
“Questa è la mia tragedia, ma è anche la tragedia di tante altre madri”. C’è una tragedia comparsa da qualche decennio all’orizzonte del mondo occidentale, una tragedia a lungo ignorata ma che ha già scavato nel profondo tante società.
È quella delle lavoratrici madri che migrano, lasciando a casa i figli piccoli o adolescenti. Una tragedia che tutti – economisti, sociologici, politici, cittadini/e, donne e uomini di Chiesa – dovremmo tenere seriamente in conto. Anche perché è la spia di un problema più vasto. La migrazione, si sa, è sempre esistita. Fa parte della natura umana. Pensiamo ai racconti biblici, alle tante narrazioni che attraversano tempo, storia e culture. L’umanità è naturalmente spinta a cercare la vita, anche se questo ha sempre comportato, e continuerà a comportare, rischi. Ma è l’istinto di sopravvivenza, è l’amore. Tradizionalmente, però, sono sempre stati gli uomini a migrare mentre negli ultimi decenni nel mondo si è assistito a un fenomeno nuovo: quello della migrazione di donne partite per lavorare affidando i figli a mariti, compagni o nonni. Pensiamo, ad esempio, alle donne filippine, alle donne indiane o alle donne dell’Est Europa.
È dagli anni Ottanta del Novecento che il bisogno globale di lavoratori si è spostato verso nuovi settori, aprendo possibilità d’impiego per le migranti nell’ambito del lavoro domestico e dell’accudimento di anziani, malati o bambini (per non parlare della grande, ‘tradizionale’ richiesta per il mercato del sesso). Motore ne sono state le economie sviluppate, come Giappone, Stati Uniti e paesi del Nord Europa. Definito “femminilizzazione della migrazione” e nutrito da grande povertà, disperazione, disequilibri economici, richiesta illimitata di forza lavoro a basso prezzo, il fenomeno è il risultato della crescente difficoltà degli uomini a trovare un impiego a tempo pieno nel proprio Paese o in quelli di destinazione, costringendo così mogli o compagne a mantenere la famiglia. Ma che impatto ha avuto questa novità? Se le donne migrano perché l’istinto materno le porta a impegnarsi e a sacrificarsi per il bene dei figli nel tentativo di procurare loro opportunità altrimenti precluse, è stata però l’emancipazione femminile ad averne ‘permesso’ il viaggio. Più consapevoli di sé e delle loro potenzialità, queste donne hanno preso in mano la situazione (“quando ho visto che vostro padre non aveva alcuna voglia di cercarsi un lavoro dopo aver lasciato il suo impiego a scuola, sono venuta qui. Non c’era altra via di uscita”).
C’è chi sostiene che le donne più forti e decise abbiano in qualche modo legittimato gli uomini a fare un passo indietro rispetto alle loro responsabilità, ma è chiaramente la solita, distorta visione che pone la colpa dei disastri sulle spalle delle vittime. Molti studi compiuti in diverse discipline hanno dimostrato che l’impatto sulla famiglia in caso di partenza della madre è molto più deflagrante rispetto alla migrazione dei padri. Quando è la donna a partire, l’organizzazione della vita quotidiana subisce molti più adattamenti per colmare il vuoto nella responsabilità di accudimento che è lei ad assumersi. Difficilmente gli uomini accettano di svolgere questo ruolo in seno alla famiglia, determinando disastri a catena le cui prime vittime sono proprio quei minori per tutelare i quali le madri sono partite. Un circolo vizioso (nutrito e amplificato dalla ridotta scolarizzazione) che da ben più di un decennio gli studiosi denunciano senza che nessuno li ascolti (cfr. Nicola Piper, Feminisation of Migration and the Social Dimensions of Development: the Asian Case, in Third World Quarterly, Vol. 29, N. 7, 2008). I virgolettati che abbiamo sin qui riportato sono tratti da un libro uscito ormai quasi dieci anni fa: Miei cari figli, vi scrivo (Einaudi 2013), una sorta di lunga lettera che Lilia Bicec, una donna moldava emigrata in Italia, invia a Stasi e Cristina rimasti in patria con il padre. Giornalista a Chişinau, Bicec è giunta nel 2000 nella Penisola dove ha lavorato come colf e come badante, prima di trasferirsi definitivamente a Brescia.

Qui ha fondato l’associazione italo-moldava di promozione sociale Moldbrixia e poi “Moldbrixia news”, la prima rivista in italiano e romeno per i cittadini moldavi e romeni che vivono nel nostro Paese. Il libro è una testimonianza importante da ascoltare se si vuole cercare di mutare l’ottica da cui guardare il fenomeno migratorio. Non è certo l’unico in tema (oggi, ad esempio, sta avendo un discreto successo in Italia il romanzo di Marco Balzano, Quando tornerò, Einaudi 2021, che racconta la storia di una madre che va a lavorare in Italia e dei suoi figli rimasti in Romania), ma quello di Bibec è un’altra cosa perché scritto da una protagonista diretta. Prezioso è anche Sindrome Italia. Storia delle nostre badanti (Becco Giallo 2021), il libro a fumetti di Tiziana Francesca Vaccaro ed Elena Mistrello in cui Vasilica, originaria di Iaşi in Romania, che racconta la partenza nel 2005, gli anni nel nostro Paese e il rientro a casa. È un libro che vi consigliamo di leggere, anche se non siete amanti del genere e sebbene non sia scritto da una migrante (Vasilica è comunque una donna reale conosciuta dalle autrici), perché introduce un altro tassello importante legato al tema della lavoratrice migrante: quello della malattia che nasce nel Paese di destinazione per poi esplodere e manifestarsi al momento del rientro nel Paese d’origine. Una malattia che ha un nome preciso: “Sindrome Italia”.
Sono stati, nel 2005, gli psichiatri ucraini Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych a dare finalmente un nome al problema misterioso che affliggeva sempre più assistenti familiari dell’Est rientrate nelle loro case, dopo anni vissuti nel nostro Paese lavorando come colf e assistenti domestiche, lontane dai figli e dalle loro famiglie. Una malattia che è qualcosa di non confinabile a una semplice depressione: la Sindrome Italia comporta tristezza persistente, inappetenza, insonnia e stanchezza croniche, fantasie suicide in un quadro di angosce, alienazioni, scissioni identitarie e perdita di sé. Sono chiaramente tantissimi i temi che, più in generale, si intrecciano in queste vicende a cavallo tra economia, sociologia, medicina e politica. Uno di essi però ci sembra particolarmente importante da sottolineare: il fatto che ci troviamo dinnanzi a economie mondiali costruite pensando ai soli lavoratori maschi. Le regole del gioco, le leggi che disciplinano il settore, le categorie attraverso le quali gli studiosi affrontano il tema, i discorsi dei politici, tutto ruota attorno a una figura teorica di lavoratore inteso come neutro, ma che in realtà è maschio. Ovviamente non si vuole sottintendere che gli uomini non siano anche loro vittime di ingiustizie e di leggi insufficienti, ma per le donne il problema è amplificato dal fatto di non essere considerate nella loro specificità. Del resto se l’invisibilità della lavoratrice donna o madre emerge anche dalle vicende globali che abbiamo sommariamente qui ricordato, essa però riguarda anche le lavoratrici dei Paesi di destinazione. Ad esempio, una scuola che sta chiusa tre mesi in estate ha chiaramente in mente una famiglia in cui solo il padre abbia un’occupazione extra domestica. Sono problemi e temi che la pandemia ha acutizzato, ma che affondano le loro radici ben oltre il dramma del coronavirus.
“Questa è la mia tragedia, ma è anche la tragedia di tante altre madri”. Ascoltiamole, ascoltiamoci.
Giulia Galeotti
questo articolo è stato pubblicato su Andare alle Genti
per informazioni e abbonamenti alla rivista, clicca qui