MARIA O LA CHIESA?

Picture by paweesit – Blessed Virgin Mary at St James Cathedral in Seattle Washington – From Flickr

Una battuta tra teologi ripete che bisogna sempre fare attenzione quando si parla della Madonna, perché si toccano sensibilità molto delicate: «Puoi negare l’esistenza dello Spirito Santo e nessuno ti dice niente, ma se sfiori Maria, attento, perché ti bruci!»

Eppure proprio questo vorremmo fare oggi, affrontare un paio di passi del Nuovo Testamento nei quali la tradizione ha spesso visto Maria, per scoprire che forse non è così. E per arrivare a una loro lettura più profonda e forse completa.

Una donna vestita di sole (Ap 12)

La sua immagine è nota, anche perché così è stata ritratta l’apparizione a Lourdes: una donna «vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle» (Ap 12,1). Questa donna viene identificata con Maria in quanto partorirà «un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono» (12,5). Questo figlio rapito presso Dio, che anche l’arcangelo Michele difende, scacciando il drago cattivo dal cielo (12,7-8), sembra davvero Gesù, visto nel suo volto più trascendente e definitivo. E da chi è stato partorito Gesù? Non si tratta forse di Maria?

Eppure un po’ di particolari non tornano, con questa ricostruzione. Intanto nel racconto, che resta il punto di partenza più importante. La donna fugge nel deserto dove viene nutrita per 1260 giorni (Ap 12,6), ossia «un tempo, due tempi e la metà di un tempo» (12,4), la durata precisa dell’imperfezione storica, la metà di sette tempi. Una donna che viene perseguitata dal drago, simbolo del male, scornato perché il bambino, suo obiettivo, gli è stato tolto. Donna che viene salvata dalla terra, che si apre a inghiottire il fiume lanciato contro di lei (12,15-16), e i cui discendenti, «quelli che custodiscono i comandamenti di Dio» (12,17), continueranno a essere perseguitati nella storia.

Ad aggiungere stranezza a una presentazione tanto estrema (non abbiamo notizia, nei vangeli, di persecuzioni contro Maria), si aggiunge il fatto che nei primi due secoli di cristianesimo non pare che la madre di Gesù sia stata così centrale nel culto e nel ricordo cristiano.

Sembra preferibile, in prima battuta, vedere altro in quella donna che resta sulla terra a subire la persecuzione che non può più toccare Gesù, da cui però Gesù nasce, e i cui discendenti sono coloro che custodiscono i comandamenti di Dio. Tutto nell’Apocalisse è simbolico, e probabilmente resta simbolica anche la donna che ha partorito Gesù. Non tanto la sua madre storica, quanto la comunità da cui Gesù viene, che lo ha “fatto nascere”. L’accenno, con tutta probabilità, è alla comunità credente, presto identificata con la comunità credente cristiana, quella che resta nella storia, che deve subire le persecuzioni che in realtà avrebbero come obiettivo il suo Signore, ormai irraggiungibile, ma che viene custodita da Dio nel deserto, luogo duro, arido, faticoso ma luogo in cui è Dio ad agire e nutrire.

Foto di fr Lawrence Lew OP – Queen of May

Un figlio maleducato

Non è l’unico passo in cui la madre di Gesù viene presentata in modi strani. Ma quelli che stiamo per citare sono più complessi ancora.

In due occasioni il vangelo di Giovanni ci presenta Gesù che dialoga con sua madre. In entrambi i casi, la apostrofa con un durissimo «Donna» che sembra strano a noi, ma doveva suonare ancora più inaccettabile nell’antichità, dove l’unico legame di affetto culturalmente “scontato” era quello tra una madre e i suoi figli maschi, e in primo luogo con il primogenito.

La prima delle due occasioni è alle nozze di Cana, «inizio dei segni» (Gv 2,11), ossia non solo il primo in ordine cronologico, ma anche il principio di interpretazione, il criterio con cui capire i segni, ossia i miracoli di Gesù, che secondo Giovanni non hanno solo valore in sé, ma rimandano ad altro.

Come sappiamo, a quel banchetto di nozze finisce il vino, e «la madre di Gesù» (2,3), mai chiamata per nome, glielo fa notare; lui risponde con una delle reazioni più assurde e violente che potremmo immaginarci: «Donna, che cosa abbiamo in comune io e te?» (2,4). La risposta è tanto brutale che dobbiamo rileggerla due o tre volte per crederci. La madre di Gesù non reagisce, si limita a indirizzare l’attenzione su Gesù: «Fate qualsiasi cosa vi dica» (2,5).

A quel punto il narratore spiega a che cosa servissero le anfore piene di acqua, per le abluzioni tipiche dei giudei (2,6). È un’informazione inutile, sarebbe bastato dire che c’erano delle anfore piene d’acqua. Invece si richiama l’attenzione sul fatto che siano di pietra, perché servivano per le abluzioni, quel rito tipico degli ebrei… Non sembrerebbe un dato significativo, a meno che Giovanni voglia dirci altro…

Spostiamoci un attimo alla fine della sua vicenda (dall’inizio alla fine…). Gesù è già stato crocifisso, sta per morire, e guardando sotto la croce vede «il discepolo che egli amava» (19,26). Sappiamo bene come debba trattarsi di un’indicazione simbolica. Un conto sarebbe stato dire “il discepolo che amava Gesù”, ma si può immaginare che Gesù non ami i suoi discepoli, al punto da indicarne uno come, eccezionalmente, amato? Non sembra davvero un’interpretazione sensata, tanto che, da moltissimo tempo, si ritiene quel discepolo, non chiamato per nome, come simbolo del discepolo “ideale”. Siamo chiamati a porci noi al posto di quel discepolo, senza volto, che di Gesù si fida, gli si affida, gli crede. In fondo, è la chiesa, coloro che verranno dopo di lui e si fideranno del loro Signore.

A questo discepolo si rivolge a Gesù, e a sua “madre”, di nuovo chiamata, duramente, «Donna!» (19,26). A lei Gesù affida il discepolo che lui amava. E viceversa. E da quel giorno il discepolo la prese in casa sua (19,27). Perché? Gesù si preoccupa che la madre resti sola? E da quando? Dove se ne era andato negli ultimi tre anni? Le aveva forse tenuto compagnia?

Ci rendiamo conto che una lettura ingenua ci lascia troppe domande. Ma se solo accettiamo la sfida simbolica di Giovanni (un altro che nei simboli sguazza con piacere…), possiamo lasciarci guidare dalla stessa intuizione.

Nel vangelo di Giovanni la madre di Gesù (non chiamata per nome), colei che fa lo introduce nel mondo, potrebbe facilmente essere simbolo della comunità dell’Antico Testamento, della “vecchia chiesa”, quella che vive di abluzioni e sa indicare Gesù, ma non sa bene che cosa lui farà. Quella comunità che può sentirsi rivolgere la domanda brutale «Che cosa abbiamo in comune?». Quella domanda resta senza risposta fino alla croce. Lì, quando Gesù deve lasciare il mondo (e poco dopo si dirà che “effonde lo Spirito”: 19,30), mette in relazione la comunità che da lui nascerà con quella da cui lui è venuto. La chiesa dell’Antico Testamento e quella cristiana non si identificano (restano persone diverse), ma sono chiamate a riconoscersi: quella antica si compie in quella nuova, e questa deve accogliere in casa sua quella antica. In effetti, continuiamo a leggere l’Antico Testamento con rispetto, anche quando lo capiamo poco: Gesù viene da lì.

Foto di fr Lawrence Lew OP – Queenship of the Immaculate Heart of Mary – from Flickr

Una lettura sbagliata?

Riletti così, questi brani acquisiscono un valore diverso. Ci dicono che Gesù viene da una comunità umana, come noi, che in parte non lo capisce, forse, ma con la quale anche lui dovrà continuare a fare i conti. Una comunità che ci indica Gesù come colui che dobbiamo ascoltare. Che si pone in continuità con la chiesa cristiana. Che resta nella storia, a faticare e farsi perseguitare, ma nella consapevolezza che il Signore ha già vinto la morte, e farà vincere anche i suoi.

Nel vangelo di Giovanni e nell’Apocalisse, allora, la donna da cui Gesù nasce sembra essere simbolo della comunità dei credenti. Di quella che gli sta alle spalle, innanzi tutto, ma poi anche di quella che da lui è nata.

E dunque interpretare quelle donne come Maria, sua madre biologica, è sbagliato?

Se noi fossimo soltanto rigorosi matematici, che applicano alla lettera l’unica regola giusta, dovremmo ammettere di sì. La tradizione ha sentito parlare di una donna che partorisce Gesù e ha immaginato che fosse Maria, troppo superficialmente.

Ma i testi biblici non sono trattati scientifici, assomigliano molto più spesso a poesie, dove due significati diversi non si escludono a vicenda, ma a volte si completano l’uno con l’altro.

E allora, se le donne di cui abbiamo parlato sono la comunità credente, vi si può vedere anche il volto della donna che si è aperta all’opera di Dio, pur senza capirla fino in fondo, che ha saputo donare al mondo Gesù, anche senza sapere o comprendere tutto. L’immagine ci ripete che Gesù, figlio di Dio, viene però dal mondo, dall’umanità, da noi, ci assomiglia, è nostro fratello. E nel volto accogliente di una madre siamo chiamati a recuperare l’abbraccio che ci ha fatto venire al mondo, fosse pure il mondo della fede. In Maria, quindi, non vediamo più soltanto una ragazza di Nazaret, ma il simbolo dell’affetto accogliente di Dio stesso, che si fa carne in un uomo, ma prima ancora in un popolo, in una storia, da cui lui viene.

Non una o l’altra interpretazione, ma entrambe, come in una poesia che gioca sull’ambiguità per essere ancora più significativa e profonda.

Angelo Fracchia

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