
I capitoli dal 10 al 12 della prima lettera di Paolo ai Corinzi sono un ottimo esempio del suo approccio ai problemi pastorali… e probabilmente dicono qualcosa di utilissimo anche a noi, che pure non abbiamo quel problema che lui deve affrontare.
Una comunità adolescente
Corinto era una città particolare, nell’antichità. Posta su due porti, aveva costruito sul commercio la propria floridezza, e diversi proverbi rimarcavano come fosse facile che gli sprovveduti vi venissero turlupinati e quanto costasse vivere secondo lo stile di vita corinzio. Si poteva immaginare che non ci fosse speranza di ascolto per un messaggio semplice e ruvido come quello di Paolo («Ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Cristo, e Cristo crocifisso»: 1 Cor 2,2), ma invece in tanti lo ascoltarono e lo seguirono. Più tardi Paolo dovette allontanarsene, ma quella comunità gli restò nel cuore, anche per le preoccupazioni che gli dava. Come fosse un adolescente, infatti, sembra che i credenti di quella città continuassero a metterlo alla prova, a contestarlo, sfidarlo, pur restandogli attaccati. E sembra di vedere Paolo che, di fronte a certe notizie o domande che gli arrivano da Corinto, si mette le mani nei capelli prima di rispondere: «Mi è stato segnalato da quelli di Cloe che ci sono tra voi discordie» (1 Cor 1,11); «Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neppure tra i pagani» (1 Cor 5,1); «Siete in lite per cose di questo mondo, e prendete a giudici persone che non hanno autorità nella chiesa? Lo dico a vostra vergogna» (1 Cor 6,4-5); «Sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte ci credo» (1 Cor 11,18)…
È una comunità probabilmente con poca formazione culturale seppure molto entusiasta, portata a farsi prendere la mano anche in modo caotico, anche se si direbbe che Paolo la consideri genuina e autentica, e che la guardi con l’affetto che si ha verso un quindicenne scapestrato ma generoso.
La prova dello Spirito
Questa comunità così scombinata ma schietta aveva capito che agiva in mezzo a lei lo Spirito Santo. Ne aveva le prove, perché alcuni avevano iniziato a parlare in lingue che non conoscevano, sul modello della Pentecoste (At 2,1-11)! (Se ne restiamo stupiti e invidiosi, leggiamo fino in fondo i capitoli 10-12 della lettera… o almeno questo articoletto).

E, di conseguenza e spinti dallo spirito di competizione che probabilmente in città era molto ben rappresentato, chi aveva questo dono aveva probabilmente iniziato a sentirsi superiore agli altri, in quanto dotato di “più Spirito Santo”. Su questo Paolo deve evidentemente intervenire. Ma non lo fa semplicemente sgridando o richiamando all’umiltà, come forse ci sarebbe più spontaneo fare. Decide che vale la pena di argomentare con calma.
Principio teologico
Paolo decide di partire dalle fondamenta. Non sempre abbiamo pazienza e coraggio di farlo.
Stiamo parlando di doni dello Spirito? Bene, andiamo a vedere come agisce lo Spirito, per non essere ignoranti come quando non si conosceva il cristianesimo (1 Cor 12,2).
C’è bisogno dello Spirito per poter riconoscere Gesù come Signore, e chi è sotto l’influsso dello Spirito non può bestemmiarlo (12,3): il criterio per capire se una certa manifestazione viene dallo Spirito Santo, insomma, è il rapporto con Gesù, che resta anche il punto fondamentale di tutta la vita cristiana.
Lo Spirito, però, agisce in modi diversi: con una progressione poetica che richiama la Trinità, Paolo ricorda che i doni sono vari, ma è uno solo colui che dona (12,4), così come ci sono servizi diversi, ma in ultimo si serve a motivo dell’unico Signore che è Gesù (12,5), e tutto ciò che facciamo, lo compiamo con la forza del Padre (12,6). Lo Spirito si fa vedere, sì, ma non per arricchire chi riceve il suo dono, bensì perché il dono possa servire agli altri (12,7): e questi doni vengono elencati a partire non dalla facoltà di parlare in lingue sconosciute, ma mettendo al primo posto la capacità di dare consigli saggi, che ci potrebbe sembrare un dono “normale” ma è utilissimo agli altri (12,8). Riprendendo un paragone che era conosciutissimo, Paolo ricorda che è come se tutta la Chiesa fosse un solo corpo, con diverse membra che fanno ognuno un lavoro diverso, ma per il benessere di tutti, perché nessun membro potrebbe sopravvivere da solo (12,12-27). Addirittura, Paolo fa notare che le parti del corpo che riteniamo più vergognose, sono quelle che curiamo e custodiamo meglio.

Quando poi riepiloga, mette le diverse attività nella chiesa in ordine, “in primo luogo”, “in secondo luogo”… e non parte dalle lingue, che ai corinti sembravano il segno tangibile, la prova autentica di aver ricevuto lo Spirito. Mette invece al primo posto gli apostoli, che hanno fatto conoscere Cristo, e poi i profeti, ossia coloro che adattano il messaggio di Gesù alle situazioni particolari, specifiche, e poi i maestri, vale a dire quelli che sanno spiegare e far capire ciò che altri hanno intuito; poi anche i miracoli, perché fanno del bene alle persone (ma è significativo, anche per noi, che al secondo e terzo posto ci siano servizi che potremmo ritenere più “normali”: per Paolo vengono prima, perché sono più utili, e quindi c’è in quelli, al limite, “più Spirito”). E poi, a scendere (ma in tutti c’è tutto lo Spirito), la capacità di guarire (che, siccome viene dopo i miracoli, probabilmente non ha nulla di prodigioso ma è la capacità di mettersi accanto ai fratelli per condurli alla guarigione, con la vicinanza e l’assistenza), di assistere gli altri, di governare (perché anche questo è un servizio non banale)… e infine quello di parlare le lingue strane (12,28).
Il criterio di fondo
C’è bisogno di mettere ancora in ordine i doni dello Spirito? Nel caso, Paolo offre un criterio per stabilirne l’importanza. E scrive una pagina che noi conosciamo come “inno alla carità”.
Senza la carità, senza l’amore agli altri, potrei anche parlare le lingue degli angeli ma sarei come una campana stonata (13,1); se spostassi le montagne con la fede, ma senza carità, non conterei niente (13,2); se fossi generosissimo ma senza amore, non sarebbe utile (13,3). Verrà un giorno in cui non ci sarà più bisogno di capire come vivere il messaggio di Dio nelle situazioni concrete («sparirà la profezia»: 13,8) e addirittura non esisteranno più le lingue, ma la carità resterà viva, perché è uno dei tre atteggiamenti di fondo che resteranno sempre validi, in quanto sempre esistono in Dio e restano quelli che possono far vivere: fiducia, speranza e amore. «Ma la più grande di tutte è la carità!» (13,13).
Applicazione concreta
Potevamo pensare che Paolo si fosse dimenticato il tema di partenza, e invece no. Lo ha fondato in Dio, ha offerto un criterio di fondo, e ritorna da dove era partito: «Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto la profezia» (14,1), non quelli più spettacolari ma meno utili. La profezia, lo abbiamo già detto, è la capacità, da profeti appunto, di cogliere quale può essere la volontà di Dio e quindi il bene dell’uomo in una determinata situazione che non era ancora stata prevista dalla Scrittura. Dono particolarmente delicato e prezioso. Utilissimo per sé ma soprattutto per la chiesa tutta.

E Paolo prosegue spiegando: se uno parla in lingue e loda Dio, lo sa soltanto Dio (che, sembra sottintendere Paolo, non ne ha particolare bisogno, mentre ad aver bisogno sono le persone). Chi profetizza aiuta tutti ed edifica l’assemblea (14,2-4). «Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia» (14,5); «in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue» (14,19).
Praticamente, quindi, lascia l’indicazione di non avere più di due o tre al massimo che si esprimano in lingue, a patto che qualcuno poi spieghi. Altrimenti, «se non vi è chi interpreta, ciascuno di loro taccia e parli solo a se stesso e a Dio» (14,28).
Il principio di fondo resta l’amore e l’aiuto agli altri. Tutto il resto, che ci pare dare onore e autorevolezza ma non serve, è meno gradito da Dio di chi, umilmente, si mette a disposizione degli altri. Noi potremmo dire, “profetizzando”, che chi cede il posto in assemblea a un anziano o pulisce gli ambienti è più pieno di Spirito Santo di chi facesse miracoli inutili o predicasse con paroloni disincarnati.
D’altronde, è quello che ci lascia intendere Paolo, è esattamente così che si comporta Dio, che non si mostra glorioso e potente per farsi lodare, ma si limita a offrire agli uomini ciò che a loro può essere utile.
Angelo Fracchia