
Quando questo numero di “Andare” sarà fra le mani dei lettori, Papa Francesco sarà appena tornato, dal suo storico, e, in questo caso lo si può davvero dire, viaggio in Iraq, dal 5 all’8 marzo: sarà stata la prima volta di un successore di Pietro fra le comunità cristiane dove ancora si parla e prega in aramaico, un pellegrinaggio sulle orme dei martiri di oggi, che sono “più numerosi di quelli dei primi secoli”, come non ha mancato di ribadire più volte il Papa.
La Chiesa cattolica caldea, che è retta dal Primate di Babilonia cardinal Louis Raphaël I Sako, oggi conta circa 550.000 fedeli, di cui la gran parte, si dice 200.000, proprio in Iraq: o almeno questi sono i numeri che si fanno in silenzio, visto che, dopo il periodo buio del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, potrebbero essere, in realtà, molti di meno.
Percepita in passato come lontana, di frontiera, marginale e dunque destinata all’oblio, la Chiesa irachena ha, invece, un ruolo fondamentale sin dalle origini della Cristianità, che in questo territorio, oggi al centro di conflitti, si è sviluppata.
La Chiesa in Iraq è ricchissima di storia, di intrecci e di persone: conosciuta anche come Chiesa persiana, sarebbe stata fondata, secondo la tradizione, in Mesopotamia, dall’apostolo San Tommaso nel I secolo, che si sarebbe stabilito a Babilonia per ben sette anni. Nel V secolo, a seguito della divisione provocata dal Nestorianesimo, si separò da Gerusalemme, costituendosi in Chiesa ortodossa e autocefala con un proprio patriarca, introducendo, nel contempo anche una rito, detto siriaco-orientale, ed una tradizione liturgica propria.
Dopo la caduta dell’Impero persiano, i patriarchi si trasferirono prima da Ctesifonte a Baghdad e poi, nel 1.500, nel nord della Mesopotamia, dando vita al nucleo ancora oggi così forte di Cristiani.
Eppure, oggi, dopo secoli di presenza cristiana, nulla in Iraq è più come prima: il passaggio del Califfato ha cambiato tutto.
Le case segnate con la “N” rossa, N come Nazareni, Cristiani che erano il monito ad andarsene, convertirsi o morire sono un ricordo indelebile. Oltre 120mila Cristiani iracheni sono dovuti scappare nel Kurdistan per sfuggire alla crudeltà dei miliziani, mentre gli ultimi rimasti, nei primi mesi dopo la presa di Mosul e della Piana di Ninive da parte dello Stato Islamico, hanno perso tutto e spesso hanno trovato temporanea assistenza e alloggio nelle chiese, nelle scuole, all’ombra di palazzi fatiscenti o in tende di fortuna, battute dal vento e tempestate dal sole anche a 40°.
In un reportage per “La Stampa” del giugno 2015, Domenico Quirico, ritornato nelle terre dove era stato rapito nell’aprile 2013, raccontava così, con la sua prosa asciutta, un incontro con alcuni dei superstiti: “L’uomo con la faccia incavata mi domandò se avevo piacere a vedere una fotografia della sua casa perduta. Tirò fuori da una tasca un’istantanea ingiallita e macchiata e me la porse. Due bambini ridevano sullo sfondo di una casa di contadini appena ingentilita da qualche fiore. «Questo era l’anno scorso… Uno dei due è morto», e sorrise come se dicesse una cosa gentile e buona. «Oh, ma in un paese cristiano», aggiunse dolcemente. Anche se questo ormai non ha più molta importanza. Gli porsi una bottiglia d’acqua che avevo con me: «Su, bevete… Ricordate come era, qui, prima… prima che venissero gli islamisti del califfato?». «Sì, come non potrei? Come era felice, allora…». «Davvero? Ne siete certo?». «Avevamo almeno… Dio».
Qaraqosh è stato a lungo il centro cristiano più importante della piana di Ninive ed una delle città dove si è attesa con grande ansia l’arrivo del Papa.

Nell’estate del 2014 l’Isis l’ha invasa, distruggendo le case e devastando i luoghi di culto: migliaia di uomini, donne e bambini hanno dovuto abbandonare in tutta fretta le loro abitazioni. A fine di quello stesso anno, due chiese di Qaraqosh, Bahnam Wa Sara e Al Kiama, sono state trasformate in prigioni e camere di tortura proprio nei confronti dei Caldei. La cittadina è stata liberata dal giogo jihadista due anni più tardi, nel 2016, ma al rientro le famiglie hanno trovato i segni dei saccheggi e delle devastazioni: gli uomini del “Califfato” avevano bruciato o depredato la gran parte del patrimonio culturale e letterario.
Proprio qui, tuttavia, a metà gennaio, è stata celebrata la posa, più che mai significativa, di una statua della Madonna sul campanile, raso al suolo durante i bombardamenti, della chiesa siro-cattolica della Vergine Maria, fra i più cari ai Cristiani. Distrutta durante il periodo dell’occupazione dai miliziani dello Stato islamico che l’avevano incendiata, devastando tutti i simboli cristiani presenti all’interno, la chiesa è tornata ad essere ora un centro di speranza per molti ed è stata una delle località nel programma della visita papale.
Ci sono anche altri segnali di speranza, come il Centro di Speranza di Alqosh, piccola cittadina situata a circa 50 Km a nord di Mosul, dove pure i segni evidenti della devastazione lasciata da Daesh ancora si percepiscono guardando le pareti con su incise in arabo le parole “Terra del Califfato…”.
Tuttavia, oggi 200 famiglie cristiane si preparano per tornare proprio nella zona di Mosul (che, prima della caduta di Saddam Hussein, nel 2003, contava circa 45.000 cristiani), da cui sono fuggite in quel drammatico 2014, grazie anche ad un’associazione di volontariato locale che ha rimosso le macerie dall’interno di una chiesa, quale monito affinché i Cristiani, che qui hanno scritto, insieme ai musulmani, un pezzo di storia, possano ritornare.
Quale sarà il futuro dei Cristiani in Iraq? Difficile dirlo, ma molto dipenderà anche da quanto potrà influire il messaggio di pace di Papa Francesco: citando le parole del patriarca caldeo Louis Raphaël I Sako: “Secondo me Lui ci porterà due cose: conforto e speranza, che finora ci sono stati negati… È un evento molto importante per noi cristiani, ma tutti in Iraq aspettano questo incontro, anche i musulmani, altre realtà religiose e i vertici di governo…”.
di FABRIZIO GAUDIO