LA VOCAZIONE DI GEREMIA: LA SFIDA DELLA SPROPORZIONE

I racconti biblici di vocazione non mirano tanto a riferire un episodio iniziale della biografia di un uomo o di una donna di Dio, ma a tratteggiare il fondamento della loro esistenza e del loro ministero all’interno del popolo di Israele. Si tratta di render ragione di che cosa muova e legittimi il loro compito.

Anche la figura di Geremia non fa eccezione rispetto a questa istanza. Il profeta si trova ad agire in uno degli snodi più sofferti della storia di Israele, gli anni in cui Gerusalemme subisce una duplice devastazione da parte dei Babilonesi, con il conseguente esilio della sua classe dirigente. In questo contesto, Geremia è chiamato da Dio non a portare un messaggio rassicurante, ma a smascherare i peccati e le responsabilità degli Israeliti: un “profeta di sventura” destinato inevitabilmente a suscitare sentimenti ostili nei suoi interlocutori.

Ger 1,4-10 ci presenta il racconto della vocazione del profeta: in che cosa affonda la sua tribolata tenacia nel portare avanti la sua missione? Il racconto offre più di una risposta.

Innanzitutto, la missione di Geremia affonda in una relazione unica che Dio gli ha riservato, rivolgendogli da sempre la sua attenzione e la sua parola: “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato: ti ho stabilito profeta delle nazioni”. Il ministero di profeta non è stato aggiunto a un certo punto della vita del profeta, ma è parte costitutiva della sua identità, una dimensione intrecciata con il suo stesso venire al mondo. Geremia sarà in grado di parlare a nome di Dio, perché da sempre Dio, come un padre, gli ha rivolto la sua parola, rivelandogli in tal modo la sua dignità di figlio. Prima di qualsiasi variabile della vita, Geremia saprà di poter contare sulla benevolenza che da sempre il Signore gli ha riservato.

L’obiezione di Geremia (“Ecco, io non so parlare, perché sono giovane”) dice che il destinatario della chiamata non si trova costretto a subire ad ogni costo, è in gioco la sua libertà, che nell’obiezione trova espressione. Geremia non avanza obiezioni di dettaglio: se il profeta è uomo della parola, il chiamato dichiara la sua incapacità di parola. Non si tratta di un problema di locuzione (non è balbuziente), né di mancanza di preparazione retorica (sarebbe risolvibile con qualche ulteriore anno di scuola): Geremia riconosce di non essere adeguato rispetto alla parola di cui dovrà essere veicolo. Anche la menzione della giovinezza con cui giustifica la sua obiezione, non è un problema di età (la giovinezza è una difficoltà che si risolve da sé, con il passare degli anni), ma di mancanza di autorevolezza: rispetto alla parola di Dio, Geremia sa di non poter garantire credibilità con il suo profilo umano.

Le successive parole divine rispondono all’obiezione di Geremia, innanzitutto invitandolo a non fissarsi sull’evidenza della sua inadeguatezza: Dio non nega che Geremia sia giovane, lo invita a non farlo diventare dirimente. La sua inadeguatezza è superabile, per un verso, assumendo il mandato profetico nella sua interezza: non sarà lui a determinare destinatari e contenuti, dovrà essere obbediente a quanto il Signore stesso gli indicherà (il ministero profetico è da vivere in termini di obbedienza, non di autodeterminazione: proprio l’autodeterminazione lascerebbe l’uomo in balia dei propri limiti). Per altro verso, l’inadeguatezza segnalata da Geremia non è superata da Dio negando eventuali difficoltà o prospettando un ministero dai successi garantiti, privo di tribolazioni. Il Signore invita Geremia a non vivere di paure rispetto alle possibili reazioni negative dei suoi interlocutori, ma a contare fiducioso sulla sua protezione: le difficoltà e gli insuccessi ci saranno, a Geremia sia sufficiente sapere che Dio non lo abbandonerà e sarà al suo fianco. Per vincere le nostre paure non serve l’illusione circa l’assenza di problemi, ma è decisivo sapere di non dover essere soli ad affrontare le difficoltà: a maggior ragione il principio vale se è Dio stesso a promettere accompagnamento.

Il segno divino si muove a sbloccare la bocca di Geremia, l’organo principale della sua missione profetica. È Dio stesso a riempire la bocca della sua parola, quella parola che l’uomo non è in grado di darsi da solo e che significa possibilità di relazione con Dio. Nella conferma finale, Dio rende il profeta partecipe della sua sovranità sulla storia. I sei verbi finali, presi dall’ambito dell’agricoltura (sradicare e piantare) e dell’attività edile (demolire, distruggere, abbattere ed edificare) sono eloquenti della missione che si prospetta a Geremia, sia nella loro proporzione che nella loro sequenza. La netta prevalenza di verbi dalla valenza negativa (quattro su sei) ben riflette la tonalità complessiva del ministero di questo profeta: in quel passaggio delicato della storia di Israele, Geremia è chiamato ad annunciare il castigo divino a causa dell’infedeltà del suo popolo, gli Israeliti devono comprendere ciò che Dio sta loro dicendo attraverso quanto sta accadendo. Allo stesso tempo, il fatto che gli ultimi due verbi della serie siano positivi testimonia quale sia il senso ultimo non solo della predicazione di Geremia, ma anche del duro castigo divino: obiettivo ultimo delle vicende in corso non è la fine di Israele, il momento punitivo è interlocutorio rispetto al momento della salvezza e della vita.

di don GERMANO GALVAGNO

L’Autore, presbitero della Diocesi di Torino, è biblista e docente di Esegesi dell’Antico Testamento presso la Facoltà teologica e l’ISSR torinesi.

questo articolo è stato pubblicato su Andare alle Genti

per informazioni e abbonamenti alla rivista, clicca qui

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *