
Il cristianesimo viene annunciato da duemila anni, in contesti storici e culturali diversi e quindi inevitabilmente in modi diversi. Lungo il tempo, e attraversando questi ambiti sempre nuovi, i cristiani hanno continuato a chiedersi come presentare Gesù e che cosa fosse fondamentale non dimenticare, su che cosa concentrarsi.
Per questo può essere interessante volgersi alle primissime predicazioni, che sono, a loro volta, inserite in un ambiente culturale, ma restano anche più vicine all’originario, e quindi in qualche modo più autorevoli e fondamentali.
Una predicazione “arcaica”
Quella prima predicazione ci arriva dagli Atti degli Apostoli, che però sono stati scritti almeno una quarantina di anni dopo gli avvenimenti. Come possiamo fidarcene? Come possiamo pensare che il primo discorso di annuncio del Gesù risorto, attribuito a Pietro (At 2,14-36), sia stato detto così come lo leggiamo?
Sappiamo bene che non ci interessa la verità assoluta di ogni singolo particolare, ed è ovvio che nessuno potrà mai restituirci la registrazione di quelle prime parole, ma non sarebbe accettabile neppure scoprire che tutto lì è falso. Abbiamo modo di cogliere su che cosa davvero ci si concentrasse all’inizio? Qualche indizio lo abbiamo.
Ad esempio, possiamo notare che Pietro parla di Gesù come se fosse uno sconosciuto: «Gesù di Nazaret, uomo accreditato da Dio presso di voi…» (v. 22); «Questo Gesù…» (v. 32); «Quel Gesù che voi avete crocifisso…» (v. 36). Non pensa di presentarlo come “Gesù Cristo”, come fosse ben noto già a tutti. Come è ovvio che sia, presenta uno che gli interlocutori non conoscono.
Ma è ancora più significativo un altro passo: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù» (v. 32). Sembrerebbe che Pietro pensi che Gesù è diventato Signore e Cristo solo dopo che Dio, con la risurrezione, l’ha costituito tale. Lo stesso Luca, nel suo vangelo, aveva spiegato, nei primi due capitoli, che Gesù era Cristo fin dal concepimento. Ma è comprensibile che la prima comunità cristiana abbia capito nella risurrezione chi davvero Gesù era e si sia persino trovata a dire che Gesù era diventato Cristo nella risurrezione, prima di riflettere con più calma e precisione sugli avvenimenti e trovare formule teologiche più precise.
Si direbbe, insomma, che il primo discorso di Pietro sia stato scritto troppo presto; ma ciò non è verosimile, perché sicuramente Luca ha composto gli Atti dopo il suo vangelo. Possiamo allora affermare, per esprimerci meglio, che probabilmente l’autore ha voluto restituirci quella prima predicazione nel modo più vicino possibile a ciò che davvero era stato detto. A costo di essere impreciso, Luca voleva farci sentire “il profumo” dell’inizio. Non ci dà la garanzia di aver restituito davvero gli inizi, ma di certo è ciò che voleva fare.

Fondati nella Scrittura
Da dove parte, allora, Pietro?
Dalla Bibbia ebraica. Non parte dalla tomba vuota, come forse ci sarebbe venuto in mente di fare. Ma siccome sta cercando di annunciare un evento unico nella storia della religione, e siccome (evidentemente) pensa che la vicenda di Gesù abbia a che fare con la religione, ritiene opportuno partire proprio dalla religione. Noi a volte pensiamo di poter parlare di Gesù dimenticandoci del tutto dell’Antico Testamento, ma Pietro sta lì a dirci che ciò non è possibile. Gesù è cresciuto conoscendo Dio innanzi tutto nell’ascolto della Bibbia, e per capirlo non possiamo saltarla.
In particolare, Pietro utilizza tre passi. Due di questi possono forse sembrarci più o meno prevedibili: è innanzi tutto il Salmo 15, che prefigura un diletto di Dio che sarebbe stato sottratto alla morte (At 2,25-28; Sal 15,8-11). Come fosse un rabbino del suo tempo, Pietro dà per scontato che il salmo sia stato scritto da Davide e fa notare che però Davide è morto: a conferma, tutti sapevano dove fosse la sua tomba (v. 29). Siccome però Davide non parlava per fantasie proprie ma istruito da Dio, di certo quel progetto di Dio si sarebbe prima o poi compiuto. Ed ecco, dice Pietro, è oggi che si è compiuto, e con Gesù (vv. 30-33). In aggiunta, come ciliegina sulla torta, il primo degli apostoli aggiunge anche un’altra citazione di un salmo, che doveva essere stata enormemente significativa per i primi cristiani, perché ritorna in tanti autori e contesti: «Dice il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra…» (At 2,34-35; Sal 109,1), testo che lasciava intuire che si poteva continuare a venerare Dio come Padre pur ammettendo che Gesù era Dio allo stesso modo. Questo passaggio, iniziare a venerare Gesù come Dio pur riconoscendolo in rapporto con un Padre che supera anche lui, è stato sicuramente uno dei più impegnativi per i primi cristiani: ci sono arrivati sfruttando le parole della Bibbia, che li hanno aiutati a capire ciò che pure avevano visto e vissuto ma che mancavano loro le parole per descrivere.
Il primo dei brani citati da Pietro, però, potrebbe stupirci. È la visione di Gioele (Gl 3,1-5), che immagina un futuro in cui Dio avrebbe donato il suo Spirito a tutti, così che tutti potessero parlare le parole di Dio: uomini e donne, liberi e schiavi (At 2,16-21). E lo scopo di questo dono dello Spirito sarebbe stato la salvezza di tutti. I primi cristiani capiscono che il fondamento della novità che stanno vivendo è ovviamente la risurrezione di Gesù; ma la vera novità è che Dio non vuole tenersi staccato dagli uomini. Si è fatto conoscere nella vita di un uomo, che ha liberato dalla morte (orrenda per tutti gli uomini), per certificare che quell’uomo era davvero secondo il suo cuore; e poi aveva concesso a tutti, di qualunque condizione umana, di parlare per annunciarlo. Perché se Dio si dona a tutti, come aveva promesso e fatto in Gesù, e conferma che davvero Gesù è affidabile, non c’è più bisogno, per ascoltarlo, di essere liberi, o maschi, o ebrei (cfr. Col 3,11), ma davvero tutti possono capirlo, incontrarlo, annunciarlo, là dove vivono, proprio al modo in cui vivono. Insomma, quello che per Gioele era un sogno degli ultimi giorni, si è compiuto.
Prima ancora di dire che con Gesù è vinta la morte, si dice che con la risurrezione di Gesù non c’è più nessuna condizione umana che ci possa separare da Dio.

Che cosa fare?
È comprensibile che la prima reazione di chi ascolta sia chiedere: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Va comunque notato che Pietro non è partito dal fare, dalla morale, ma dall’annuncio. Più importante di ciò che siamo chiamati a fare, c’è capire la novità, intuire che qualcosa di decisivo è successo, che da quel momento le cose non potranno più essere uguali.
Poi, certo, si risponde anche alla domanda sul che cosa fare: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Noi siamo condizionati da secoli di annuncio cristiano concentrato sulla morale, e rischiamo di fraintendere. Pietro ha detto che gli ascoltatori sono cattivi e devono diventare buoni? No! Allora, perché dovrebbero tutti convertirsi? Perché in quello che lui ha annunciato c’è qualcosa di nuovo, di imprevedibile, a cui bisogna volgersi: non a caso il senso originario della parola greca che traduciamo con “convertirsi” è “cambiare pensiero”. Pensavamo di dover fare delle cose, un cammino, fatica, per arrivare a Dio; pensavamo anche che alcuni fossero a Lui più vicini, che fosse per loro meno difficile raggiungerlo. Ma Dio, nel dono dello Spirito, ci dice che vuole incontrarci, e che non mette nessuna condizione. L’unica cosa necessaria è che dobbiamo cambiare testa: smettere di pensare di doverci conquistare l’incontro con Lui, e accettare che ci sia semplicemente regalato.
A quel punto anche i peccati possono essere perdonati, con quel battesimo nel nome di Gesù che indica l’intenzione, da parte del singolo, di vivere come e con Gesù, in quell’intimità con Dio che era di Gesù e che lui promette a tutti. A quel punto possiamo ricevere il dono dello Spirito, come garanzia, caparra (cfr. 2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,12) di quell’unione con il Padre che potevamo immaginare ci fosse impedita e che invece il Figlio è venuto a rendere possibile a tutti noi, che grazie a lui diventiamo pienamente figli del Padre (Gv 17,20-21).

È una nuova apertura senza confini quella che si apre davanti a coloro che cercano Dio: «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2,39). Davanti allo Spirito di Dio non ci sono confini, non ci sono muri, non c’è nulla che giustifichi qualunque forma di pregiudizio o privilegio di uomini nei confronti di altri uomini. Per Dio non ci sono distinzioni.
Ecco perché quella che potrebbe sembrarci una semplice annotazione finale, un po’ compiaciuta, sul numero dei convertiti, presenta comunque un particolare che, stavolta, la traduzione non ci consente di apprezzare appieno: «Quel giorno furono aggiunte circa tremila persone». Il greco, però, non parla di “persone” ma di “anime”, che indubbiamente è un modo per indicare la persona, ma vista soprattutto nel suo rapporto con lo spirito, con Dio. Non importa il numero, importa che ci siano persone che entrano finalmente in rapporto intimo e autentico con Dio. Per questo viene lo Spirito, per questo Gesù ha dato la vita.
Angelo Fracchia