
Come incontrare Dio? È domanda che tante persone si fanno in modo esplicito, e altre hanno dentro pur senza pronunciarla apertamente.
Nelle tradizioni religiose si danno molte forme di risposta a questa domanda: c’è chi cerca Dio nella tradizione («Si è sempre fatto così, Dio lo vuole»), chi in fenomeni straordinari (oracoli, visioni, possessione da parte di forze extraumane), chi in codici orali o scritti di “leggi” in cui si ritroverebbe il volere divino. Quest’ultimo mezzo ci suona più familiare, almeno per le tradizioni cristiane, ebraiche e musulmane, ma per chi si rifà alla Bibbia andrebbe in realtà precisato, perché ciò che troviamo nella scrittura non è semplicemente la volontà di Dio, bensì il suo volere così come è stato interpretato, vissuto e sperimentato da tante diverse persone. Più che la “parola di Dio” in senso proprio (Dio che detta e gli altri che scrivono), nella Bibbia troviamo la “parola di Dio in parole umane”, il modo con cui gli umani hanno testimoniato il proprio incontro con Dio.
E quell’incontro ha delle caratteristiche chiare, nel mondo ebraico e cristiano: non si dà mai senza una compartecipazione umana (dunque niente oracoli automatici, segni naturali o simili). Siamo tuttavia ancora molto in superficie e, soprattutto, nel vago, tanto che la tradizione del Primo Testamento arriva a concretizzare l’incontro di Dio, per tutti i credenti “normali”, in tre mediazioni: quella regale, quella profetica e quella sacerdotale. I re indicano che cosa fare nel mondo, come muoversi sulle vie di Dio, sono l’elemento più concreto, ma a loro volta sono di solito formati dai profeti e dai sacerdoti. Qui ci concentriamo sulla mediazione profetica.
Contesto storico e originalità ebraica
La figura dei profeti non è esclusiva del mondo ebraico, che anzi la condivide con tante tradizioni umane, comprese quelle tra le quali gli ebrei hanno vissuto e sono cresciuti, e dalle quali quindi possono anche aver copiato almeno alcune suggestioni ed idee.
Nella zona del Vicino Oriente, infatti, era diffusa l’idea che Dio parlasse in modo più diretto ad alcune persone, che diventavano tuttavia profeti per decisione personale, entrando in gruppi o scuole, imparando i trucchi del mestiere, ma a volte anche ereditando l’attività dal padre e addirittura facendosi “assumere” a corte dai re, che chiedevano loro consiglio. Anche nella Bibbia ne troviamo esempi (1 Re 22,6-13), ma praticamente spariscono di fronte alla figura più consueta e diffusa, che è quella di un profeta “senza ragioni”, chiamato da Dio liberamente, senza alcuna scelta o formazione (cfr. la spiegazione della vocazione di Amos, in Am 7,12-16). Possono essere profeti persone anziane o giovani, gente di città o di campagna, anche delle donne (Maria, sorella di Aronne; Debora: Gdc 4-5; Culda: 2 Re 22,14; Noadia, che forse è una falsa profetessa, anche se non ne siamo sicuri: Ne 6,14).
Il profeta biblico è una persona che, senza motivi decisivi, riceve un’intuizione diretta da Dio, e la deve comunicare. Il punto è che pretesa del profeta è di lasciare esprimere semplicemente il pensiero di Dio, il suo cuore, senza giustificare il proprio messaggio con argomentazioni logiche o rimandi alla Bibbia, ma solo con il fatto che Dio gli ha parlato. Non è un caso che, secondo molti, con il profetismo nasce anche l’idea della centralità dell’individuo, del singolo che prende posizione; perché il profeta non rappresenta più, di per sé, una comunità di cui sarebbe solo un portavoce, ma spiega che cosa lui, in prima persona e senza possibilità di controllo, ha sentito da Dio. O dice di aver sentito.

Veri e falsi profeti
È chiaro che si finisce subito nel dilemma della affidabilità dei profeti. Dal momento che non c’è controllo, chi mi dice che il profeta abbia detto quello che ha sentito da Dio e non si sia semplicemente inventato tutto?
C’è un passo della legge che prova a mettere ordine, ed è Dt 18,9-22, dove si spiega che perché un profeta sia riconosciuto come autentico bisogna che sia israelita, che pensi di non esprimere le proprie idee ma quelle di Dio, che compia miracoli (anche se la maggior parte dei profeti, a dire il vero, non ne fa), che annunci temi coerenti con il resto della rivelazione e che preveda sviluppi futuri che poi si compiano.
Quest’ultimo aspetto è il più delicato. Per noi, spesso, “profeta” è uno che predice il futuro. Ma questa previsione di ciò che ancora non è successo non è di fatto il cuore del messaggio dei profeti, che preannunciano gli sviluppi della storia, è vero, ma quasi sempre in senso generico. Ad esempio: siccome è solo Dio a garantire la sopravvivenza di un popolo piccolo e debole come quello ebraico, se gli ebrei abbandoneranno Dio non potranno che essere dispersi… È come il genitore che avvisa il figlio che se continua ad andare in bicicletta in modo tanto spericolato, cadrà e si farà male.
Questo ultimo aspetto di verifica, che potrebbe sembrare il più preciso e meno sfuggente, è tuttavia difficile da applicare, perché io dovrei aspettare che la storia abbia dato i suoi verdetti, ma a quel punto il messaggio del profeta è ormai vecchio e inutile.
Cogliamo allora che il ministero del profeta ha qualcosa di originale. Per seguire la mediazione regale o sacerdotale basta ubbidire; ma per ascoltare un profeta, bisogna provare a intuire se è affidabile, ossia se davvero Dio, per come lo conosciamo, potrebbe aver lasciato quel messaggio, che in parte è nuovo. Vale a dire che i profeti stimolano gli ascoltatori a diventare a loro volta profeti, per vagliarne il messaggio e decidere se accoglierlo o no.
Il profeta stimola l’intelligenza, il discernimento e la fiducia. Perché in ultimo del messaggio di un profeta mi dovrò fidare. Certo, prima dovrò averlo vagliato, non a occhi chiusi e ciecamente, ma alla fine dovrò decidere se crederci o no. Esattamente come nelle relazioni umane importanti, che certamente metterò alla prova, ma di cui poi dovrò decidere se fidarmi (lasciando così che la relazione cresca in importanza e intimità) oppure no (condannando la relazione a morire o a restare superficiale). Perché il profeta non stimola innanzitutto ubbidienza (come il re) o sicurezza (come il sacerdote), ma relazione e legame personale.

Gesù profeta
Tra le tre modalità di mediazione tra Dio e l’uomo, di certo è questa che Gesù recupera con più intensità e forza. Viene da un villaggio senza tradizioni importanti (Nazaret non è mai citata nel Primo Testamento), non ha fatto studi particolari, non è cresciuto a corte, ma «parla con autorità, non come gli scribi» (Mt 7,29), perché non dispiega il suo messaggio a partire dalle prove trovate su libri biblici, ma semplicemente annuncia ciò di cui è convinto, che dice di aver ricevuto dal “Padre”. È un personaggio pubblico, che si muove in un contesto religioso, ma non ascolta le indicazioni del sinedrio, frequenta il tempio di Gerusalemme ma non offre mai dei sacrifici, viene affascinato da un rito come quello del Battista, che riprende modalità religiose “antiche” (con l’idea di una purificazione rituale, dopo aver cambiato vita) che non passano però dalle forme normate dalla legge e che si tenevano nel tempio. È un Gesù che racconta parabole, che non sono indicazioni precise sul che cosa fare o perché, ma mettono in movimento il pensiero, per capire che cosa volesse dire e poi per decidere, quindi, come cambiare il comportamento.
Non è un caso che quando Gesù chiede ai discepoli «La gente, chi dice che io sia?» (Mc 8,27-28), riceve tre possibili risposte che vanno tutte in direzione profetica: «Alcuni Giovanni Battista (che si vestiva e cibava da profeta e aveva fatto gesti profetici), altri Elia (il primo profeta, per certi versi il modello di tutti quelli che lo seguono), altri ancora uno degli antichi profeti».

I battezzati come profeti
Chi si riconosce in Gesù ritiene che lui sia il modello strutturale di vita (ossia, è ovvio che non possiamo copiarlo in tutto, non possiamo vivere in Galilea e discutere con i farisei… ma il modo più profondo in cui lui ha vissuto è il modello ideale per tutti i credenti in lui). Vuol dire che i fedeli in Gesù sono chiamati a essere anche profeti, autorizzati e capaci di chiedersi “Che cosa farebbe Dio al mio posto?”. Se vogliamo, è ciò che aveva intuito o sognato Gioele in 3,1-5, dove immaginava che tutti avrebbero profetizzato, giovani e vecchi, uomini e donne: tutti, cioè, avrebbero provato a pensare come Dio, e comportarsi di conseguenza.
Non c’è però in questo modo il rischio di “inventarsi Dio”? Il rischio ovviamente esiste, ed è quello di scambiare le nostre fantasie con intuizioni divine. Per i cristiani è più chiaro che anche a questo livello interviene la comunità, con la sua capacità di mettere insieme voci e sensibilità diverse e quindi anche di vagliare insieme le intuizioni: «Nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione» (2 Pt 1,20-21), ossia non vale solo per me, non parla solo di o a me me, ma è indirizzata a una comunità intera, dimensione di cui devo tenere conto quando provo a interpretarla. C’è insomma il rischio di esagerare, attribuendo troppo spazio a queste intuizioni; ma, dall’altra parte, resta anche l’appello a non spegnere lo Spirito, a non disprezzare le profezie (1 Ts 5,19-20), che sarebbe un pericolo anche peggiore.
Angelo Fracchia