L’anticamera della speranza

Roraima è la punta estrema del nord Brasile: entra come un cuneo nel territorio di Venezuela e Guyana. Da almeno due anni è l’ anticamera della speranza per i profughi venezuelani che cercano cibo e lavoro.

Le nostre sorelle di Boa Vista (capitale dello stato di Roraima) si sono chieste: “Cosa possiamo fare?” Una domanda che, in questa situazione di emergenza, la Chiesa (e le altre Chiese cristiane) si è posta, cercando di aiutare almeno neli bisogni basici.

Le Missionarie della Consolata hanno deciso di dare una semplice colazione: pane e cioccolata calda. Dopo più di un anno, quest’opera di misericordia (perché si tratta di veramente di dar da mangiare agli affamati) da colazione a più di 400 persone – tra donne, bambini e uomini – ogni giorno.

Ed eccoli lì: prima delle cinque della mattina si mettono in fila davanti alla casa. Alle 06.30 c’è la Messa, e dalla finestra della cappella si possono vedere i bambini appoggiati alla ringhiera, e scambiare dei complici sorrisi con loro. Ogni giorno tre o quattro bimbi “lavorano”: raccolgono i bicchieri per poterli lavare in fretta e riutilizzarli (non ce ne sono mai abbastanza…). Ogni tanto, nella fila, ci sono piccoli stranamente biondi: è segno di denutrizione. Una mattina, mentre porgo il pane a uno di loro, lo afferra in fretta, oserei dire con disperazione, e lo addenta… Monsignor Casaldaliga, vescovo profetico del Brasile, diceva che ci sono solo due assoluti: Dio e la fame del povero. Mi trovo di fronte a entrambi: la fame di un piccolo innocente e Dio che si rivela compagno di questa tragica situazione.

Sono stata in Boa Vista solo dieci giorni, per un incontro, ed ho avuto l’occasione di conoscere questa triste realtà, ascoltando diverse persone. La Chiesa del Brasile si sta organizzando per trovare lavoro e alloggio alle famiglie, in diverse parti dell’immenso paese. E la piccola diocesi di Roraima ha organizzato per questa situazione la Caritas. Le suore di Madre Teresa sono arrivate in Boa Vista proprio per aiutare con la carità questi fratelli e sorelle bisognosi, e i Gesuiti, con la loro organizzazione per i rifugiati, si sono installati nella città per aiutare nella parte di diritti umani e documenti. Ma sembra che, nonostante la generosità e i numerosi sforzi, il senso di impotenza è molto grande, perché grande è la crisi.

Una donna wapixana, etnia dell’Amazzonia brasiliana, dice che arrivano molti fratelli e sorelle indigeni dal Venezuela, e che alle volte, il loro passaggio nelle comunità rurali, è motivo di sfruttamento nel lavoro, oppure causa di disordine nei piccoli villaggi.

Altri giungono passando la frontiera di Pacaraima: il parroco di lì annuncia che stanno entrando tra le 600 e le 800 persone al giorno. Boa Vista è la capitale di uno stato con poche risorse: la maggior parte degli abitanti lavora nella parte amministrativa o del terzo settore; non ci sono industrie o fabbriche, e fa pena vedere gli uomini venezuelani che vengono a prendere la colazione con la pala o la zappa in mano, nella speranza di trovare un piccolo lavoretto per il giorno.

Una giovane nonna racconta che sua figlia è immobile a letto per un incidente (è caduta da una bicicletta), e che suo nipote – che tiene ben stretto al suo fianco – piange sempre, e vuole la mamma. Un altro giovane papà piange perché suo figlio ha dei seri problemi di salute, e non ha nemmeno uno straccio per pulire la ferita nel fianco del suo piccolo. Un altro signore dice che vuole ritornare a tutti i costi in Venezuela, per il compleanno di sua figlia, e rimane inamovibile, nonostante i suoi amici nella fila della colazione gli dicano: “Ma sei matto! Se rientri in Venezuela, poi non puoi più tornare in Brasile!”.

Come essere consolazione per queste persone? Certo, un pane e un bicchiere di cioccolato non sono molto, ma è almeno l’occasione per dire che ci siamo, a questi fratelli e sorelle che entrano in Roraima, anticamera di una speranza chiamata Brasile.

suor Stefania Raspo, mc 

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