DIMENSIONE REGALE DELLA VITA CREDENTE

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C’è un tema che percorre tutta la Bibbia, anche se per lo più non è citato in modo esplicito e potrebbe sfuggire ad una lettura superficiale, ed è il dialogo tra l’uomo e Dio. È il cuore del Primo Testamento ed è addirittura la persona centrale del Nuovo Testamento.

Ma se nel Nuovo Testamento tutto si fa più “semplice”, il discorso resta più affascinante, perché a volte anche più balbettato, proprio nel Primo.

Si coglie infatti che questo tema centrale, del dialogo tra Dio e uomo, non può darsi se non tramite persone umane. Non è un’intuizione scontata o banale: ci sono tradizioni religiose che pensavano che le divinità parlassero tramite oracoli, segni della natura, leggi naturali, senza insomma bisogno di uomini che fungessero da intermediari; altre che passano da intermediari che vanno in trance, fuori dalla umanità. Il Primo Testamento coglie che non è così, e che Dio si offre sempre dentro a relazioni umane, e mentre quegli uomini e quelle donne sanno che cosa fanno, consapevolmente.

Queste relazioni, in particolare, si raccolgono intorno a tre “strutture”, tre “figure simboliche” che dicono ognuna qualcosa di questa rapporto: la figura regale, profetica e sacerdotale. Per ognuna di esse i cristiani coglieranno che Gesù le porta a compimento, e riterranno che anzi siano incarnate da ogni singolo battezzato. Insomma, mentre noi studiamo queste mediazioni antiche, finiamo con il parlare anche di noi.

Si potrebbe indifferentemente partire da una qualunque delle mediazioni: se riprendiamo questo ordine, è soprattutto in ossequio alla tradizione.

Le premesse nella storia

Nelle società antiche il re è colui che ha il compito di orientare la vita del proprio popolo: è lui che stabilisce le leggi, che sceglie le alleanze e le strategie e che quindi decide in che direzione debba andare la propria gente, che lui rappresenta. Un re che cammini secondo le vie di Dio offrirà norme che vadano in quella direzione, le farà rispettare e sarà di guida con il proprio comando ed esempio.

In Oriente la regalità era una struttura antichissima, che inevitabilmente si era sviluppata a un certo punto anche come un potere oppressivo, in termine di corvé di lavoro, di tasse, di servizio militare. Anche per questo, già dagli imperi dal xviii al xiii sec. a.C. in Mesopotamia, era stata introdotta l’immagine, un po’ propagandistica, di un re che si presentava come un grande padre che si sarebbe preso cura soprattutto dei più deboli. Siccome il cavallo, animale più veloce e forte ma anche più fragile, che necessita di maggiore quantità e qualità di cibo, era collegato da secoli alla forza militare, il re si presentava a dorso d’asina, di un animale meno esigente, più lento ma tenace, quell’animale che era presente nella stalla di tanti contadini… A questa scelta di propaganda si accompagnavano altri gesti coerenti: all’intronizzazione il re decretava la remissione di tutti i debiti e l’amnistia per i carcerati (solitamente si andava in prigione solo per debiti), insieme a banchetti pubblici, a beneficio gratuito soprattutto dei più poveri.

Se la tradizione dell’intronizzazione a dorso d’asino tenderà a perdersi (quando Gesù la recupera, fa un gesto in un certo senso arcaico), resterà in oriente l’abitudine che quando sale al trono un nuovo re si aprono le carceri e si condonano i debiti. La proclamazione dell’ascesa al trono di un re era annunciata da un araldo e definita “vangelo”, parola che sarà ripresa da Marco per definire la propria opera su Gesù, quasi annunciasse una simile intronizzazione regia, con tutti i benefici di liberazione e festa per i poveri.

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Le promesse della storia…

In Israele si mantiene e difende (magari con un po’ di propaganda anche qui…) l’idea che il primo re “approvato” (Davide, dopo l’esperimento fallito di Saul: 2 Sam 7) sia il fondatore di una dinastia perenne, i cui rappresentanti dovranno essere innanzitutto difensori dei deboli (2 Sam 1; 19,1-9; 1 Re 3,16ss.; Sal 72) e guide del popolo (Gdc 21,25; 2 Sam 5,2; Sal 101).

Davide viene presentato come re deciso e forte, ma capace di lasciarsi umiliare quando suo figlio si ribellerà contro di lui (2 Sam 16), pronto a piangere la morte dei suoi nemici (2 Sam 1,17-27; 2 Sam 19).

Suo figlio, Salomone, si dimostrerà re saggio, capace di prendere posizione per il bene della gente, anche per persone povere e insignificanti come delle prostitute (1 Re 3).

Dopo di loro, una lunga dinastia, tra alti e bassi, attraverserà i secoli. Ma più questi passano, più si susseguono re affidabili e buoni, e altri molto più discutibili. Soprattutto, diventa sempre più chiaro che le promesse di un incontro tra Dio e l’umanità che si dia in una figura regale restano non adeguate da nessuna figura umana. L’ideale divino è sempre un po’ più in là di ciò che gli uomini riescono a realizzare.

Un giorno, poi, la dinastia fallisce (2 Sam 11; 1 Re 11), Gerusalemme cade e il tempio viene distrutto (1 Re 17; 25). Il re in carica viene accolto alla corte dell’imperatore di Babilonia, ma senza più speranza di ricostruzione dell’autonomia statale. Come pensare quelle promesse antiche?

… e le promesse rilanciate

Ebbene, di fronte al fallimento regio, saranno i profeti a rilanciare la promessa: sarà Dio stesso a prendersi l’incarico di sostituire questi re con un inviato celeste (Is 7,14-15; Mi 4,14 ss.; Ag 2,23; Sal 96; 99; 121; 124), un pastore buono (Zc 11; Ez 34) che in diversi testi sembra diventare Dio stesso (Sal 23; Ez 34,11-17).

Su questa base prende forza l’idea di un “messia” (che significa “unto”, come venivano unti, tra gli altri, all’inizio del loro incarico, i nuovi re) che resta di profilo incerto, perché qualcuno aspetta più un re militare, altri un re buono e quasi divino, altri ancora una figura sovrumana… ma per tutti c’è l’idea che Dio si prenderà carico delle promesse della storia per renderle finalmente adeguate, per offrire all’umanità quella prospettiva di incontro sereno e intimo che all’umanità aveva promesso. Siccome la storia non era stata all’altezza delle promesse, Dio non se le rimangia, ma le rilancia.

Il compimento in Gesù

Gli autori del Nuovo Testamento vedono un Gesù che interviene a restituire all’umanità tutti coloro che le malattie, i condizionamenti sociali o quelli religiosi escludono dalla comunione con gli altri, mettendosi cioè a servizio di quella armonia con Dio e tra gli uomini che era stata sognata già nel Primo Testamento. Un Gesù che sostiene di avere in mano ogni cosa (Gv 3,35) e che si permette di correggere le leggi della Bibbia stessa (Mt 5-7). Insomma un Gesù che si comporta da re, anche se si mette al servizio degli altri. Un Gesù che viene schernito come re alla passione (la corona di spine, la canna in mano, quasi fosse uno scettro, il mantello di porpora, la scritta in cima alla croce…) ma non si fa salvare dalle schiere dei suoi angeli. Insomma proprio quel re che non pensa a sé ma al suo gregge.

È su questa base che almeno due evangelisti cercano di suggerire di vedere in Gesù questa dimensione regale. E lo fanno al modo antico. Noi avremmo messo una nota a margine, o una spiegazione in fondo. Ma gli antichi narrano, e vogliono che le interpretazioni siano dette narrando. Ecco che Matteo e Luca, in modi diversi, fanno nascere Gesù nella città di Betlemme, marginale e insignificante se non fosse stato per il fatto di aver dato i natali a Davide, il grande re, quello che resta il modello del re ideale.

Christ the King Mosaic – St Paul Cathedral – Photo by fr Lawrence Lew – OP -from Flickr

Che si tratti in qualche modo di una “invenzione” letteraria è dimostrato dal fatto che, evidentemente, i due evangelisti non si mettono d’accordo. Per Luca Giuseppe e Maria sono di Nazaret e lì torneranno a vivere, ma devono andare a Betlemme per registrarsi a un censimento “di tutta la terra” che in realtà su tutta la terra non ci fu, mentre quando i romani indicevano dei censimenti lo facevano per ragioni fiscali e militari, per cui avevano tutto l’interesse che ognuno si registrasse proprio là dove viveva e lavorava. Insomma, sembrerebbe una trovata perfettibile. Secondo Matteo, invece, Giuseppe e Maria sono di Betlemme ma fuggono per evitare la persecuzione di Erode e poi si rifugiano in un’altra regione perché hanno paura del fatto che a Betlemme abbia iniziato a regnare un figlio dell’Erode persecutore: non fosse che a Nazaret, dove si trasferiscono, regna un altro figlio di Erode, e Gesù sarà conosciuto per tutta la vita come “quello di Nazaret”. Come sappiamo, nelle società contadine i nuovi immigrati restano “forestieri” per generazioni. Da una parte, insomma, entrambe le spiegazioni sembrano zoppicanti. Ma insieme ci dicono esattamente che i due evangelisti volevano legare Gesù a Davide, perché i lettori cogliessero, nella vita di Gesù, quella dimensione regale che pensavano fosse autentica.

I cristiani sono invitati a inserirsi in questa dinamica, pronti a orientare la storia perché assomigli sempre di più a quel luogo di comunione con Dio e tra gli uomini che Dio ha sognato fin dall’inizio.

Angelo Fracchia

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