Mutare per vivere

Tra i commenti che sento fare su questo periodo post-Covid, ce n’è uno che mi colpisce per la frequenza con cui lo sento rimbalzare: “abbiamo fatto un salto in avanti di almeno tre anni.” Non è un giudizio morale, non è detto che sia un bene o un male. Semplicemente è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti. Trasformazioni che avrebbero richiesto più tempo per diffondersi hanno ricevuto un’accelerata con la pandemia. È qualcosa di evidente in alcuni ambiti, soprattutto quelli tecnologici, ma in qualche modo è percepibile anche là dove non te lo aspetti, come la passione che si è scatenata per il cibo consegnato a domicilio.

Da uomo di Chiesa mi domando se un fenomeno simile sia avvenuto anche all’interno dei nostri recinti, ma qui la risposta diventa complicata. Alcuni processi in corso si sono sviluppati con sorprendente rapidità anche per noi, in particolare le dirette in streaming delle celebrazioni e gli appuntamenti formativi di vario genere in video. Strumenti che indubbiamente hanno il loro perché e sicuramente integrano le offerte ordinarie. Nella maggior parte sono state gestite in un clima di emergenza, con caratteristiche simili alla produzione di canti liturgici dopo il Concilio Vaticano II e probabilmente faranno la stessa fine. Molti addetti ai lavori hanno sentenziato che i limiti oggettivi di questa modalità, uniti alla fame di contatto fisico, porteranno ad un loro drastico ridimensionamento. È verosimile. Meno lo è che il proclamato desiderio di riallacciare cammini condivisi in presenza trovi una reale attuazione. Tutto ciò a me ricorda quelle promesse che si scambiano gli ex compagni di scuola quando si incontrano per caso allo stadio: “Sentiamoci!”, si danno il numero di cellulare e poi tutto finisce lì. Non c’è nessuna garanzia che le esperienze formative di gruppo, in crisi generalizzata già nell’epoca pre-Covid, possano rifiorire miracolosamente solo per un diffuso rigetto del distanziamento coatto. E questo riguarderà, ça va sans dire, la partecipazione all’Eucaristia domenicale. La regola generale di questo tempo è che i sistemi più danneggiati sono quelli che anche prima erano in crisi, quindi la Messa non fa eccezione.

Queste cose sono sotto gli occhi di tutti e non credo valga la pena soffermarcisi più di tanto. Semmai potrebbe essere più intrigante cercare di capire cosa c’è dietro questi fenomeni. Le grandi crisi dei secoli precedenti (le pestilenze, le guerre mondiali, ecc.), infatti, hanno partorito svolte religiose abbastanza significative, mentre in questo caso lo scenario che si prospetta è diverso. La novità del Covid è che, almeno qui in Occidente – mio unico punto di osservazione –, per la prima volta si è vissuta una tragedia in maniera fondamentalmente laica. Nessuno ha collegato questi eventi a una colpa particolare e nessuno ha attribuito a Dio la causa del malanno e la sua progressiva limitazione. I credenti hanno pregato in forma discreta e i professionisti del sacro hanno dovuto sperimentare la loro sostanziale irrilevanza in un tempo in cui i media non facevano certo a gara per ospitarli. I virologi hanno sbaragliato i teologi. È assai probabile che nei prossimi anni avremo un boom di iscritti a medicina, ma difficilmente avverrà la stessa cosa nelle facoltà teologiche. Non è che la religione sia stata assente durante questo tempo pandemico, anzi, l’immagine di papa Francesco che attraversa da solo piazza san Pietro è un’icona formidabile rimasta impressa nella mente di tutti. Ma a livello emozionale. La maggior parte delle istituzioni è ancora disposta a riconoscere un ruolo al religioso, a patto di relegarlo nelle iniziative che contribuiscono al benessere delle persone, come accade per le forme di intrattenimento. Forse è un compromesso ritenuto accettabile dai credenti, per evitare di sparire dalla vita pubblica, ma non privo di rischi. Le informazioni divulgative sulla pandemia suggeriscono questo bizzarro accostamento: il virus e la fede cristiana hanno un curioso elemento in comune, la capacità di adattamento. Il Covid sta andando incontro a una serie di mutazioni che lo rendono progressivamente più innocuo per permettergli di annidarsi nella popolazione umana. Dicono, e ce lo auguriamo di cuore, che col tempo non sarà più letale e si ridurrà ad essere una variante del raffreddore. È innegabile che anche il cristianesimo sia sopravvissuto a venti secoli di storia e stia ancora prosperando a livello mondiale, grazie alla sua capacità di assimilazione. Nato in una piccola regione mediorientale, si è presto trasformato in una religione mondiale che oggi include credenti in ogni continente. Ma per fare questo ha dovuto inculturarsi. Prima è penetrato nell’impero romano e si è impastato con la filosofia greca, poi ha dato vita a innumerevoli varianti a livello locale o planetario, con esiti assai diversi. Il risultato è che oggi ci sono cristiani sovranisti e altri che per aderire alla fede hanno di fatto rinunciato ai loro valori nazionali. Cristiani che mescolano la fede alle scoperte scientifiche del loro tempo e altri che le rifiutano. Cristiani capitalisti e altri antisistema. In linea di massima, però, ogni mutazione ha comportato una integrazione più o meno profonda nel contesto vitale in cui ha attecchito, un rapporto certamente simbiotico che prevede uno scambio reciproco.

Nel diffondere la loro fede, i credenti rispondono all’invito di Gesù ad essere sale della terra e luce del mondo, una presenza significativa che trasforma la realtà che incontra. Questa, attenzione, è solo una parte della storia. Il cristiano che si integra accetta anche il compromesso con il sistema che va ad abitare, e ne viene trasformato a sua volta. Le varianti del Covid ci presentano il conto di questo processo e ci spingono ad interrogarci sulla nostra identità presente e futura. Fino a che punto il cristianesimo rimane una forza rivoluzionaria e quando finisce per diventare un innocuo raffreddore nella vita delle persone? Se le mutazioni sono inevitabili, e forse persino necessarie, occorre individuare quali aspetti dell’essenza cristiana sono irrinunciabili e quali invece sono passibili di cambiamenti senza che venga intaccato il cuore della fede. Questo è un processo di verifica che non può essere portato avanti dai singoli individui o da gruppi di credenti: è il continuo riferimento della Chiesa alla Scrittura e alla Tradizione che permette di innovare senza tradire.

di don GIAN LUCA CARREGA, biblista

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