
L’ultimo libro della Bibbia cristiana è probabilmente il più frainteso. Si tratta dell’Apocalisse di san Giovanni, e porta con sé la fama di essere cupo, pessimista e minaccioso.
Ma è fama decisamente immeritata.
I gialli di duemila anni fa
Tutti noi conosciamo i gialli, che si tratti di romanzi o film. Si tratta di un genere strutturalmente ottimista, perché parte dalla idea che l’intelligenza umana riesca a battere la cattiveria. L’investigatore normalmente arriva a scoprire l’assassino sfruttando il proprio acume, capacità di ragionamento e di vedere particolari disponibili ma trascurati dai più. È il bene che batte il male. Eppure, in quasi ogni giallo c’è un morto ammazzato. Potremmo ritenere, per questo, che si tratti di un genere violento e cattivo? Indubbiamente esistono gialli che fanno leva sull’ansia e che presentano molta violenza, ma ce ne sono anche alcuni nei quali non c’è alcuna scena violenta. Anche in questi, però, l’assassinio c’è, perché altrimenti non c’è un giallo.
Nei secoli che vanno dal terzo a.C. al secondo d.C. era diffusissimo, negli ambienti religiosi ebraici, un genere letterario che a noi suona strano, quello delle apocalissi. Nascevano dalla sensazione che il mondo non camminasse sulle strade volute da Dio. E, nel chiedersi perché Dio lo permettesse, si rispondevano che se sembrava che Dio nel mondo non ci fosse, se pareva che il male vincesse sempre, era perché Dio, in realtà, aveva concesso un tempo al mondo perché si esprimesse come voleva. Chi scriveva le apocalissi dava per scontato che gli uomini, lasciati a se stessi, si sarebbero comportati male. Ma era importante che Dio concedesse loro piena libertà, per abbandonarli eventualmente al loro destino. Ed era altrettanto importante che il tempo di questa licenza fosse contato, e Dio sapeva a quanto ammontasse il totale. Come lo sapeva anche il veggente a cui questi segreti venivano svelati.
Le apocalissi erano in qualche modo simili ai gialli di oggi, in quanto prevedevano alcuni elementi obbligatori: se nei gialli è l’assassinio e l’investigatore (spesso improbabile) che arriva a risolvere il caso con l’intelligenza, nelle apocalissi erano gli enigmi, fatti di simboli in numeri, colori e oggetti, lo svelarsi del segreto a un privilegiato tramite una visione, il calcolo del numero (solitamente piccolo) di coloro che si sarebbero salvati. Una differenza si imponeva, rispetto al nostro giallo: le apocalissi erano sostanzialmente pessimiste, pensavano che il mondo, di suo, andasse verso il male, e che gli uomini fossero in grandissima parte condannati.
È questo, probabilmente, il motivo di fondo per cui un genere religioso molto diffuso conti su così pochi esempi nella Bibbia: al di là di spezzoni (mezzo libro di Daniele, mezzo di Zaccaria, un pezzettino di Geremia ed Ezechiele, un capitolo ciascuno in Matteo, Marco e Luca), l’unica apocalisse intera è l’ultimo libro del Nuovo Testamento.

Un’apocalisse… strana
E perché questa apocalisse finisce nella Bibbia? Probabilmente perché, pur muovendosi appieno dentro il genere, lo stravolge. L’apocalisse di Giovanni recupera il clima cupo, gli enigmi, i simboli… ma è profondamente ottimista. Basti notare che, quando deve calcolare il numero dei salvati, ne elenca 144000 (12, numero della perfezione, per le 12 tribù d’Israele, per 1000 che indica una moltitudine) «e poi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,4-9).
Ma ci sono altri due elementi che “stonano”, nella nostra apocalisse: quando elenca, in modo angosciante, una serie di flagelli (i sette sigilli, le sette trombe…), si ferma prima dell’ultimo per una visione rasserenante (cap. 7; 10,1-11,13; 14,1-5).
E soprattutto, all’inizio del libro, dopo una ricca parte introduttiva (i primi tre capitoli), mostra la visione del trono di Dio, e di Gesù che trionfa. Di fatto, indica subito la fine della storia. Sarebbe come se in un giallo l’autore svelasse all’inizio l’assassino, per non tenere in ansia i lettori.
Proprio su questa ricchissima “soluzione iniziale” (capp. 4-5) ci concentriamo qui.
Lo sfondo del cielo
Iniziando, può essere utile sgombrare subito il campo da un fraintendimento possibile. Ci sono letture della Bibbia che cercano di interpretarla alla lettera, come se spiegasse davvero ciò che è successo, così come è successo. Si tratta senza dubbio di una interpretazione sensata in alcuni libri e passi, ma fuori luogo in altri. D’altronde, quando raccontiamo le fiabe a un bambino, neppure lui pensa che davvero in natura lupi e agnelli e porcellini parlino; ma quello stesso bambino ascolterà la fiaba come se contenesse delle verità utili per vivere, e probabilmente ha ragione.
Non è difficile comprendere che l’Apocalisse vada letta in modo simbolico se conosciamo le altre apocalissi… o se proviamo a disegnare la seguente immagine: sul trono in cielo sta seduto uno (5,1), e in mezzo al trono, e in mezzo a ventiquattro vegliardi, e in mezzo agli animali, sta un agnello, in piedi, come immolato, con sette corni e sette occhi (5,6). Sarebbe un trono eccessivamente affollato. Oppure da intendere in senso simbolico.
Ad esempio: chi si siede su un trono, se non un re? E chi può mai essere il re del cielo (4,2)? Non può che trattarsi di Dio, o, se vogliamo, del Padre.

Attorno al trono stanno ventiquattro anziani, a loro volta seduti su troni. Significa che condividono l’autorità regale, in qualche modo rappresentano quel re che è Dio. Chi possono essere? Può aiutarci ricordare che secondo gli ebrei i libri dell’Antico Testamento sono 24 (perché non comprendono alcuni libri che, scritti solo in greco, noi includiamo, e poi contano come un libro solo i dodici profeti minori, e così i libri doppi di Samuele, di Re, delle Cronache, di Esdra e Neemia…). L’autore intende ribadire che la Bibbia ci ripresenta l’immagine di Dio, che infatti sta “al centro” dei ventiquattro vegliardi (al cuore della Bibbia c’è Dio).
Si presentano anche quattro esseri viventi. Quattro come i punti cardinali, che permettono di raggiungere tutto il mondo, ed esseri viventi, perché Dio non si vanta della propria forza o grandezza, ma si gloria dell’aver creato la vita; e sono rappresentati da un leone (la grinta, il coraggio), un vitello (la forza, la pazienza), un uomo (l’intelligenza, la superiorità) e un’aquila (lo sguardo dall’alto, l’acume). Anche essi stanno intorno al trono: anche la vita sulla terra, in tutte le sue direzioni e in tutte le sue espressioni, ha al cuore Dio.
L’agnello
Viene poi portato, nella visione, un libretto, scritto dentro e fuori (con un significato visibile e uno più interiore, entrambi significativi) ma chiuso da sette sigilli, e quindi illeggibile, non interpretabile, non comprensibile.
Mentre il veggente si dispera perché non potrà sapere che cosa c’è in quel libretto, compare il leone di Giuda (ricorda la profezia di Gen 49,9-12), il germoglio di Davide (cfr., tra gli altri, Mt 12,23), ossia chiaramente Gesù, presentato in modi stranissimi. Si dice intanto che sia al centro del trono. Potremmo spiegare che è nel cuore di Dio, nel nucleo dell’intenzione divina e della sua regalità: se voglio vedere Dio, guardo a Gesù.
Si dice anche che è al centro dei ventiquattro vegliardi (il Primo Testamento parla di Gesù: cfr. Lc 9,30-31) e al centro degli esseri viventi (al cuore della vita, che sta al cuore di Dio Padre, c’è Gesù). Si presenta come un agnello, come quella vittima mite e umile che nella notte di Pasqua impetra per i fedeli la salvezza da tutte le minacce. E questo agnello, a sua volta, ha caratteristiche uniche, che peraltro l’autore ci invita a notare, anche con mezzi non del tutto ortodossi.
Nel bel mezzo di una presentazione solennissima, infatti, infila un errore di grammatica. La lingua greca, nella quale Giovanni scrive l’Apocalissse, ha tre generi grammaticali: oltre al maschile e femminile che sono familiari a chi parla l’italiano, ha anche il neutro. “Agnello” è parola neutra, e troviamo al neutro anche “ritto in piedi” e “come immolato”, ma poi “che aveva” passa al maschile. Il lettore, arrivato qui, probabilmente pensa di essersi sbagliato e rilegge. Una volta, o anche due o tre. Alla fine, arriva alla conclusione che l’autore non sa scrivere… ma intanto, si è fermato, non ha potuto passare sopra al brano con leggerezza, e se ne ricorderà.

E si ricorderà come viene presentato l’agnello: ritto in piedi, come immolato. Come può essere ben dritto in piedi quello che sembra immolato? Come può sembrare immolato, se è in piedi? A meno che… si parli di quell’agnello che “fa pace” tra l’umano e il divino lasciandosi uccidere come Isacco ma risorgendo (alzandosi di nuovo in piedi) da morte.
Lui sarà la chiave d’interpretazione della volontà divina, colui che aprirà i sigilli e potrà far leggere il libro così ricco di parole. Guardando a Gesù capiamo come interpretare tutto il Primo Testamento, tutta la vita, tutta l’intenzione divina.
E in Gesù noi scopriamo un volto di Dio accogliente, misericordioso, mai giudicante, pronto a offrire la vita propria perché non venga meno la comunione tra Dio e gli uomini. In cielo, insomma, non ci sono porte chiuse che si aprono per pochissimi, ma portoni spalancati (Ap 4,1) per «una folla innumerevole», che nessuno potrà contare.
Di Angelo Fracchia