LA BELLA NOTIZIA DELLA CROCE (Mc 9-10)

La prima parte del vangelo di Marco sembra concentrarsi su un Dio che, quando entra nel mondo, compie tutto ciò che l’uomo desidera: lo guarisce, lo sfama, lo libera da ogni condizionamento e soprattutto lo mette in condizione di incontrare in profondità gli altri esseri umani.

È quello che Marco riassume nel fatto che Gesù sia “Cristo”, ossia il Messia, colui che viene unto da Dio per rispondere ai bisogni degli uomini. È per questo che in tutta la prima parte del vangelo sembra che Gesù non parli quasi del Padre: è tutto concentrato sugli uomini.

Ma il vangelo non finisce lì. C’è altro da dire, perché altrimenti la vita degli uomini non sarebbe compiuta, completa, a posto. E il qualcosa che c’è da aggiungere è ciò che, alla fine del vangelo, Marco riassumerà nel “Figlio di Dio”: se la prima parte del vangelo spiegava ciò che magari non osavamo sperare, ma potevamo desiderare, la seconda completa con ciò che non potevamo immaginare.

La croce

Fin dalle elementari impariamo che nello scrivere c’è un peccato gravissimo che dobbiamo evitare a tutti i costi, ossia la ripetizione. I racconti antichi non ne hanno così tanta paura, anzi a volte la utilizzano. È come se pensassero che le cose dette una volta sola potrebbero anche essere casuali, quelle ripetute due volte potrebbero anche essere un caso, mentre se le si esprime tre volte vuol proprio dire che le vogliamo sostenere. (È comunque anche il trucco utilizzato dagli insegnanti, che di solito ripetono anche più di tre volte ciò che è davvero importante).

Avevano quindi sviluppato l’abitudine che ciò che è centrale, anche se magari non attira troppo l’attenzione, viene ripetuto. L’ideale è che sia ripetuto tre volte. Ed è esattamente ciò che succede a un discorso di Gesù.

Pietro aveva sostenuto di trovarsi di fronte al Cristo (Mc 8,29), e Gesù, non rimproverandolo, ammette che l’intuizione è giusta; subito dopo, inizia a parlare della croce (Mc 8,31-32). Lo farà, appunto, altre due volte: dopo questa, a Cesarea di Filippo, affronterà il medesimo discorso mentre se ne sta nascosto in Galilea (Mc 9,30) e mentre sale a Gerusalemme (Mc 10,32). A volte aggiungerà più informazioni (il resoconto più dettagliato è l’ultimo, Mc 10,32-34), ma citerà sempre la propria morte e risurrezione. Nel primo dei passi premette che questo «bisogna che» succeda. Non si tratta di un incidente, di un particolare secondario (può forse la morte essere qualcosa di secondario?). La sorte di Gesù non può che finire così, e bisognerà capire perché. Due volte ricorda che il rimprovero verrà dai sommi sacerdoti e dagli scribi, ossia da coloro che dovrebbero essere i più esperti e informati sul piano di Dio.

Ciò che accadrà, insomma, è che la proposta di vita piena, che Gesù viene a offrire (nella prima parte del vangelo!), verrà rifiutata. E verrà rifiutata da coloro che dovrebbero conoscere Dio e guidare il popolo sulle sue strade. Ma di fronte al rifiuto, radicale (arriva alla condanna a morte!), Dio non si tirerà indietro, non si rimangerà l’amicizia, ma andrà avanti fino alla fine, fino al punto di offrire la propria vita per non rinnegare l’offerta di comunione con l’umanità. Anzi, dal momento che chi moriva in croce era ritenuto maledetto da Dio (cfr. Dt 21,23; Gal 3,13), Dio accetterà non solo di morire, ma addirittura di fare la figura del maledetto da Dio, di perdere del tutto la propria dignità. Non un martire, morto ma onorato e ammirato, bensì un disprezzato e reietto dagli uomini (cfr. Is 53,3).

Dio arriva a tanto perché è enorme e smisurato il suo amore per gli uomini e il desiderio di vivere in comunione con loro (cfr. Gv 15,13; Ef 2,4), ma anche perché quel percorso di vita, che è quello che è scelto da Dio, è l’ideale anche per gli uomini («Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»: Lc 14,27; Mt 10,38, ma cfr. anche Mc 8,33, di cui parleremo tra un momento). Gesù, in questa seconda parte del vangelo, ammette che l’amore offerto gratuitamente spesso non suscita amore, ma sospetto e rifiuto. Capiterà anche ai suoi discepoli. Ma Gesù è il primo a dire che comunque vale la pena amare, fino alla fine, in ogni caso. Perché rinunciare ad amare significa rinunciare a vivere una vita umana.

La reazione dei discepoli

Il vangelo non ci nasconde come i discepoli di Gesù, quelli scelti perché stessero con lui e vivessero in piena comunione con lui (Mc 3,14), accolsero questa notizia sconcertante.

Il primo a parlare è Pietro, colui che aveva appena colto la messianicità di Gesù. Lo prende da parte e gli spiega che un discorso del genere non deve neppure farlo. Ma Gesù reagisce duramente: «Va’ via da me, Satana!» (Mc 8,33), o anche «Passa dietro a me, Satana!». È Gesù a sapere la strada, a indicare il cammino. Il rischio, altrimenti, è di «non pensare secondo Dio, ma secondo gli uomini». Quale uomo penserebbe di dover affrontare addirittura la morte per garantire la permanenza di un’amicizia che l’amico ha rifiutato? Dio lo fa, e suggerisce agli uomini che quella è la strada più autentica e profonda di vivere l’umanità. È qualcosa di imprevedibile, di non immaginabile, di “divino”, ma nello stesso tempo costruisce l’essere umano autentico.

Anche gli altri discepoli, però, dimostrano di non essere particolarmente ben sintonizzati con Gesù. Dopo il secondo annuncio della croce (Mc 9,30-32), quando arrivano a Cafarnao, Gesù chiede su che cosa stessero discutendo per la strada, e loro non rispondono, perché stavano decidendo chi tra loro fosse più importante (Mc 9,33-34). Il terzo discorso, poi (Mc 10,32-34), è immediatamente seguito dai figli di Zebedeo che arrivano a chiedere a Gesù i posti d’onore quando sarà re (Mc 10,35-40); anche gli altri dieci, peraltro, si scandalizzano, ma solo perché pensavano di meritare quei posti almeno quanto Giacomo e Giovanni (Mc 10,41-45).

Da una parte ciò ci dice che persino i dodici, i più vicini a Gesù, che hanno vissuto costantemente con lui per tre anni, faticavano a capirlo. Il suo messaggio qui è diventato imprevedibile, incomprensibile, oltre le attese. Dall’altra parte, può persino essere confortante per noi oggi: anche chi aveva vissuto per tre anni con Gesù senza riuscire a capirlo, facendolo sentire ancora più solo, sarebbe poi diventato santo e martire, guardato per sempre dai cristiani come modello. Non c’è nessuno che fatichi a capire Gesù al punto da non poterlo seguire, e risorgere con lui.

Tra le colonne del discorso

Ma Gesù non parla ovviamente solo di croce. In questi capitoli parla e spiega tanto, e tutto sembra in qualche modo costituire una novità per gli ascoltatori. Tra il primo e il secondo annuncio della croce spiega che quella via di un dono di sé anche doloroso è esattamente quella che viene chiesta anche ai suoi discepoli (Mc 8,34-38). In questo percorso, però, i discepoli avranno il dono di poter intuire, sia pure senza precisione e certezza, il punto d’arrivo del cammino: per questo Gesù si mostra trasfigurato, a immagine del suo corpo risorto, in compagnia di Mosè (la legge) ed Elia (i profeti) che parlano di Gesù, anzi della sua partenza da questo mondo (Mc 9,1-13). E anche se i discepoli non si mostrano all’altezza di Gesù, la liberazione e la vita arriveranno ugualmente (Mc 9,14-29).

Nel secondo tratto di percorso, di nuovo, Gesù deve spiegare qualcosa che ai discepoli non è chiaro: l’unico modo di comandare è servire (Mc 9,33-37), e l’unica cosa di cui bisogna avere paura non è la fragilità o l’inadeguatezza, ma il male (Mc 9,38-49). Giunto a questo punto, Gesù può chiarire qual è l’immagine autentica, voluta da Dio, del matrimonio (Mc 10,1-12), della fragilità dei bambini (10,13-16) e della ricchezza (10,17-31), beni che vengono facilmente fraintesi e su cui però Dio ci concede uno sguardo capace di rivitalizzarli.

Su questi, però, come pure sulla seconda, radicale, guarigione di un cieco (Bartimeo: Mc 10,46-52), potrà convenire ragionare un’altra volta.

Angelo Fracchia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *