LA PASQUA DI GESÙ

Last Supper by Ted from Flickr

Per i cristiani la Pasqua è la festa liturgica più importante, lo sappiamo. Vi ricordiamo la risurrezione di Gesù, esito della sua croce che è il punto in cui con più chiarezza e definitività si vede l’intenzione di Dio di stare dalla parte degli uomini e della vita. Non è un caso che il Risorto sia sempre identificato come “il crocifisso” (Mc 16,6; Mt 28,5…). Ma Gesù sulla croce c’era salito quasi muto, senza più la possibilità di reagire. Il senso di ciò che fa o subisce sulla croce è spiegato nell’ultima cena.

Le allusioni antiche
Gesù decide di celebrare la Pasqua con i suoi dodici discepoli. Secondo il vangelo di Giovanni era già accaduto altre due volte (Gv 2,13; 6,4), seguendo i tre sinottici parrebbe trattarsi della prima volta. Si tratta comunque di una scelta non banale. Secondo la legge di Mosè, infatti, questa festa andava celebrata in famiglia (Es 12,3-4). Evidentemente Gesù invita i discepoli a considerarsi la sua famiglia, e questo è coerente con la preghiera del Padre nostro, che presenta tutti i credenti come fratelli, e con il rifiuto di Gesù di lasciarsi “costringere” dentro i confini della famiglia naturale (Mt 12,48-50; Mc 3,33-35).
Nella Pasqua erano confluite nel tempo almeno tre dimensioni diverse ma che avevano una caratteristica comune. Era stata, intanto, la celebrazione dei pastori, che all’inizio dell’anno (cioè in primavera) sacrificavano un giovane agnello e ne spargevano il sangue sui sostegni della tenda per tenere lontani gli influssi malefici della morte e della sfortuna, prima della partenza per i pascoli. Alcuni dei segni di questa Pasqua che restano nei secoli (anche quando la si celebra da sedentari, con gli stipiti della porta di casa che sostituiscono i sostegni della tenda) sono tipici dei pastori seminomadi: cintura ai fianchi e sandali ai piedi, agnello cotto alla brace con contorno di erbe amare… Era una festa di gioia ma angosciosa, perché si partiva per la transumanza, con il rischio di avere incidenti per strada, di non trovare pascoli: era promessa di vita ma passando attraverso il rischio della morte, con una decisione di partire che chiedeva di fidarsi.
Era poi anche la festa dei contadini, che la celebravano alla raccolta dell’orzo, all’inizio della primavera. In quella occasione facevano anche le “pulizie di Pasqua”, eliminando da casa tutto il lievito vecchio (ecco perché si celebrava con i pani azzimi). Rito igienico e tradizionale, che però dà per scontato che poi, come si è mietuto l’orzo, precoce ma meno nutriente, si mieterà anche il grano, a Pentecoste. Si inizia a vivere la Pasqua come rimando alla Pentecoste, che la compirà. Anche qui c’è bisogno, per vivere in salute, di fidarsi del futuro e di “rischiare” la morte, gettando via i residui dei cibi invernali.
È a questa festa che si collega il ricordo dell’uscita dall’Egitto, dove la promessa di libertà e di vita passa dal rischio di sfidare il faraone e di entrare nel mare aperto: ancora una volta la promessa è di vita, ma “passando attraverso” la paura della morte grazie alla parola di Colui che chiama. Tra l’altro, come per i cristiani la Pasqua (risurrezione di Gesù) si completa a Pentecoste (dono dello Spirito), così per gli ebrei è a Pentecoste che la liberazione dall’Egitto diventa completa, con il dono della Legge al Sinai.
Gesù interpreta definitivamente la propria esistenza, fino all’esito che avverrà poche ore dopo, sotto il segno della Pasqua: un appello alla vita che sarà piena soltanto attraversando ciò che sembra negarla, fidandosi semplicemente di una promessa, di una parola che lo chiama. Come lui si fida del Padre, così il credente in Gesù si fiderà di lui.

The Last Supper-Restored Da Vinci

Gli informatori
Tutti conosciamo bene i racconti dell’ultima cena, con l’istituzione dell’eucaristia. Ne abbiamo a disposizione quattro, anche se non sono quelli che potremmo immaginare. Giovanni, infatti, nell’ultima cena narra solo un lunghissimo discorso di Gesù preceduto dalla lavanda dei piedi, quasi a dire che non c’è eucaristia senza servizio ai fratelli.
Ma accanto ai tre vangeli (Mc 14,17-25; Mt 26,20-29; Lc 22,14-18), a narrare quell’episodio c’è, per una volta, anche Paolo, in 1 Cor 11,23-25. Le attenzioni dei singoli autori sono un po’ diverse, ma si possono riassumere in due orientamenti: Paolo e Luca sottolineano la dimensione di banchetto dell’ultima cena, di ultimo incontro di Gesù con i suoi, mentre Marco e Matteo rimarcano la dimensione di anticipo di sacrificio, inserendo più chiaramente quel banchetto in un contesto religioso (per gli antichi quasi ogni tradizione religiosa si incentrava innanzi tutto sui sacrifici).
Queste sono però sfumature, perché il nucleo del discorso resta uguale per tutti. Proviamo a ripercorrerlo isolandone i singoli elementi.

Lo sfondo
I lettori del vangelo sanno già che quella è l’ultima volta che Gesù mangia con i suoi, ma se anche lo ignorassimo, il clima è lugubre. Il primo annuncio è infatti di tradimento (Mc 14,18; Mt 26,21; Lc 22,21) e Gesù annuncia che non banchetterà più con loro (Mc 14,25; Mt 26,29; Lc 22,18): questo accenno, peraltro, rimanda anche alla speranza di salvezza, perché Gesù anticipa che berrà di nuovo del vino, ma nuovo, nel regno di Dio, insieme ai discepoli.
È ciò che si celebrava nella Pasqua: il rischio della fame, le incognite della transumanza, la minaccia dell’esercito egizio e del mare, che incombono ma che vanno attraversati per cogliere, al di là, la promessa di vita, che resta oggetto di una fiduciosa speranza, non una garanzia già posseduta.

I personaggi
Sembra che si debbano riconoscere soprattutto tre gruppi.
Il primo in realtà è un singolo, Gesù. Lui fa, lui gestisce, lui parla. Ha in mano tutto lui, ed è significativo perché da quando verrà arrestato, poche ore dopo, non deciderà più nulla e parlerà pochissimo. Ma qui è ancora padrone del suo destino, è ancora pienamente lui il Maestro e può parlare liberamente. E ciò che dice è che vuole fare della propria vita un dono, innanzi tutto per coloro che sono lì. Se anche Gesù non fosse stato crocifisso, la sua vita sarebbe comunque stata un dono agli altri: lo era stata prima, continuerà a esserlo fino alla fine (nel vangelo di Luca, addirittura, la sua penultima parola, poco prima di morire, è di salvezza per un crocifisso insieme a lui: Lc 23,40-43). Gesù, modello dei discepoli, vive per gli altri, non per sé.
Poi ci sono i discepoli, ovviamente. Coloro ai quali Gesù dona se stesso. Che sono tutt’altro che perfetti. Uno tradisce, e Gesù lo sa. Ma sa anche che un secondo lo rinnegherà, e che gli altri scapperanno. Gesù sa di non avere intorno una comunità perfetta. Però è la sua famiglia. E per costoro (Giuda compreso!) offre il proprio corpo e il proprio sangue. Che cosa i discepoli coglieranno di questa offerta, lo decideranno loro; ma l’offerta è per tutti. Anche a noi in fondo Gesù non chiede di essere perfetti, ma di lasciarci regalare la comunione con lui.
Ma non abbiamo ancora elencato tutti coloro che sono coinvolti, perché Gesù ricorda anche i “molti”, che evidentemente non sono lì (Mc 14,24; Mt 26,28). Sta pensando anche a tutti coloro che in lui crederanno. All’ultima cena Gesù ha fondato un rito che, intenzionalmente, non si sarebbe fermato lì.

Gli elementi
Senza entrare nel modo con cui, molti secoli dopo, i cristiani cercheranno di interpretare il senso delle parole di Gesù, scontrandosi anche con durezza, è chiaro che parlando di “corpo” e “sangue” Gesù parla della propria intera vita, offerta per gli uomini. Ed è chiaro che quelle due immagini partono dai simboli utilizzati, il pane e il vino, che rientravano tra gli ingredienti indispensabili della cena pasquale, ma insieme a tanti altri. Perché sceglie proprio quelli?
Il pane, e soprattutto il pane azzimo, era per gli ebrei del suo tempo il nutrimento più scontato, banale, quotidiano, quello che persino i poveri avevano, il cibo di tutti i giorni. Il vino invece no, non era bevanda quotidiana, era riservato alle feste. Sembra che Gesù voglia scegliere un simbolo per l’ordinario e uno per lo straordinario, e sceglie simboli da mangiare… Gesù vuole farsi nostro nutrimento, elemento per vivere, sia nel cammino normale che in quello straordinario.
Pane e vino, poi, simboleggiano ottimamente il modo con cui il cristianesimo pensa al rapporto tra Dio e uomo. Entrambi, infatti, in natura non esistono. In natura troviamo il grano e l’uva, che sono frutti del lavoro del contadino ma in partenza innanzi tutto sono prodotti naturali. Ma grano e uva devono essere lavorati per diventare pane e vino. Nella eucaristia è come se gli uomini ricevessero da Dio, dalla natura, delle piante che, coltivate dall’uomo, possono fornire dei frutti tanto raffinati che l’uomo, lavorandoli ancora, può trasformare in pane e vino, da offrire a Dio per averli indietro rinnovati… Non si può più dire, alla fine, chi offra di più… come nei rapporti di amicizia, ognuno mette la sua parte, anche se la somma totale sembra essere più grande dei singoli elementi. «Non vi chiamo servi, vi ho chiamati amici» (Gv 15,15).

Last Supper by Ted from Flickr

Parole e gesti
Quegli elementi vengono messi in gioco con dei gesti che sono simbolicamente significativi ma che vengono accompagnati anche da parole, perché nulla nel cristianesimo è magico: i simboli hanno una potenza espressiva grande, ma possono essere spiegati, detti.
Gesù spezza il pane e lo dà ai discepoli. Così anche la sua vita verrà spezzata, ma lo scopo non è di distruggere il pane, bensì di condividerlo perché dia nutrimento. Il dono di sé di Gesù non porterà alla sua scomparsa, ma al suo essere disponibile per tutti.
E Gesù distribuisce il calice del vino perché tutti ne bevano. Simbolo del sangue che sarà versato, effuso come quello delle vittime sacrificali che servivano a fare pace tra Dio e gli uomini. Non ci sarà più bisogno di sacrifici, perché in Gesù, che è Dio disposto a morire come gli uomini perdendo anche la propria dignità divina (i crocifissi erano ritenuti maledetti da Dio: Gal 3,13), diventa evidente che Dio è pronto a rinunciare a tutto pur di non rompere la comunione con l’uomo. Non ci sarà più bisogno di rappacificarsi con Dio (a questo servivano i sacrifici), perché in Gesù è chiaro che l’intenzione divina è l’armonia con gli uomini, ognuno dei quali dovrà soltanto decidere se accogliere questa comunione o rifiutarla.
Il tutto in una comunità. La relazione con Gesù viene vissuta a partire da un incontro personale, privato, ma vivere questa relazione ci porta a scoprire di essere pieni di sorelle e fratelli che non immaginavamo. Il punto d’arrivo sarà il vino nuovo bevuto nel regno di Dio. Fino ad allora il nostro incontro con il Padre passerà da colui che per noi si è fatto vittima sacrificale: «Fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me» (1 Cor 11,25).

Angelo Fracchia 

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