ALLA FINE, L’UMANITA’

Art Gallery ErgsArt by ErgSap – Da Flickr – Joseph sold into slavery by his brothers 1900

Una delle storie più note del Primo Testamento, anche perché è raccontata proprio bene ed è bellissima, è quella di Giuseppe, penultimo figlio di Giacobbe (si trova nel libro della Genesi, nei capitoli dal 37 al 50, esclusi i capitoli 38 e 49 che sono stati inseriti dove sono per ragioni comprensibili, ma parlano d’altro).

Oltre ad essere piacevole e facile da leggere anche per lettori moderni, si presta a un’interpretazione che può sembrare marginale, ma non è certo secondaria.

Non proprio una bella persona

Chi ha scritto il libro della Genesi aveva intenzione innanzi tutto di narrare le origini unitarie del popolo che si riconosceva in diversi patriarchi. Bisognava quindi dire che all’origine di tutti quegli antenati ce n’era uno solo, Giacobbe/Israele, e raccontare le storie che si ricordavano su di lui, per lo più non molto edificanti.

Giacobbe, infatti, aveva rubato la primogenitura al fratello gemello (ma nato prima) Esaù. La tradizione giudica con sdegno la superficialità di Esaù, ma bisogna ammettere che anche Giacobbe non si mostra un buon fratello, rifiutandosi di nutrire chi ritorna dalla caccia stanco ed affamato (Gen 25,29-34). Per difendere questo furto, spalleggiato dalla madre, ingannerà anche il padre (Gen 27), salvo poi fuggire per non farsi castigare da Esaù.

Nella sua fuga incontra a un pozzo lavoratori che rimprovera pur non conoscendoli (Gen 29,7) e ha un colpo di fulmine per Rachele. Accetta di prenderla in moglie in cambio di sette anni di lavoro per il suocero (Gen 29,15-20), dal quale viene ingannato, ricevendo in sposa la sorella Lia, che «aveva gli occhi smorti» (29,17).

Foto di Jean Louis Mazieres da Flickr – Jacob meeting Rachel – Hambourg Kunsthalle 1827

Dopo aver servito il suocero per altri sette anni per sposare finalmente Rachele, Giacobbe organizza un altro inganno ai danni del suocero per mettersi da parte un gregge forte e sano e infine, approfittando dell’assenza del suocero, fugge con mogli, figli, schiavi e animali (Gen 30-31). Torna nella terra di Canaan, nella speranza di essere accolto da Esaù al quale manda incontro tutti i propri beni e familiari restandosene, per conto suo, nelle retrovie (non solo ingannatore, quindi, ma anche meschino e pavido). E quando il fratello lo perdonerà, non accetterà tuttavia di tornare con lui, ma preferirà non fidarsi, lasciandolo andare avanti da solo.

Certo, nel frattempo Giacobbe aveva vissuto un’esperienza stupefacente e “nuova”, nella quale era stato costretto a sopportare di non avere tutto sotto controllo, e ad accettare di farsi benedire da qualcuno che non gli aveva voluto rivelare il nome, e nel quale aveva riconosciuto la presenza divina (Gen 32,23-31). Lì aveva dovuto fidarsi, guadando lo uadi Iabbok, con il rischio di restare bloccato nella terra del fratello. E, dopo una notte tormentatissima, aveva deciso di andare avanti.

Tale padre, tali figli

Il clima di umanità sprezzante, prepotente ed egoista pare continuare peraltro anche nei figli. Non solo nelle vicende di Giuda (Gen 38) che alla fine, almeno, ammette di non essersi comportato con giustizia. Ma soprattutto nelle relazioni tra i fratelli.

D’altronde, anche tra le loro quattro madri i rapporti erano di competizione e gelosia: Lia la brutta, infatti, era però più feconda, tanto che dopo quattro suoi figli la sorella Rachele, amata ma apparentemente sterile, concede a Giacobbe la propria schiava, per non lasciare del tutto scoperto il campo. Dopo tre figli della schiava di Rachele, anche Lia teme di essere soppiantata e ricorre lei pure alla maternità per procura, ottenendo altre due gravidanze dalla schiava propria.

Sembra proprio che anche nella parte femminile della famiglia di Giacobbe i figli siano solo uno strumento di predominio sulla controparte (che è peraltro parente stretta).

Dopo altri due figli (e una figlia) di Lia, finalmente anche Rachele resta incinta e partorisce Giuseppe.

Ed è a questo punto che Giacobbe organizza l’inganno e la fuga ai danni del suocero.

Da qui in poi, peraltro, si mostrerà sempre legatissimo all’ultimo figlio nato in Mesopotamia, concepito da colei di cui si era innamorato anni prima. E, coerente con la sua figura di uomo che non mette la giustizia e la correttezza al primo posto, non si fa scrupoli nel privilegiarlo, trattandolo in modo diverso dai fratelli, vestendolo con una tunica dalle maniche lunghe (Gen 37,2).

Foto di Art Gallery ErgsArt by ErgSap da Flickr – Jacob wrestling with angel c 1905

Giuseppe, peraltro, non cerca per niente di farsi benvolere dai fratelli. Riferisce al padre i loro commenti malevoli su di lui (37,1) e racconta loro sogni in cui si prostrano davanti a lui (37,4-11). Così che, quando si trovano soli con lui in campagna, dapprima pensano di ucciderlo, poi preferiscono venderlo a mercanti, facendolo passare per morto agli occhi del padre (37,18-34).

Sappiamo come l’assistenza divina e la sapienza che gliene viene in dono lo porteranno, anni dopo, dal carcere al ruolo di vicerè d’Egitto (Gen 39-41).

A noi interessa soprattutto ciò che accade dopo.

La riscoperta dell’umanità

Quanto riassunto finora ci attesta quanto poco sembrino rilevanti, in questa “bella famiglia esemplare”, i sentimenti di affetto, di umanità, persino di rispetto. Eppure, verso la fine della storia narrata, le cose cambiano. Peraltro, i racconti antichi, e soprattutto quelli biblici, tendono a non mostrare troppo i sentimenti dei loro personaggi, eppure in questo caso essi prorompono, in modo prepotente: questo però significa che non si tratta di una posa in qualche modo scontata o banale, ma di particolari inattesi, sconvolgenti. Sono probabilmente una parte centrale del discorso.

Giuseppe, infatti, quando arrivano in Egitto i fratelli, cercando la possibilità di comprare del cibo, non si fa riconoscere e allestisce una complessa messinscena per costringerli a portare in Egitto l’ultimo fratello, l’unico nato nella terra di Canaan, quel Beniamino che ora è il nuovo privilegiato di Giacobbe. Potremmo immaginare che sia un trucco per rubare al padre il nuovo prediletto?

Foto di pcstratman da Flickr – Joseph meets his brothers

Con quello che si è detto dei personaggi finora, potremmo anche pensarlo, ma in realtà il clima è improvvisamente cambiato. Per convincere il padre a lasciar partire Beniamino, Ruben, il primogenito, gli affida i figli propri, perché muoiano se succede qualcosa di male al loro zio (42,37), e Giuda, che finora non aveva mai brillato per pietà, si impegna in prima persona, facendosi garante della salute del prediletto (43,8-9).

Quando poi arrivano in Egitto, Giuseppe prova ancora ad architettare un inganno (Gen 44), ma alla fine si fa vincere dalla commozione e si svela, chiedendo di andare a recuperare in Canaan il padre anziano. Non suona troppo banale, in una famiglia come la sua, la raccomandazione che lascia ai fratelli in partenza: «Non litigate durante il viaggio!» (45,24). E il padre, arrivando in Egitto, non pretenderà più nulla, ma si limiterà a dire «Ora posso anche morire, perché sei vivo» (46,30).

Una vicenda che si era aperta nel pieno degli odi familiari e degli inganni reciproci, che era proseguita nella sfiducia e nella contesa, si chiude tra lacrime di commozione, tra sentimenti di amore e di accoglienza; Giacobbe, che aveva sempre voluto gestire le vite altrui, si lascia condurre in un progetto voluto da altri, i figli di sorelle sempre in lotta si rappacificano, quella ricchezza che era sempre stato un motivo di scontro diventa ragione di dono e di armonia.

La complicata vicenda umana di Giacobbe era arrivata a conquistare, molto faticosamente, la fiducia in Dio. Ma quella svolta, fondamentale, non era il punto d’arrivo, che è invece l’affetto reciproco, maturato a stento ma alla fine senza ombre.

Quasi che chi ha scritto il libro della Genesi avesse intuito che la fede in Dio è cruciale e fondamentale, ma senza tradursi in amore nei confronti del “prossimo”, del più vicino, resta sterile e insincera.  

Angelo Fracchia

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