
La pandemia nel territorio amazzonico.
“Invochiamo lo Spirito Santo perché dia luce e forza alla Chiesa e alla società in Amazzonia, duramente provata dalla pandemia. Tanti sono i contagiati e i defunti, anche tra i popoli indigeni, particolarmente vulnerabili. Per intercessione di Maria, Madre dell’Amazzonia, prego per i più poveri e i più indifesi di quella cara Regione, ma anche per quelli di tutto il mondo, e faccio appello affinché non manchi a nessuno l’assistenza sanitaria. Curare le persone, non risparmiare per l’economia. Curare le persone, che sono più importanti dell’economia. Noi persone siamo tempio dello Spirito Santo, l’economia no”. Il giorno di Pentecoste, al termine del Regina Coeli, Papa Francesco ha voluto rivolgere un pensiero speciale ai popoli dell’Amazzonia, flagellati dalla pandemia. Una scelta coraggiosa e profetica. Le genti della selva e soprattutto i nativi sono tra le vittime più vulnerabili di fronte al Covid 19. Per due ragioni. Primo, la cronica fragilità del sistema sanitario amazzonico, frutto del disinteresse dei governi. A questo si somma la corta memoria immunitaria dei nativi che li rende facile preda dei virus. Risulta, dunque, comprensibile perché la mortalità del coronavirus fra gli Indios sia il doppio rispetto al resto della popolazione – 12,6 contro 6,4 per cento –, secondo l’Associazione dei popoli indigeni brasiliani (Apib). Nelle regioni amazzoniche, il Covid ha ucciso tredici volte di più rispetto al resto del Gigante del sud.
Il virus è arrivato prima nelle metropoli dei nove Paesi amazzonici: la peruviana Iquitos e le brasiliane Belém, Parintins e Manaus. Seguendo il corso del “Grande fiume” si è, però, propagato all’interno trasformando il Rio delle Amazzoni nell’“autostrada del contagio”. Delle venti città brasiliane con più contagiati e morti ogni centomila abitanti, 14 sono sulle rive del Grande fiume. Lo Stato di Amazonas ha avuto il tasso più alto di mortalità nazionale a causa del sovraffollamento dei quattro ospedali. Anche se, il più delle volte, malati e morti nella foresta non rientrano nelle statistiche. Il Brasile ha fatto una media di 7.500 test ogni milione di abitanti, dieci volte in meno rispetto agli Usa. Il rischio di “contagi nascosti” aumenta man mano che il virus si sposta dalle metropoli all’interno. Ad essere minacciate sono state soprattutto le periferie, geografiche e sociali. E i più periferici di tutti: gli indigeni. Ben 127 popoli, su 390, sono stati colpiti. Se non va peggio è perché, di fronte all’inerzia dei governi, sono le stesse comunità ad organizzarsi per isolarsi dai visitatori esterni. Eppure, nonostante questo, il Covid ha raggiunto le regioni dell’Alto e Medio Solimões e del Rio Negro, oltre agli Stati di Roraima, Mato Grosso, Mato Grosso do Sul, Pará, Maranhão, Ceará e Pernanbuco. Ha infettato perfino Atalaia do Norte, porta d’accesso alla Vale do Javarí, casa di sette etnie e di 15 popoli in isolamento volontario, il numero più alto del pianeta.

“Le cifre dei morti non sono numeri, sono storie di vita. Vite la cui perdita ha un impatto fortissimo sulle comunità. Dovremmo fermarci a pensare che cosa rappresenta per loro veder morire i propri anziani, custodi del sapere ancestrale. E i loro professori, che tanto sacrificio è costato formare e rappresentano il ponte tra la cultura tradizionale e i valori occidentali”, raccontano María Eugenia Lloris Aguado, missionaria della Fraternità del Verbum Dei e Raimunda Paixao, laica nativa. Entrambe sono parte dell’Équipe itinerante, una delle poche realtà a visitare i minuscoli villaggi indigeni disseminati lungo il corso del “Grande fiume”. E stanno constatando con i loro occhi l’incremento della diffusione. “Gli infettati crescono di giorno in giorno. La maggior parte, però, ha paura di andare in ospedale e muore nei villaggi”, conferma dom Edson Damian, vescovo di São Gabriel da Cachoeira.
Intere etnie rischiano di essere spazzate via. Come gli Arara dello Xingu, 121 in tutto, il 46 per cento infettato dal coronavirus, secondo “Survival international”. A preoccupare soprattutto è l’avanzata dei cacciatori di risorse – legname, oro, minerali, terra – che approfittano della pandemia per guadagnare terreno. Il popolo Yanomami – 27mila persone – ha lanciato una campagna per cacciare dalla propria terra, tra Brasile e Venezuela, 20mila minatori illegali. Secondo l’“Instituto socio–ambiental”, a causa di questi ultimi, la xawara, come gli Yanomami chiamano l’epidemia, rischia di colpirne ben 5.600, il 40 per cento del totale. Con conseguenze tragiche, dato che le loro comunità sono distanti tre ore d’aereo da Boa Vista, capoluogo del Roraima e unico luogo dove sono disponibili i respiratori, irraggiungibile via fiume o terra. Eppure, finora, il governo del negazionista Jair Bolsonaro ha fatto ben poco per proteggerle. “Un genocidio per omissione, di fronte al quale il resto del mondo non può distogliere lo sguardo”, ha denunciato Mauricio López, segretario esecutivo di Repam. “Esigiamo che le autorità si facciano carico della responsabilità, prevista dalla Costituzione, di tutelare i popoli indigeni, mettendo in atto le misure adeguate per contenere e fermare la trasmissione del virus”, ha affermato il Consiglio indigenista missionario (Cimi), organismo della Conferenza episcopale brasiliana.
La Chiesa si sta rivelando decisiva per alleviare le sofferenze dei più poveri della regione. Emblematico il caso di Iquitos, in Amazzonia peruviana. All’inizio di maggio, i due ospedali avevano finito le scorte di ossigeno e gli impianti di produzione non riuscivano a coprire nemmeno la metà della richiesta di 500 bombole al giorno. Padre Miguel Fuertes, vicario apostolico di Iquitos, ha lanciato la proposta di una colletta per comprare un nuovo apparecchio, durante la Messa. L’idea era in apparenza irrealizzabile dato il costo proibitivo. Padre Miguel, però, non si è arreso. E tanti, tantissimi l’hanno seguito. “A cominciare dai più poveri. Molti hanno donato 5 soles, meno di un euro, tutto ciò che potevano”, racconta padre Miguel. In meno di 24 ore, la Chiesa di Iquitos ha raccolto più del doppio della somma necessaria per acquistare l’apparecchiatura: 1,5 milioni di soles, equivalenti a circa 380mila euro, con cui hanno comprato non uno ma ben due macchinari. Un segno di luce, piccolo ma importante, in un momento di buio per l’Amazzonia.
Lucia Capuzzi
questo articolo è stato pubblicato su Andare alle Genti
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