le singole, diverse tradizioni, ma le fa diventare una sola. (Può darsi che sia qualcun altro il primo responsabile di questa “fusione”, ma il senso non cambia).
È una rivoluzione: le feste più importanti dell’anno sono fuse e dunque le due, ma forse addirittura tre, anime del popolo diventano una sola, incentrata sul pellegrinaggio a Gerusalemme e al tempio, coerentemente con le scelte di fondo di Giosia. Quindi il cuore della festa di Pasqua non è più soltanto la cena familiare, ma anche il sacrificio nel tempio. E i sacrifici diventano la forma più alta e propria di culto a JHWH (in precedenza erano importanti, ma si affiancavano ad una serie di riti celebrabili in casa, che ormai perdono di valore). La “Pasqua ebraica” che abbiamo in mente e che ha celebrato Gesù nasce qui.
Non a caso 2 Re 23,22 afferma che «non si era più celebrata una Pasqua come quella dal tempo dei giudici che avevano governato Israele e durante tutto il tempo dei re d’Israele e di Giuda».
La riforma religiosa di Giosia durerà ben poco, perché trent’anni dopo la sua morte anche il suo regno sarà conquistato, questa volta dai babilonesi, ma la trasformazione sopravviverà. Da allora in poi si dà infatti per assodato che la Pasqua si celebri con l’agnello pasquale e con gli azzimi, e ricordando l’uscita dall’Egitto.
Il senso aggiuntivo è che le anime possono essere diverse ed esprimersi in modi diversi, ma in fondo esprimono la stessa comunione con l’unico Dio.

La Pasqua di Gesù
Gesù si appoggia e inserisce in questo contesto. Celebra la Pasqua a Gerusalemme, vicino al tempio, ma non con la sua famiglia, bensì con i suoi discepoli, che inevitabilmente si penseranno come sua nuova, vera e definitiva, famiglia.
E si inserisce nella stessa dinamica. Come Mosè e i suoi compagni avevano dovuto abbandonare le sicurezze di una casa di schiavitù, in cui tuttavia si mangiava, e fuggire rischiando la vita ed entrando nel mare, sulla base della fiducia in una promessa divina; come i contadini dovevano, anno dopo anno, abbandonare la sicurezza delle farine dell’anno prima e gettarle, buttando insieme il seme nella terra, fidandosi che Dio non li avrebbe abbandonati e avrebbe donato loro il cibo; come i pastori, nella prima luna piena di primavera, dovevano fidarsi e abbandonare la protezione degli accampamenti invernali confidando nella promessa di trovare nuovi e migliori pascoli; così anche Gesù si diceva disposto ad abbandonare le proprie sicurezze e la propria stessa vita, affrontando il “salto” nella morte, solo per fiducia in un suo legame con il Padre che non lo avrebbe lasciato da solo.
Gesù spiega che fa questo per i suoi discepoli, noi compresi. Chiarisce che sarà il suo modo di restare unito ai suoi lungo il tempo. Il legame è nel coraggio di mettersi a rischio, in ballo, confidando nella promessa divina che si occuperà della vita dei suoi, perché è un Dio che ama.
Angelo Fracchia