Io sono una missione su questa terra

Suggestioni missionarie

«La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare»(1)

«È un mandato che ci tocca da vicino: io sono sempre una missione; tu sei sempre una missione; ogni battezzata e battezzato è una missione. Chi ama si mette in movimento, è spinto fuori da sé stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita. Nessuno è inutile e insignificante per l’amore di Dio. Ciascuno di noi è una missione nel mondo perché frutto dell’amore di Dio». (2)

  1. La prospettiva di partenza

La prospettiva da cui condivido questa riflessione sull’esperienza è quella della mia congregazione. Spenderò qualche riga per presentarla.

1.1 Chi siamo

Siamo Missionarie della Consolata (MC), abbiamo 109 anni di vita. Siamo un Istituto di vita religiosa a carattere esclusivamente missionario ad gentes, di fondazione italiana, precisamente torinese. Il Fondatore è il Beato Giuseppe Allamano, sacerdote della diocesi di Torino che prima di noi fondò i Missionari della Consolata (1901). L’Allamano ideò i suoi missionari e missionarie come un piccolo istituto missionario ad gentes a carattere regionale, ma, come spesso accade nello sviluppo della comprensione un carisma, dopo alcuni anni dilatò la prospettiva e cominciò ad accogliere membri provenienti da altre regioni di Italia. Oggi noi Missionarie della Consolata siamo 550, proveniamo da 16 nazioni di tre continenti – Africa, America e Europa – e viviamo in 17 nazioni in 4 continenti – Africa, America, Asia, Europa. Il nostro carisma è la prima evangelizzazione tra i non cristiani, nel segno della Consolazione. Vi parlerò quindi della missione dalla prospettiva della mia vocazione specifica, quella della consacrazione per la missione ad gentes, ai non cristiani, nel segno tutto mariano,  femminile e materno, della Consolazione.

  • Le origini

Nate nel 1910, le prime MC partono per il Kenya nel 1913. Sono 15 giovanissime missionarie che, dopo la formazione iniziale in casa Madre a Torino, si inseriscono nella zona centrale del Kenya, Nyeri, tra il popolo Kikuyu, in quel tempo non cristiano. E’ proprio qui che le nostre Sorelle crescono come religiose missionarie. Qui, in Kenya, il carisma si radica sempre più nel loro cuore, e rivela aspetti insospettati. Il Fondatore lo sa e chiede insistentemente alle missionarie di scrivere quanto percepiscono nel cuore, le loro impressioni a contatto col “diverso”, i loro pensieri, i sentimenti. Incoraggia costantemente le MC a imparare la lingua locale, a fare di tutto per comunicare con la gente, a riempire i loro taccuini con frasi udite qua e là, proverbi, parole, detti. In effetti molte di queste sorelle acquisiranno una straordinaria padronanza del kikuyu, non solo come lingua ma anche come linguaggio: modalità espressive, stile narrativo, simbologia, storie, metafore, proverbi ecc. Il Fondatore legge con interesse i loro diari, ricavandone preziosi suggerimenti e stimoli per elaborare la nostra metodologia missionaria, già abbozzata attraverso l’esperienza dei Missionari della Consolata arrivati in Kenya alcuni anni prima, nel 1902. Fin dai primi scambi dell’Allamano con i suoi missionari in Kenya sono riconoscibili le radici di un metodo missionario di inserimento e profonda compenetrazione con la vita del popolo. In una lettera del 1904 ai missionari in Kenya, presenti nel Paese tra il popolo Kikuyu da due anni, l’Allamano invita i suoi alla pazienza e propone l’esempio del P. Matteo Ricci SJ: «Leggevo alcuni giorni or sono, come nella Cina la conversione procedeva trionfante quando il P. Ricci gesuita tollerava certe oblazioni ai morti…; qualche testa piccola vi si oppose, e ciò provocò la persecuzione e la fine del bene. A togliere il male ci vuole pazienza e tempo». In occasione della prima riunione di tutti i Missionari della Consolata presenti in Kenya, passata alla storia missionaria come «Le Conferenze di Murang’a», nel marzo 1904, i dieci padri presenti delinearono i punti essenziali del loro metodo missionario. Con il linguaggio tipico della teologia missionaria dell’epoca, i missionari rendono esplicito l’interessamento alla «formazione dell’ambiente», lo studio serio della lingua locale, la formazione e collaborazione coi catechisti locali, la visita sistematica ai villaggi istaurando relazioni di fiducia con la gente, l’attenzione alla dimensione della cura e dell’educazione.   Certamente, a quel tempo non si parlava di culture e di inculturazione, né di dialogo interreligioso, ma già nei primi abbozzi della nostra metodologia missionaria  è presente l’orientamento al rispetto e considerazione dell’ambiente in cui le missionarie e i missionari si inseriscono, e la simpatia e l’interesse per la lingua, le tradizioni, l’esperienza religiosa, la visione del mondo del popolo da cui vengono accolte.

Il Fondatore farà tesoro di quanto le sue missionarie e missionari gli restituiranno nelle loro frequenti comunicazioni epistolari e nei diari, regolarmente inviati a Casa Madre. Si può dire che fin dalle origini, l’incontro con una cultura diversa e con esperienze diverse del Sacro ha contribuito a plasmare l’Istituto, a elaborare una metodologia missionaria, a rivedere la formazione di base, aprendo strade ad una esplicitazione più chiara, articolata e vivace del carisma missionario consolatino. Spesso tra noi diciamo che siamo nate in Italia e le nostre radici sono inequivocabilmente qui, ma siamo state allevate in Kenya, per cui è l’Africa per noi il primo luogo della crescita, della maturazione missionaria e carismatica. A cui, per grazia, col passare degli anni, si aggiungerà l’influsso di altri popoli.

1.3 Il latte delle genti

Isaia 60,4-6.16

Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te.
I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio.
5Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,
perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te,
verrà a te la ricchezza delle genti.
6Uno stuolo di cammelli ti invaderà,
dromedari di Madian e di Efa,
tutti verranno da Saba, portando oro e incenso
e proclamando le glorie del Signore. […]
16Tu succhierai il latte delle genti, succhierai le ricchezze dei re.
Saprai che io sono il Signore, il tuo salvatore e il tuo redentore, il Potente di Giacobbe.

L’esperienza di convivenza coi diversi popoli, di contatto con diverse esperienze del sacro, ci ha trasformato progressivamente e ha allargato e approfondito in noi la comprensione del carisma che si traduce in una particolare visione di missione. Parlo di contatto con le diverse esperienze del sacro perché proprio l’esperienza del sacro costituisce il nucleo di ogni edificio culturale. La visione della vita, della persona, del cosmo, i modelli di pensiero, le configurazioni relazionali, il mondo affettivo-simbolico, insomma ciò che costituisce l’anima del popolo e che ne struttura l’esistenza trova il suo centro nella esperienza del sacro. L’accesso a questi livelli profondi della cultura, ossia il contatto con l’anima del popolo, è condizione imprescindibile per una evangelizzazione che possa chiamarsi tale: «Occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo, […] partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (3), ci avverte San Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi. Allora l’impegno di inculturazione è in definitiva un impegno di contatto spirituale col popolo, con la persona. Ma nel contatto spirituale la comunicazione non avviene a senso unico.  Piuttosto, si tratta di uno scambio di doni, di una trasformazione reciproca, dell’arte di lasciare che lo Spirito costruisca ponti su cui le sapienze e le esperienze possano transitare ed incontrarsi.

Se tutto questo è vero per l’evangelizzazione inculturata, lo è allo stesso modo per la grazia della interculturalità all’interno del nostro Istituto, grazia di trasformazione continua, grazia che ci nutre e ci fa crescere.

  1. Battezzati (immersi)

Il tema del Mese Missionario Straordinario gira attorno a due verbi: battezzare e inviare. Siamo battezzati e siamo inviati.

Siamo anzitutto battezzati, ossia immersi. All’inizio della vocazione missionaria, e all’inizio della vocazione cristiana, che è missionaria, c’è un’immersione. Un movimento di discesa, di sprofondamento. È il primo movimento vocazionale, il primo movimento missionario: chiamati a sprofondarci, a immergerci. Che è il contrario di rimanere in superficie.

Siamo chiamati a immergerci in Qualcuno.
O meglio: siamo di fatto immersi in Qualcuno nel quale “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28).
Vivo immersa in un Altro.
A volte non me ne accorgo.
A volte è la frenesia della vita a sommergermi.
Sono chiamata a fare memoria, a risvegliare la consapevolezza di essere immersa in un Altro che mi contiene amandomi.
Chiamata a ritornare e sostare consapevolmente nelle acque primordiali del grembo di Dio, nel quale sono stata e sono continuamente generata, a lasciarmi da esse avvolgere, penetrare, impregnare. a respirare a pieni polmoni il Soffio che aleggia su queste acque.
La sostanza vitale del soffio che mi anima è la stessa di queste Acque.
Sì, il mio essere più profondo è quest’Acqua, questo Soffio, del quale il mio cuore riconosce il sapore e il profumo.
Il sapore e il profumo di Dio.
Allora il mio cuore trova casa.

Il primo movimento missionario è dunque verso la profondità: di Dio, di me stessa, dell’altro, del creato, laddove ci riconosciamo generati da un unico Grembo, zampilli della stessa Acqua, animati dallo stesso Soffio, percorsi dalla stessa Vita. Non c’è missione senza contatto intimo, profondo, vitale, con la radice del nostro essere e con Colui che ne è il principio: Dio Padre e Madre, Dio Figlio, Dio Spirito. Solo a partire da questo movimento di sprofondamento, di immersione in Lui, i miei sensi esteriori e interiori si purificano, divenendo trasparenti alla Sua energia e alla Sua luce che mi rende capace di sentire, gustare, vedere, respirare, toccare, intercettare nell’atro – persona o popolo – i semi o i frutti di Dio, lo scorrere della Sua vita, la carezza del Suo Soffio, le note della Sua musica, la voce del Suo canto,  il movimento della Sua danza!  Allora, solo allora, la mia vita può divenire, per Grazia, un ponte vivo sul quale le diverse esperienze dello Spirito possono incontrarsi, interagire, compenetrarsi; un umile canale che lo Spirito ama attraversare per visitare, fecondare, far crescere, mietere, celebrare la liturgia del ritorno al Padre: il ritorno gioioso e fruttuoso della missionaria e della gente che ha incontrato, che ha evangelizzato e da cui è stata evangelizzata! Sì, allora la mia vita immersa in Cristo può divenire una semplice, umile porta tra due mondi, tra visibile e invisibile, tra il giorno delle evidenze umane e la notte gravida del mistero divino, tra il piccolo e il grande, tra la persona e Dio, tra l’umanità e la Trinità!

  1. Inviati

Siamo immersi e in-via-ti, ossia messi sulla via, in cammino.
L’immersione in Dio non mi rende mai statica.
Mette in movimento il tutto di me.
La stessa, inaudita, potente forza centripeta dell’attrazione a immergermi in Lui, a rimanere nel Suo grembo, nel Suo amore, diviene incontenibile energia centrifuga che mi lancia in uscita con lo stesso vigore, senza mai abbandonare l’immersione.
Sono immersa e inviata, inviata da immersa.
Perché il movimento di invio, di uscita, non ha origine in me, ma solo in Lui.
Proprio e solo rimanendo in Lui, sono inviata.
Esco perché Lui esce e mi porta con sé, immersa in Lui.

Io sono missione perché Dio è missione. Il fondamento dell’invio sta tutto lì. Sono in uscita perché Dio è in uscita e mi porta con sé, in Lui.

Non esiste invio al di fuori dell’invio del Figlio.

Non esiste missionario al di fuori del Figlio Missionario del Padre, nel quale, e solo nel quale, anch’io sono missionaria.

Sono inviata perché Cristo è l’unico inviato ed io lo sono solo in Lui, nella misura in cui gli appartengo, nella misura in cui sono in Lui immersa: immersa nella sua vita, morte e resurrezione, nella sua Pasqua.

Allora scopro che la missione è vivere la Sua vita, la vita del Cristo, in tutte le sue dimensioni: l’unione indissolubile col Padre e con lo Spirito, nella comunione trinitaria; l’incarnazione; la vita nascosta a Nazareth; l’annuncio del Regno insegnando, curando, perdonando, liberando; la passione; la morte; la resurrezione; il ritorno al Padre.

Scopro che questo invio si traduce non solo nell’essere associati in qualche modo a questa Sua vita, ma nell’esservi intimamente uniti, nell’esservi immersi, in modo che nella mia vita si attualizzino, in forma tutta originale, unica e molto concreta i misteri della Sua vita.

Questa attualizzazione non avviene sempre in modo cronologico; spesso i misteri si sovrappongono: posso vivere l’annuncio e la passione; la vita nascosta e la morte. Ma tutti, tutti questi misteri mi percorrono in qualche modo, perché Lui mi abita e mi percorre.

Guardando alla vita per esempio della Beata Irene e della Beata Leonella, due nostre consorelle, possiamo riconoscere le diverse dimensioni, i diversi misteri della vita di Cristo nel loro cammino missionario. In entrambe, vi è una fase prolungata di preparazione alla missione, sia nel periodo della formazione iniziale, sia nel tirocinio missionario, nell’apprendimento paziente di una lingua, nell’inserimento graduale in una cultura, in un ambiente. Vi è quindi una fase di intensa operosità apostolica. Ma il compimento della missione si realizza nell’immersione piena nel mistero dell’Ora di Cristo: la sua passione, morte e risurrezione, che si esprime nel martirio di sangue nel caso di Leonella, uccisa in Somalia nel 2006, e nel martirio della carità nell’offerta consapevole della sua vita, nel caso di Irene, morta in Kenya nel 1930 per aver contratto la peste da chi assisteva. E’ lì, nel momento immolativo/sacrificale, che la missione di compie e la missionaria trova il vertice della sua vocazione: divenendo, nella sua carne, Carne di Cristo che accoglie su di sé il Dolore dell’umanità e del Cosmo, divenendo nel suo cuore, Cuore del Figlio trafitto per Amore.

Perché è solo da quel Cuore trafitto che sgorga il Rimedio per le nostre ferite.
Tutte le ferite.
Le ferite del cuore umano, del creato, della storia.
Le piaghe più nascoste e recondite.
Gli anfratti più profondi, irraggiungibili ai gesti umani.
Gli inferi più impervi dell’anima e dell’universo, sordi alla parola, ciechi alla luce.

Lì, nelle profondità abissali, nelle zone più oscure e lacerate del cuore e del cosmo, dove né parole né azioni riescono a giungere, solo il Rimedio dolcissimo e potente del Sangue e dell’Acqua può penetrare, purificare, curare, rigenerare con la tenera e sconvolgente forza di un Amore più forte della Morte, in cui, per Grazia, siamo immersi e da cui, per Grazia, siamo abitati, vissuti, attraversati, inviati.

Papa Francesco recentemente si è così espresso: «guardiamo insieme a Gesù Crocifisso, al suo cuore squarciato per noi. Iniziamo da lì, perché da lì è scaturito il dono che ci ha generato; da lì è stato effuso lo Spirito che rinnova (cfr. Gv 19,30). Da lì sentiamoci chiamati, tutti e ciascuno, a dare la vita». E ancora, commentando un passo della lettera di San Paolo a Timoteo: «San Paolo rivolge un’ultima esortazione: “Non vergognarti di dare testimonianza ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo” (2Tm 1,8). Chiede di testimoniare il Vangelo, di soffrire per il Vangelo, in una parola di vivere per il Vangelo. L’annuncio del Vangelo è il criterio principe per la vita della Chiesa: è la sua missione, la sua identità. Poco dopo Paolo scrive: «Sto per essere versato in offerta» (4,6). Annunciare il Vangelo è vivere l’offerta, è testimoniare fino in fondo, è farsi tutto per tutti (cfr 1Cor 9,22), è amare fino al martirio».(4)

  1. Marcati a fuoco

Nell’espressione della EG, «Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare». Sì, il marchio di fuoco costituisce un paradigma efficace dell’esperienza missionaria. La missione, l’essere inviati, mandati, il divenire mediazione di Benedizione, di Bene, di Amore, è parte intrinseca e innegabile della vocazione di ogni cristiano, e prima ancora di ogni essere umano, fatto a immagine e somiglianza di Dio che è Amore. L’Amore non trattiene nulla per sé, neppure se stesso. Il nucleo di fuoco della mia persona è l’Amore. Lo spirito che mi sostiene, il nefesh, il Soffio vitale che fa di me una creatura vivente e una figlia di Dio è fatto della stessa sostanza di Dio, che è Amore. Nessuno può strappare da me questo soffio, nessuno può strappare da me questa Sostanza incandescente. L’aprire la mia persona all’accoglienza del fuoco dell’Amore, che dilata, purifica, libera, illumina, riscalda, vivifica, costituisce la dinamica che mi rende donna generativa, sposa e madre feconda, umile profetessa che, come Anna (cfr. Lc 2, 36-38) sa scorgere la Salvezza nel segno della piccolezza, della fragilità, della mitezza. È un Fuoco che, per sua natura, non può essere trattenuto; esso mi penetra, mi avvolge, mi rende, io stessa, fuoco e mi porta con sé ben al di là di me, coinvolgendomi in un movimento, una danza tutta di Dio eppure tutta mia, perché mi conduce alla vera essenza, al nocciolo della mia vita. «Il dono che abbiamo ricevuto è un fuoco, è amore bruciante a Dio e ai fratelli. Il fuoco non si alimenta da solo, muore se non è tenuto in vita, si spegne se la cenere lo copre. Se tutto rimane com’è, se a scandire i nostri giorni è il “si è sempre fatto così”, il dono svanisce, soffocato dalle ceneri dei timori e dalla preoccupazione di difendere lo status quo» (5). E questo sia a livello personale, sia a livello comunitario e Istituzionale. Chiediamoci: come ci prendiamo cura del fuoco che ci anima quali persone, comunità, Istituti? Come lasciamo che esso ci bruci dentro trasformando e ristrutturando i nostri schemi mentali e spirituali, le nostre organizzazioni comunitarie, le strutture della nostra vita consacrata? Una ristrutturazione, un ridisegnamento, una riorganizzazione di Istituto che non parta e non si radichi nell’attenzione a riscoprire e attizzare il fuoco spirituale è destinata ad assorbire tante energie e risorse senza riuscire a innescare e accompagnare una vera rinascita spirituale e carismatica.

  1. Nella luce della Visitazione

Desidero concludere queste suggestioni nella luce dell’icona della Visitazione, per gustare in essa il dinamismo squisitamente missionario che sospinge, inarrestabilmente e delicatamente Maria, donna immersa in Dio, marcata a fuoco dallo Spirito, in-via-ta nel Figlio, col Figlio e dal Figlio che la abita.

«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.  Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

Allora Maria disse:

“L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua».
(Lc 1,39-56)

Maria ed Elisabetta sperimentano la gioia profondissima di un incontro che coinvolge non solo le due donne, ma anche i figli della promessa, frutto delle loro viscere e di una Parola che, discesa dal Cielo si incarna, in modi del tutto diversi, nel tessuto umano di vite ordinarie segnate e trasfigurate dalla straordinarietà dell’avvento del Signore.

Maria si alza e va: divenuta sposa e madre, sospinta dal Fuoco dello Spirito che la riempie di Sé, Maria non trattiene la gioia, la consolazione! Adombrata da Dio, avvolta dalla sua tenerezza, eccola correre verso Elisabetta per condividere con lei l’Ombra benefica che la protegge, l’Abbraccio caldo che la sostiene, la Nube luminosa in cui è immersa. Il primo effetto della maternità di Maria è dunque il muoversi, l’andare, l’uscire da Nazaret per condividere la Gioia.

Arrivata alla casa di Elisabetta, vi entra. Che bello questo primissimo passo di avvicinamento all’altra! Maria, colma di Gioia, entra nella casa dell’altra, nel suo mondo, nella sua vita, bussando delicatamente alla porta e attendendo il permesso per accedere. Entra, Maria, non chiama fuori Elisabetta ma entra in casa sua e vi rimane, divenendo parte della famiglia, lasciando che le consuetudini, il linguaggio, le tradizioni, i sapori, i colori, gli aromi, i segreti di Elisabetta e Zaccaria penetrino nel suo animo, arricchiscano il suo bagaglio interiore mentre lei condivide la Pienezza! Sì, perché la Gioia che la riempie non esclude nessuno e non vanta autosufficienza, anzi, dilata il cuore di Maria agli spazi infiniti dell’accoglienza di Dio, alla Sua umile e appassionata sete dell’altro!

Shalom! È la prima parola che Maria pronuncia. Semplice, densissimo e sconvolgente, shalom è l’annuncio che fa sussultare la creatura nel grembo di Elisabetta, e non solo. Con Giovanni sussulta ogni germe di vita nel cosmo, abbandonandosi all’ebbrezza della danza, trascinato dalla melodia che fluisce dal nucleo densissimo di quella parola: Shalom! «Il Verbo immenso che distende i cieli, a cui le stelle rispondono per nome e regge nella mano l’Universo»  si lascia mediare dalla voce dolce e cristallina della Madre: Il saluto di Maria è somma benedizione, balsamo di vita, risveglio del desiderio assopito, consolazione per ogni cuore, invito alla danza della comunione!

La Pienezza è inarrestabile, la Gioia è contagiosa, lo Spirito è incontenibile: Elisabetta, travolta dall’esperienza del sussulto, diviene – lei pure – voce. Voce benedicente, voce della benedizione che tutto il creato eleva alla Madre e al Creatore che in Lei ama racchiudersi, accoccolarsi, nascondersi, rivelarsi: Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! Il saluto di Maria innesca la polifonia benedicente del creato, riattiva in Elisabetta i canali attraverso cui tale polifonia scorre, prende carne e voce, si manifesta in parola e canto.

In Elisabetta trova espressione lo stupore attonito dell’universo intero: A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Maria, uscita da Nazaret e entrata in casa di Elisabetta per condividere la Gioia, riceve da lei il dono del riconoscimento, della conferma. Elisabetta è l’eco umano dello Spirito, che ripete con voce di donna, sorella, madre, amica quanto Maria aveva sentito all’Annunciazione. Che bella questa reciprocità del dono! Annuncio suscita annuncio, gioia suscita gioia, vita suscita vita, in un interscambio fecondo, lietissimo, tutto umano e tutto divino!

E allora prorompe il Magnificat come canto di Maria per Dio ma anche come canto di Dio in Maria, perché il cuore divenuto dimora della Tenerezza non può fare altro che cantarLa. E allora, docile e ardente, il Verbo si lascia ancora una volta mediare dalla voce della Madre, il Soffio dal suo respiro, il Gemito inesprimibile dalla melodia: Magnificat! E allora, Maria diviene Porta di Misericordia, di Tenerezza, attraverso cui Dio consola la sua creatura con amore di madre.

L’icona della Visitazione si offre a noi come icona missionaria per eccellenza. Maria diviene missione, immersa in Dio, marcata a Fuoco dallo Spirito, inviata col Figlio e nel Figlio!

Quanto Maria e Elisabetta hanno ancora da offrirci nel cammino di inesauribile scoperta della ricchezza della nostra vocazione di donne consacrate, marcate a fuoco, immerse in Dio e da Lui inviate!

Lasciamoci guidare da loro, nella dinamica fecondissima e gioiosa dell’incontro, affinché, il nostro cammino di persone, di comunità, di Congregazioni possa qualificarsi come una immersione sempre più profonda e consapevole in quell’Oceano infuocato da cui tutto è cominciato e a cui tutto è attratto a tornare, quel Nucleo densissimo che è comunione di Persone, vita che sempre sgorga e sempre rifluisce, quale Onda lieta, trasparentissima, incandescente, lanciandoci in uscita e riconducendo, anche attraverso le nostre fragili vite, tutto e tutti nel quieto mare del Suo stesso Amore!  Amen!

Roma, 19 ottobre 2019

Sr Simona Brambilla, MC

  1. Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium,  Roma 2013, n. 273.
  2. Francesco, Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2019, Vaticano 9 giugno 2019.
  3. Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, Roma 1975, n. 20.
  4. Francesco, Omelia alla Santa Messa di apertura del Sinodo dei Vescovi per l’Amazzonia, Roma 06 ottobre 2019.
  5. Ibidem.

 

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