
Da più parti è stato affermato che la visita di Francesco in Iraq, suo 33o viaggio apostolico, sarebbe la più importante del suo Pontificato. Di certo incalcolabile ne è la portata storica, insieme a quella che è stata definita ‘geopolitica della prossimità’, ragione ultima di tutti i viaggi papali. Lo stesso Pontefice ha ribadito di aver preparato questo viaggio, insieme ai suoi collaboratori e interlocutori, attraverso una lunga riflessione, nella preghiera e in costante discernimento: ha voluto ardentemente farsi presenza in mezzo a un popolo segnato in profondità da violenza, morte e distruzione, “un dovere verso una terra martoriata da tanti anni”. Da qui le sentite espressioni del Presidente della Repubblica al momento dell’arrivo del Papa: “gli iracheni esprimono la loro fierezza per la sua presenza, Santità, nonostante le raccomandazioni di posticipare la visita a motivo dell’epidemia, e malgrado le condizioni difficili che il nostro Paese ferito sta attraversando. Superare tutte queste circostanze raddoppia in realtà il valore della visita nella considerazione degli iracheni”. Papa Francesco spiega di essere venuto come “pellegrino penitente per implorare dal Signore perdono e riconciliazione”, “per chiedere a Dio la consolazione dei cuori e la guarigione delle ferite”, col desiderio di entrare in dialogo con tutto il popolo iracheno, come la scelta delle tappe e dei luoghi del programma ha chiaramente rivelato. Ecco allora che il primo discorso ufficiale di Papa Bergoglio è rivolto proprio alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico, riuniti nel palazzo presidenziale a Baghdad, dove risuona l’accorato appello: “Tacciano le armi! Se ne limiti la diffusione, qui e ovunque! Cessino gli interessi di parte, che si disinteressano della popolazione locale. Si dia voce ai costruttori, agli artigiani della pace! Ai piccoli, ai poveri, alla gente semplice, che vuole vivere, lavorare, pregare in pace”. E citando il Documento sulla Fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi nel 2019, il Papa chiede di camminare insieme, come fratelli e sorelle, nella “forte convinzione che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace, della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune”, e che “il nome di Dio non può essere usato per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione”, riproponendo così pure il cuore dell’Enciclica Fratelli tutti, ovvero la necessità di una fraternità integrale, di un riconoscimento dell’altro come fratello che precede ogni punto di vista politico o religioso.

Sempre nella capitale, dal palazzo presidenziale Francesco si sposta nella cattedrale siro-cattolica di N. S. della Salvezza per l’abbraccio con i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i seminaristi e i catechisti. Teatro di due sanguinosi attacchi terroristici, la chiesa oggi ricostruita conserva, incisi, i nomi dei 48 martiri cristiani uccisi nel 2010, dei quali è in corso la causa di beatificazione: “possa il ricordo del loro sacrificio ispirarci a rinnovare la nostra fiducia nella forza della Croce e del suo messaggio salvifico di perdono, riconciliazione e rinascita”. Rivolgendosi ai cristiani iracheni, che hanno “testimoniato la fede in Gesù in mezzo a prove durissime”, il Papa si dice “onorato di incontrare una Chiesa martire” e ringrazia per la forza della loro testimonianza.
Il secondo giorno della visita è interamente dedicato al dialogo interreligioso. A Najaf, città santa sciita, ha sede un seminario religioso fondato mille anni fa per studiosi musulmani sciiti che vengono qui per approfondire gli studi classici, con particolare attenzione al dialogo interreligioso. Qui il Pontefice incontra in visita privata il grande ayatollah Ali al-Sistani, considerato l’equivalente di un papa dagli sciiti di tutto il mondo. Un lungo e sobrio dialogo, quello tra i due anziani leader, nel segno della cortesia e della stima reciproca, con un’eco grandissima per l’alto valore effettivo e simbolico dell’evento: al-Sistani si è sempre pronunciato a favore di una convivenza pacifica all’interno dell’Iraq, affermando che tutti i gruppi etnici e religiosi sono parte del Paese. Piena sintonia, dunque, in direzione della costruzione di questa fraternità tanto auspicata fra cristiani e musulmani. Altamente significativo anche l’incontro con gli altri leader religiosi, riuniti emblematicamente nella Piana di Ur dei Caldei, patria di Abramo, dove i discendenti spirituali di Isacco e di Ismaele sono tornati a incontrarsi dopo millenni di separazione. Grazie a tale prospettiva universale, questa volta le religioni non sono apparse bandiere identitarie che dividono, ma forza che unisce, che abbatte i muri. La vera fede, infatti, è il riconoscimento di aver bisogno dell’Altro per esistere, è andare incontro all’altro nella rinuncia a ogni affermazione di primato, per essere e sentirsi figli di uno stesso padre: dove non prevale l’io, dove non si esalta il primato dei ‘miei’ o dei ‘nostri’, lì comincia la pace, “perché le alleanze degli uni contro gli altri aumentano solo le divisioni”; non “vincitori né vinti, dunque, ma fratelli e sorelle che, nonostante le incomprensioni e le ferite del passato, camminino dal conflitto all’unità”, ha detto Francesco. Toccanti i racconti dei testimoni che stanno già cambiando la storia con la forza disarmata dell’amore: Rafah Hussein Baher, donna irachena di religione sabeo-mandea, che ha visto figli e fratelli fuggire dal Paese sconvolto dalla violenza e dal terrorismo, che ha dichiarato a Papa Francesco: “per la forza del motto della sua visita – Siete tutti fratelli – dichiaro qui che resterò nella terra dei miei antenati”; Davide e Hasan, due ragazzi, uno cristiano l’altro musulmano, compagni di studi e amici, che per sostenere le spese scolastiche hanno affittato insieme un negozio di vestiti, al Papa dicono: “Vorremmo che molti altri iracheni facessero la stessa esperienza”; e ancora il ricordo di Najay, uomo di religione sabeo-mandea, che ha perso la vita per salvare quella del suo vicino musulmano. Intanto, quella stessa sera, durante la Messa nella cattedrale caldea a Baghdad, risuona il brano delle Beatitudini, che sembrano parlare di una sconfitta ma in realtà descrivono la vittoria della forza umile dell’amore. La pluralità “religiosa, culturale ed etnica, come quella che ha caratterizzato la società irachena per millenni, è una preziosa risorsa cui attingere, non un ostacolo da eliminare”, è stato affermato.

L’ultima giornata è stata contraddistinta, invece, dall’appuntamento con alcune tra le città più cristiane del Paese, nel Kurdistan iracheno: Mosul, città martire, capitale dell’ISIS negli anni bui del Califfato, dove però, durante la preghiera per tutte le vittime della guerra, è risuonato alto l’appello da parte del Pontefice al perdono necessario per rimanere cristiani; e poi Qaraqosh, la cui cattedrale siro-cattolica dell’Immacolata Concezione è simbolo di speranza e ricostruzione, dopo essere stata base di addestramento del Daesh e aver visto migliaia di famiglie abbandonare le loro case di fronte alla furia del fanatismo. Il successore di Pietro è, sì, venuto a confermare nella fede queste comunità, ma anche ad esserne a sua volta confermato dalla loro testimonianza fino all’effusione del sangue. Ultimo appuntamento, l’unico con partecipazione di folla, la Messa nello stadio della città di Erbil, quella dove tanti hanno trovato rifugio scappando dai terroristi jihadisti: 10 mila persone si stringono come in un abbraccio intorno a Francesco. La statua di Maria profanata, ‘ferita’, incensata dal Papa durante la celebrazione, ricorda che la guerra, il terrorismo, l’odio, hanno lasciato ferite profonde nei cuori, non soltanto macerie, ma che la chiesa dell’Iraq è presente e viva!