Tra i profeti del nostro tempo possiamo annoverare due eminenti figure di sacerdoti: dom Hélder Câmara, Arcivescovo di Recife (Brasile) e don Oreste Benzi. Per entrambi è in corso la causa di beatificazione.
Il Vescovo “rosso”
“Fratello dei poveri e fratello mio!”. Così Giovanni Paolo II salutò dom Hélder Câmara, nel 1986, durante la visita “ad limina” dei Vescovi del Brasile. Arcivescovo di Recife, definito apostolo delle favelas e profeta del Terzo Mondo, a 20 anni dalla sua morte Câmara è ancora un simbolo di quella Chiesa che si batte al fianco dei poveri per la giustizia.
Ordinato sacerdote nel 1931, divenne vescovo ausiliare di Rio de Janeiro nel 1952; nel 1964 fu nominato arcivescovo di Olinda e Recife, una regione tristemente famosa per la grande miseria che regnava ovunque. Fu qui che cominciò la sua attività a fianco dei poveri: denunciò sistematicamente lo sfruttamento delle classi sociali meno agiate da parte del potere politico, attaccando più volte la dittatura militare che guidava il Brasile, e denunciando l’uso della tortura da parte dei militari. Saldo nella sua battaglia pacifica contro la violenza, si oppose alle multinazionali e ai fazendeiros, che stavano riducendo sul lastrico i poveri contadini e danneggiando l’economia di tutto il Brasile. “La povertà evangelica – affermava – non ha nulla a che fare con la miseria, la quale è di per sé un’offesa al popolo”. Scelse di vivere poveramente, rinunciando a molti privilegi che la sua posizione gli avrebbe consentito, volle essere testimone vero del messaggio di povertà del Vangelo che predicava. Visse, infatti, a stretto contatto coi poveri, i contadini, i carcerati. Ai poveri aveva lasciato il suo palazzo vescovile, andando a vivere da povero in una periferia di Recife.
Chiese al governo brasiliano politiche sociali, educazione per tutti, finanziamenti a favore della popolazione e contro gli sprechi dell’industria bellica del regime. Ma la sua lotta contro l’ingiustizia non si limitò al Brasile, sua amata terra natale: Câmara non perse occasione per denunciare la sofferenza che accomuna i Paesi poveri. “L’umanità rinascerà quando i popoli del Terzo Mondo uniranno pensiero e azione e si riscatteranno”, diceva e aggiungeva: “Se aiuto i poveri mi dicono che faccio bene, se chiedo qual è la causa della povertà mi chiamano vescovo ‘rosso’ e ‘comunista’”.
Dom Hélder è stato soprattutto un cristiano: in ogni fratello e sorella che incontrava vedeva la presenza divina. Manifestava questa sua persuasione soprattutto nel rapporto con i più poveri ed emarginati. La sua figura esile e persino gracile (a causa della quale venne definito o bispinho, “il piccolo vescovo”) contrastava con la grandezza del suo pensiero e della sua opera, con il mito che negli anni ne ha fatto il simbolo di tante battaglie per la giustizia, la pace, il riscatto dei più poveri.
È stato un Padre Conciliare, dei più carismatici e propositivi: partecipò alle quattro sessioni del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Per le sue prese di posizione socio-politiche è stato fatto oggetto di minacce e di insulti. Alcuni suoi collaboratori, sacerdoti e laici, vennero torturati e uccisi (come il suo segretario nel 1969). E anche nella Chiesa ha patito incomprensioni.
Dom Hélder è morto nel 1999, all’età di novant’anni, a Recife. Nel 2015 è stata introdotta la sua causa di beatificazione, la cui fase diocesana si è conclusa nel dicembre 2018.
Il prete dalla “tonaca lisa”
Il 27 settembre 2014 è stata aperta la causa di beatificazione di don Oreste Benzi, morto nel 2007, soprannominato anche il prete dalla “tonaca lisa”, per la sua infaticabile opera a favore dei più poveri, oppressi, emarginati, disprezzati e rifiutati dalla società, in una completa dimenticanza di se stesso.
Ma chi era don Oreste Benzi? Possiamo dire che era una persona profondamente umile e di una semplicità disarmante, il quale, con il suo volto sorridente e accogliente, non incuteva timore a chi lo avvicinava. Era soprattutto un sacerdote di una fede cristallina e di una carità dirompente.
Don Benzi nasce nel 1925 a San Clemente, un paesino a 20 km da Rimini, da una povera famiglia di operai, sesto di 9 figli. Ordinato sacerdote nel 1949, inizia l’anno dopo ad insegnare in Seminario, divenendo anche vice assistente della Gioventù Cattolica di Rimini. In questo ruolo si sviluppa la sua attenzione particolare per il periodo della preadolescenza, che considera un periodo chiave nello sviluppo della personalità, e il suo impegno per far fare ai giovani un “incontro simpatico con Cristo”. Ma è soprattutto ai poveri, ai disabili e agli emarginati, a coloro che non hanno famiglia che egli rivolge la sua attenzione e il suo operare. Così nel 1968 fonda la “Comunità Papa Giovanni XXIII”, mentre viene inaugurata la prima casa-famiglia, struttura-simbolo della comunità. In queste case non ci sono operatori e utenti: le figure responsabili sono “papà e mamma, fratello e sorella”, 24 ore su 24, di chi per un periodo o per sempre ha bisogno di una famiglia. Altro aspetto innovativo della comunità pensata da don Oreste è la “complementarità”, per cui nella stessa casa può trovar posto il bambino e l’anziano, la persona sana e chi ha difficoltà sul piano fisico o psichico, dando la possibilità ad ognuno, come in una vera famiglia, di condividere limiti e risorse per il bene individuale e comune.
Nel 1986 inaugura a Ndola, in Zambia, la prima casa-famiglia in terra di missione. Da allora si moltiplicano i suoi viaggi all’estero per avviare nuove strutture in missione, o per visitare quelle già attive, che si trovano attualmente in 40 Paesi del mondo.
Col passare del tempo la sua opera apostolica individua molti altri campi di azione: i senza fissa dimora, raccolti per strada o in stazione, le donne vittime del racket della prostituzione, i tossicodipendenti, i carcerati.
Spesso lo si incontrava di notte, sulle strade italiane della prostituzione. “Do you love Jesus?” (Vuoi bene a Gesù?), chiedeva alle ragazze con il suo sorriso aperto e una gioia contagiosa. In molte scoppiavano in lacrime e rispondevano: “Yes, I love him…” (Sì, gli voglio bene…). Questa presenza tra le prostitute diventerà progressivamente uno dei campi di intervento in cui si impegnerà maggiormente, per liberare le “nuove schiave” e denunciare il silenzio delle istituzioni. Così facendo, ha cambiato il destino di molte persone.
È molto indicativo della spiritualità di don Benzi il giudizio formulato su di lui nel 2007 da mons. Francesco Lambiasi, vescovo di Rimini: “L’amore per Gesù è stato l’architrave della sua vita. Un amore ‘folle’ che lo rendeva tenacemente attaccato alla preghiera, alla Messa, che celebrava anche quando rientrava molto tardi da un pellegrinaggio. Si vedeva che nel più profondo del cuore gli scorreva, come un fiume carsico, il dialogo con Gesù, che di tanto in tanto affiorava in superficie. Si sentiva che era un uomo ‘carico’ di Dio”.
La “Comunità Papa Giovanni” è responsabile oggi di 253 case-famiglia, di 20 comunità di recupero, di diverse case di spiritualità e dimore per i senzatetto. Contando anche le case all’estero, si superano le 500 strutture, con 41mila persone riunite ogni giorno intorno ad una mensa. A chi gli chiedeva come avesse potuto espandersi un’opera simile in pochi anni, Giovanni Paolo Ramonda, successore di don Benzi alla guida della Comunità, rispondeva: “Fa impressione anche a noi vedere come in quarant’anni questa esperienza abbia contagiato tanta gente che ha scelto di vivere in comunità. Significa che don Benzi aveva ragione: tutti aspettano di incontrare il senso della vita e di darla interamente per questo”.
Suor Anna Maria Ceri, mc
questo articolo é stato pubblicato su Andare alle Genti
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