La Regione di Ali-Sabieh, situata nel sud-est della Repubblica di Djibouti, si estende su una superficie di 2.400 km², ha una popolazione di circa 94.500 abitanti, contando anche i profughi somali, che vivono in tre campi allestiti per loro.
Le condizioni di vita della maggior parte della popolazione sono molto dure, soprattutto per il costante problema di approvvigionamento di acqua potabile.
Noi missionarie della Consolata abbiamo aperto qui una missione nel novembre 2009, per essere al servizio dei più poveri; attualmente siamo cinque Sorelle e operiamo nei settori della sanità – nell’ospedale locale – e della formazione: in questo ambito siamo impegnate nella scuola di cucito, che offre a giovani ragazze e mamme, oltre ai programmi specifici, corsi di alfabetizzazione, per dare loro la possibilità di crearsi un futuro e di mantenere con dignità la famiglia; inoltre, collaboriamo con la Diocesi per offrire una formazione a quanti, per diversi motivi, non hanno potuto accedere alla scuola pubblica; la formazione offerta a questi alunni, attraverso una scuola d’istruzione di base, permette loro di continuare gli studi, per qualcuno fino all’Università.
Sempre in questo settore operiamo in una scuola inclusiva destinata ai bambini disabili fisici e mentali. Ora, dopo diversi anni d’intenso lavoro, alcuni bambini sono stati ammessi alla scuola primaria e alle medie. Questa è una grande gioia per noi, perché prima i bambini disabili erano tenuti nascosti nelle capanne, ora sono liberi e più sicuri di sé, perché possono imparare a scrivere e leggere come gli altri bambini. Le loro famiglie hanno compreso il significato di questa scuola e ora anche il Governo, che vuole creare nuove strutture per questo scopo.
Su questa fragile realtà si è abbattuta l’epidemia causata dal nuovo Coronavirus. Era il 18 marzo 2020 quando a Djibouti fu annunciata la presenza del COVID-19, mentre il 9 aprile furono notificati i primi 4 decessi. Il Governo decretò immediatamente la chiusura delle scuole e di tutte le attività sociali. Grazie a Dio il giorno prima avevamo avuto il tempo di informare i 260 alunni della nostra scuola. A me in particolare fu affidato l’incarico di spiegare in ogni classe i rischi che potevano incombere su coloro che non si proteggevano dal COVID-19 e sulle misure da adottare, come l’igiene delle mani, per cui occorreva lavarsi spesso le mani con acqua e sapone e asciugarle; l’igiene respiratoria, usando la mascherina per coprirsi la bocca quando si tossisce o starnutisce; il mantenere una distanza da una persona all’altra di almeno un metro; evitare di toccarsi gli occhi, il naso e la bocca con le mani sporche; rimanere nelle proprie capanne e non uscire dai loro steccati.
Affinché i nostri allievi comprendessero meglio le mie spiegazioni, li avevo invitati a rappresentare con un “mimo” quanto era stato loro comunicato. Infine avevo distribuito loro delle semplici immagini rappresentative da consegnare ai loro genitori, essendo questi per la maggioranza analfabeti. L’importante per noi era trasmettere il messaggio perché venisse compreso da tutti, tanto più che la maggioranza dei nostri alunni non può accedere a nessun mezzo di comunicazione come radio, televisione o altro.
Durante questo periodo, abbiamo sperimentato che la nostra gente ha molta fiducia in Dio. Il Signore veramente è molto vicino ai poveri, a coloro che hanno il minimo per nutrirsi, dissetarsi, lavarsi. Quante volte li ho sentiti ripetere: “Allah ci protegge”. Infatti la pandemia si è propagata solamente in alcune zone di tutto il territorio di Djibouti e il virus non è stato violento come in altri Stati. Nei quartieri da cui provengono i nostri ragazzi non è stato riscontrato alcun contagio. La situazione, all’inizio di giugno, era la seguente: 4207 i contagi dall’inizio della pandemia in tutto lo Stato di Djbouti, 1877 i casi guariti, 28 i decessi (tutte persone anziane e molto fragili).
Certo è che i due mesi e mezzo di cessazione di ogni attività a causa di questo pericolosissimo virus hanno sconvolto la vita della nostra gente. Ali-Sabieh sembrava un paese deserto, ogni lavoro anche piccolo era proibito. Anche le moschee erano chiuse, ogni preghiera in comune era vietata. A partire dal 5 giugno siamo entrate nella “fase 2” e la nostra comunità si è resa subito disponibile alle richieste di cibo e di aiuto di quanti lo chiedevano: ragazzi di strada, famiglie in difficoltà, giovani ed anziani. Alcune insegnanti che avevano un familiare contagiato ci chiedevano preghiere e volentieri ci siamo unite a loro nel supplicare il Signore per la guarigione dei loro cari, offrendo loro speranza e consolazione.
La preghiera unisce tutti, cristiani e musulmani. La “Dichiarazione sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, che Papa Francesco e il Grande Imam di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb hanno firmato, ce lo ha ricordato, stimolandoci ad un cammino sicuramente fecondo con i nostri fratelli e sorelle musulmani. E in questo periodo di emergenza lo abbiamo toccato con mano perché ci siamo sentite parte di un’unica famiglia e abbiamo avuto l’occasione di sperimentare profondamente, proprio in un momento di fragilità e impotenza, la possibilità di un dialogo di vita attraverso la vicinanza, l’ascolto e la preghiera.
Suor Anna Bacchion, mc
questo articolo è stato pubblicato su Andare alle Genti
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