Maria di Nazareth
Non possiamo parlare del discepolato femminile senza dare inizio con Colei che ascoltava la Parola e la guardava nel suo cuore. Parlare di Maria è sempre una grande gioia perché nelle Scritture sono a lei dedicate molte pagine e il Concilio Vaticano II nella Costituzione Dogmatica “Lumen Gentium” dedicata alla Chiesa nella propria realtà costitutiva, parla di Maria SS. nel capitolo ottavo mostrandola come il tipo e l’immagine della Santa Chiesa, e riproponendo la sua figura come quella del “discepolo”, del modello della Chiesa che si fa discepola del Signore.
Tutta la sottolineatura che possiamo fare della grandezza di Maria, della nobiltà della sua persona, della potenza dell’opera salvifica operata da Dio nei suoi confronti deve tenere conto di questa dimensione umana.
Ne Vangelo si narra che all’Annunciazione, il Signore chiede a lei l’adesione a diventare Madre, perché è importante e necessario che la persona umana sia libera nella sua volontà di aderire, di accogliere la proposta di Dio; Maria non è “usata” ma è “collaboratrice”; liberamente vuole compiere quello che il Signore le propone.
Subito dopo, l’evangelista Luca narra la visita di Maria a Elisabetta: Maria, avendo ricevuto l’annuncio della salvezza, subito si alza e si mette in cammino per recare l’annuncio ad altri. È una dinamica molto importante ed è tipica dell’evangelista Luca la sottolineatura del ‘cammino’: il discepolo è una persona in cammino. Maria modello del discepolo che si mette in cammino con Gesù; avendolo concepito nel proprio seno; si mette subito in cammino con lui per portare l’annuncio di salvezza.
L’incontro con la parente Elisabetta è una scena graziosa, dove sono protagoniste due donne, due madri in attesa della nascita del figlio: l’anziana Elisabetta e la giovane Maria, di età intorno ai quindici o sedici anni. Si badi bene che questi termini anziana e giovane hanno un valore relativo in quanto una donna che, al tempo, si sposava intorno ai dodici o tredici anni, se a quaranta non aveva avuto figli, in quel contesto culturale era considerata anziana e non più in grado di averne. Pertanto, il primo parto, per una quarantenne, non era certamente un evento elementare e semplice e da qui nasce la premura di Maria di aiutare la parente.
L’evento straordinario è il concepimento di Maria, mentre quello di Elisabetta è un fatto particolarmente pregevole, è un dono di grazia, ma non è un evento impossibile e unico. Occorre quindi imparare a distinguere bene, nel senso che il concepimento di Maria è un evento unico e impossibile per l’uomo, mentre quello di Elisabetta è un dono di grazia concesso ad una persona che ormai non pensava più di poter avere figli; quel bambino è un dono di Dio e per questo si chiamerà “Giovanni”: dono di Dio.
Elisabetta, salutando Maria, la chiama “Madre del mio Signore”, per cui viene da domandarsi in che modo Elisabetta sappia che Maria aspetta un bambino, dal momento che ancora nessuno ne è al corrente; Maria ha saputo dall’angelo che potrebbe essere la Madre del Messia ed ha detto che è disponibile, ma non ha ancora avuto alcuna manifestazione della propria gravidanza, per cui neppure lei sa se è già in attesa di un bambino.
Quindi, ha risposto affermativamente all’angelo dichiarando la propria disponibilità e poi è partita; a questo punto, da Elisabetta che abita molto lontano e che non ha visto da molto tempo, sente dire “sei la Madre del mio Signore e ti sei degnata di venirmi a trovare”. Questa è la conferma che Maria si aspettava e proprio da questo incontro di due madri, che si riconoscono a vicenda e a vicenda riconoscono che Dio ha operato in loro, Maria canta il Magnificat e celebra il Signore, lodando le grandi opere che Egli ha compiuto, celebrando la misericordia di Dio che salva. Il Magnificat è un elemento liturgico e certamente è una preghiera tradizionale dell’ambiente giudeo-cristiano, nel quale è nato un linguaggio nuovo che ha le radici nella tradizione biblica. In questo ambiente di familiari di Gesù, si conserva la memoria di questi episodi, di questi incontri di donne, di questi canti sulle montagne di Giudea alla presenza di pochi testimoni, alla presenza di pochi familiari intimi.
Possiamo allora percorrere velocemente, in modo particolare nel Vangelo di Luca, le figure delle donne del Vangelo, sono le discepole, sono le persone che hanno seguito il Cristo ed hanno creduto in lui, come hanno creduto in lui tanti altri uomini; ma quello che è interessante nei racconti evangelici è la presenza insistente e abbondante di donne, addirittura al seguito di Gesù, fatto strano e provocatorio per quel tempo e per quella cultura: che un Rabbi abbia delle donne come discepole è strano. Nel suo tempo la vita civile era molto più rigorosa nel separare uomini e donne; anche in questo caso Gesù sa andare controcorrente e Luca, proprio perché è greco ed ha recepito bene questa idea, sottolinea questi aspetti più degli altri evangelisti cosicché, in molti casi, nel suo Vangelo ci sono delle figure femminili che raddoppiano quelle maschili. Vediamo qualche esempio.
Nella presentazione al Tempio compare Simeone, “uomo giusto, timorato di Dio, pieno di Spirito Santo”, che riconosce il bambino; subito dopo compare una donna, la profetessa Anna, di ottantaquattro anni, che era rimasta vedova dopo sette anni di matrimonio, da ragazza che poteva quindi avere una ventina di anni quando era rimasta vedova. Adesso da più di sessanta viveva nel tempio, notte e giorno: è una donna strana, una figura fuori dal normale, chiamata profetessa forse per il suo gran parlare; questa donna, in mezzo alla confusione del Tempio, riconosce in quel bambino normalissimo la visita di Dio e ne parla con tutti, a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme lei dice che è arrivata, che ha visto il Signore. Molti l’avranno considerata matta; invece, una figura del genere entra nella dignità evangelica come importante annunciatrice della presenza di Dio nella nostra storia.
Altro esempio ci viene dato dalla parabola della pecora perduta e del pastore che la va a cercare, scritta anche da Matteo. Soltanto Luca però ne aggiunge un’altra uguale, dove protagonista è una donna che ha dieci monete e ne perde una; si dà allora un gran daffare per spazzare tutta la casa e per cercare sotto i letti e i mobili fino a quando non l’abbia ritrovata. Ritrovata la moneta chiama le amiche – mentre il pastore chiama gli amici – per fare festa insieme. È un autentico quadretto duplicato al femminile per mettere in evidenza come la dimensione della misericordia di Dio, che cerca ciò che è perduto, sia maschile e femminile. Sono due piccoli quadri di vita normale, dove però il pastore è la versione al maschile mentre la donna che cerca la moneta per casa è quella al femminile.
In un’altra parabola c’è l’amico che va a bussare di notte e insiste perché gli venga aperto; e c’è l’altra parabola della vedova insistente che chiede che le venga fatta giustizia. La donna diventa il modello del discepolo che chiede, gridando al Signore notte e giorno, il soddisfacimento della giustizia; e Gesù continua dicendo che “se un giudice disonesto alla fine cede e le fa giustizia, volete che il buon Dio, giustissimo, non faccia giustizia ai suoi che notte e giorno gridano a lui? In verità vi dico che la farà prontamente”.
Occorre qui fare attenzione per evitare che anche noi ci adattiamo le cose un po’ come vogliamo, pensando che si possa chiedere al Signore qualsiasi cosa insistendo, che tanto prima o poi ce la concederà; non è così perché la parabola parla di giustizia, si tratta di chiedere la giustizia al Signore. Domandiamoci cosa significa per noi “gridare notte e giorno per chiedere giustizia”: il significato è quello che San Paolo chiama giustificazione, l’essere giusti e che, se vogliamo, possiamo tradurre con “diventare santi”. Se noi gli chiediamo, gridando notte e giorno, di diventare santi, non è pensabile di non essere ascoltati; il fatto è che non lo “gridiamo”, cioè non desideriamo così intensamente la “giustizia” mentre invece desideriamo delle cose o delle situazioni che ci fanno comodo e che ci piacciono, con la pretesa che il Signore ci venga dietro: questo non è l’atteggiamento del “discepolo accogliente”. L’immagine della vedova richiama la condizione di una donna senza diritti e senza difese; anche qui dobbiamo tenere conto della situazione dell’epoca, quando non esistevano tutele di sorta né strutture sociali che garantissero una vita onorata a persone come la vedova, prive di denaro, di mezzi e di forza per difendere i propri diritti, per cui soltanto chi usava misericordia poteva venire loro incontro. Orfani e vedove sono infatti le immagini tradizionali della Bibbia, le figure dei deboli, di coloro che hanno perso i diritti, non per legge ma di fatto, perché in una società oppressiva chi non ha la forza di difendersi viene tagliato fuori e oppresso. La situazione attuale non è poi molto diversa, ancorché non più legata agli orfani ed alle vedove, perché i deboli e gli indifesi che vengono usati, truffati e sfruttati rappresentano purtroppo una realtà ancora comune; così, l’immagine della donna che subisce ingiustizia e non trova chi difenda i suoi diritti diventa l’immagine del discepolo accogliente.
- Mi sento discepola di Gesù?
- Lo seguo con intensità ed amore come hanno fatto Maria ed Elisabetta e le altre discepole oppure mi accontento di fare piccole cose?
- Chiedo con forza la giustizia per me e per tutta l’umanità?
sr. Renata Conti MC