TRA ACQUE E RACCONTI

Clay tablet from Shuruppak, Southern Mesopotamia, Iraq, on display in the Pergamon Museum

Ci sono racconti biblici che conosciamo talmente bene da immaginare di conoscerli a memoria… senza averli forse mai letti. Può anche capitare che quegli stessi siano tanto ricchi di sottintesi, rimandi e questioni da far scrivere su di sé biblioteche intere.

Uno di questi è il racconto del diluvio universale, narrato nei capitoli dal 6 al 9 della Genesi.

Chi ha copiato?

Per secoli l’umanità si disinteressò di quanto dall’antichità arrivava fin lì. Solo a partire dal XVIII secolo si iniziò a scavare per cercare tracce e informazioni sulle civiltà antiche. Dopo qualche tempo si cominciarono anche a scavare quelle colline che punteggiano la pianura mesopotamica e che in gran parte sono artificiali, in quanto le città antiche tendevano a essere ricostruite sopra alle rovine di altre città, per sfruttarne l’altezza, come aiuto a difendersi. Erano civiltà che usavano scrivere non su pergamene o su papiri, ma su terracotta. Il vantaggio della terracotta (per gli archeologi) è che quando gli eserciti antichi conquistavano città nemiche e le bruciavano, la terracotta si cuoceva, mettendosi così in condizione di attraversare i millenni senza più rovinarsi. In tal modo gli archeologi scoprirono testi (o loro frammenti) che col tempo impararono a tradurre e comprendere.

E si scoprì che alcuni racconti biblici… erano già stati narrati, diversi secoli o addirittura millenni prima. Per qualche tempo alcuni eroici biblisti tentarono di dimostrare che in realtà era la Bibbia ad essere più antica… ma l’impresa era disperata.

I racconti mesopotamici erano comunque frammentari e vari, scritti in tempi diversi e incoerenti tra di loro, e non fu facile ricostruirne per intero il testo (in realtà, ancora oggi non siamo sicuri di tutti i loro dettagli), ma non era difficile accorgersi che Genesi non li copiava tali e quali, ma sembrava correggerli, ritoccarli, cambiarne il clima. Più che trascriverli, si sarebbe detto che a loro rispondesse.

In realtà è andata così…

Abbiamo già detto che non è facile ricostruire nei dettagli che cosa raccontino i frammenti di testi mesopotamici. Pare però abbastanza chiaro che gli dèi babilonesi fossero infastiditi dall’umanità. Ricorre più volte l’espressione «Il chiasso dei mortali disturbava il sonno dei celesti, e questi decisero di inviare» una volta la peste, un’altra la carestia, e poi, con l’intenzione che fosse definitivo, il diluvio. Uno degli dèi, che aveva plasmato gli umani perché lavorassero la terra al posto suo, informa allora un importante re del progetto divino, perché l’uomo potesse in qualche modo correre ai ripari.

Gli dèi mesopotamici appaiono figure capricciose e infastidite, per nulla interessate al bene degli uomini o alla tutela del bene. Chi scrive Genesi mette invece in campo un Dio che è infastidito, sì, ma dal male che vede nel mondo, dalla violenza e dalla sopraffazione, tanto che, pur decidendo di mandare la pioggia sulla terra, informa anche un giusto, Noè, perché salvi l’umanità e il creato; Dio, poi, attende che l’arca sia pronta e infine la chiude e sigilla dall’esterno, a prendersi cura dei suoi (Gen 7,16).

Sembra quasi che chi scrive la Genesi voglia correggere l’idea su Dio, che non è un annoiato e solitario sovrano dell’universo, ma il creatore a cui la vita del mondo sta a cuore; anzi, vuole proprio che sia una vita buona. Tanto è vero che alla fine del lungo racconto il Dio della Bibbia non solo non si rassegna sconsolato ad ammettere che non riuscirà più a liberarsi degli uomini, ma anzi si impegna solennemente a non voler più distruggere la vita, ponendone a segno l’arcobaleno (Gen 9,13).

Noah’s Ark on mount Ararat – Foto di Walwyn da Flickr

Il primo obiettivo di chi ha riscritto questo episodio, era di correggere l’idea su Dio che circolava tra chi raccontava il diluvio.

Ma il lungo racconto svela anche altro.

Tanti racconti insieme

Nei testi biblici troviamo spesso molte contraddizioni e incoerenze, si sa. E questo racconto non fa certo eccezione: quante coppie di animali Noè fa entrare nell’arca? Una per specie (Gen 6,19-20) oppure sette per i puri (Gen 7,2)? Quanto dura la pioggia, quaranta giorni e quaranta notti (7,12) oppure un anno (7,11)? Non si può dire che sia quasi la stessa cosa! E ancora, la fine del diluvio è verificata inviando una colomba per tre volte (8,8-12) oppure è Dio direttamente a comunicarlo (8,15-17) oppure è stato un corvo a segnalarlo (8,7)?

Nella ricerca biblica degli ultimi secoli quelle contraddizioni sono solitamente state gli appigli per distinguere strati di testo diversi, varie redazioni e così via.

C’è però un modo di costruire i testi biblici che è all’origine di moltissime di quelle incoerenze e che a noi per molto tempo è sfuggito.

Rainbow over Zion – Foto di Zion National Park da Flickr

Sappiamo che questi racconti furono probabilmente trasmessi a voce per lunghissimo tempo prima di essere messi per scritto. Come è normale, si riempirono di modifiche, adattamenti, gusti vari, che finirono col diventare differenze identificanti: un gruppo raccontava il diluvio in questo modo, un altro in quel modo diverso, e ognuno si riconosceva nel proprio racconto, percependo invece quello degli altri come un poco strano. Forse, addirittura, sbagliato.

Se fossimo stati noi a mettere mano al testo, probabilmente avremmo identificato gli elementi comuni e avremmo cercato di raccordarli con il massimo della coerenza possibile, oppure ne avremmo scelto uno, più importante e noto, e avremmo tenuto solo quello.

Ma non era questa la scelta dei redattori antichi della Bibbia.

Chi decise di mettere per scritto il racconto del diluvio, trovandosi davanti a diverse forme dello stesso racconto, ognuna collegata a un determinato luogo o gruppo, decise di inserire nella Genesi quanti più particolari possibile. Nel testo definitivo confluivano le diverse tradizioni, anche a costo di entrare in contrasto tra di loro, perché ognuno doveva ritrovare la propria versione, doveva riconoscersi “a casa”, sia pure in un racconto unico che inglobava in sé anche “case” diverse. Noi tendiamo a costruire degli ambienti comuni (in questo caso il testo scritto), lasciando che al limite ognuno si edifichi anche delle “stanze” proprie (le tradizioni non scritte, le modalità di commento…). Allora preferivano costruire un unico edificio comune, in cui le diverse “stanze” al limite venissero da concezioni diverse. Trovando il “mio” testo nell’elaborato comune, potevo riconoscere il risultato finale come affidabile, autorevole, “ispirato”, e di conseguenza ammettevo come affidabile e autorevole anche tutto il resto che in quel libro trovavo, riconoscendo valore anche alle versioni alternative alla mia.

Scrivendo la Torah – Foto di Enrique Domingo da Flickr

Si tratta insomma di una comunione fatta non per sottrazione (diciamo solo quello che abbiamo in comune) ma per addizione (diciamo tutto ciò che raccontiamo, e ognuno si abituerà a considerare accettabile anche ciò che viene dagli altri, fosse pure con qualche conseguente problema di coerenza). È uno stile di scrittura di testi religiosi, ma quindi anche uno stile di comunità religiosa. Quasi a scoprire che anche qui il risultato comunitario è ben più della somma delle singole parti. E che forse anche noi, oggi, potremmo imparare qualcosa su come gestire le comunità (non solo religiose?) nostre.

Angelo Fracchia

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