Le beatitudini ci permettono di dipingere con una certa chiarezza il ritratto del Discepolo. La prima e l’ottava beatitudine promettono come ricompensa il Regno dei Cieli, e sono le uniche a contenere una promessa formulata al presente. Il Regno dei Cieli non è una consolazione “da attendere” nel futuro: il discepolo vive già nel Regno. Le condizioni che introducono il discepolo nella novità del Regno sono due: la povertà di spirito e la persecuzione a motivo della giustizia.
- La povertà di spirito. Questa disposizione d’animo, o virtù, apre la serie delle beatitudini, ed è la porta di ingresso. La povertà di spirito non va confusa con la povertà materiale: la specificazione “di spirito” intende indicare proprio il fatto che non è in questione la quantità di cose che si possiedono ma il valore che si attribuisce. La mancanza di povertà di spirito impedisce il discepolato, sia che essa si collochi nella sfera dei beni materiali, sia che si collochi in quella dei beni di ordine morale.
I due aspetti della povertà di spirito si realizzano in pieno, di Gesù e di sua Madre. I Vangeli dell’infanzia ne sono una impressionante testimonianza. Fin da quando si trova nel grembo della Madre “non c’era posto” (cfr. Lc 2,7) per Lui in questo mondo. La sua nascita è quindi sprovvista delle risorse normali che sono a disposizione di tutti, sia ricchi che poveri. Da adulto, durante il ministero pubblico, “non ha dove posare il capo” (cfr. Mt 8,20) e si ferma dove viene ospitato (cfr. Lc 10,38 e 22,11). Gesù tende a utilizzare le risorse a sua disposizione, senza farne un assoluto. Come uomo, l’unico elemento a cui attribuisce un carattere assoluto è la Parola che, udita dal Padre trasmette alle folle che si radunano per ascoltarlo come Maestro (cfr. Gv 5,19-30 e Lc 10,21-22). Come uomo, in certo qual modo, anche Lui vive “un suo discepolato” nei confronti del Padre che gli indica costantemente cosa deve fare e cosa deve dire. Lo stesso avviene nel discepolato di Maria. Ella vive realizzando la Parola, e la Parola si realizza in Lei. Per il resto, la vita quotidiana scorre sui binari di ciò che è essenziale, senza strane ambizioni, e senza illusioni su sé stessa, sapendo di essere, davanti a Dio, soltanto la “sua serva” (cfr. Lc 1,48).
- Questa capacità di usufruire di tutte le cose create, senza assolutizzarne alcuna, si chiama evangelicamente “povertà di spirito”, ed è un atteggiamento che rende beati coloro che vivono così.
- La persecuzione a causa della giustizia. Questo aspetto non si può mai separare dal cammino del discepolato. Il discepolo è sempre oggetto di persecuzione. Si può dire che tutta la Bibbia è una dimostrazione di questa verità. In particolare la seconda lettera a Timoteo si esprime con termini molto precisi a questo riguardo: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (3,12). Il testo non sembra ammettere eccezioni di tempo o di luogo o di circostanze: il fatto di vivere in Cristo costituisce già un reato perseguibile in tutti i tempi e in tutti i luoghi, e oggi lo possiamo costatare anche noi. Il Nemico che si oppone al cammino del discepolo è Satana, e lo fa in molte maniere, sia alleandosi con gli uomini che gli danno spazio, sia agendo da solo. Le Scritture testimoniano entrambe le strategie di attacco. Satana agisce da solo, ossia senza servirsi di strumenti umani, quando ad esempio suggestiona la mente di Eva (cfr. Gen 3,1ss), o quando colpisce Giobbe (cfr. Gb 1,9-12), oppure nelle tentazioni del deserto, Gesù viene fortemente suggestionato dallo spirito del Male (cfr. Mt 4,1ss). In altri casi, lo spirito del male cerca alleati umani: nel momento in cui Satana prende coscienza del fatto che le sue suggestioni non sono capaci di far deviare Cristo dalla sua missione, allora cambia strategia e lo colpisce attraverso il Sinedrio. È ciò che si è poi ripetuto regolarmente nella storia della Chiesa; a molti santi è accaduto questo: quando Satana non è riuscito a farli deviare mediante la suggestione e l’inganno, allora ha iniziato a tormentarli attraverso le autorità o civili o ecclesiastiche. Si tratta proprio di un mistero, perché spesso, nelle realtà umane, e soprattutto nelle istituzioni, sono proprio i migliori a essere emarginati, messi fuori combattimento, non ascoltati e resi incapaci di influire sulle grandi decisioni, in cui avrebbero probabilmente una parola di sapienza. La lettera agli ebrei esprime proprio questo mistero, in 11,32-38, a proposito di tutti coloro che nell’AT vissero nella fede.
- In un cammino evangelico profondo, prima o poi ci si imbatte nel mistero della persecuzione.
- La beatitudine dell’afflizione. Per la Bibbia, la gioia e l’allegria non sempre sono un valore; vale a dire: ci sono casi in cui la gioia scaturisce dalle esperienze migliori della vita, mentre in altri casi l’allegria è sinonimo di superficialità e di stoltezza. Nella stessa maniera, anche il dolore e l’afflizione per la Bibbia sono delle realtà ambivalenti: c’è il dolore che porta alla sapienza e che quindi rende migliore l’uomo, liberandolo dalle sue stupidità, e c’è il dolore che invece porta alla ribellione e alla disperazione. Sarà opportuno fare qualche riferimento specifico: il profeta Geremia descrive sé stesso nell’atto di scegliere quale gioia sperimentare: “Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore… Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate di buontemponi, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario” (15,16-17). Geremia sente con chiarezza che c’è differenza tra gioia e gioia, e che bisogna saper scegliere di che gioia gioire. Avendo gustato la parola di Dio, le brigate di buontemponi non lo divertono più. I libri sapienziali spiegano in diverse maniere che non si può evitare l’esperienza del dolore, se si vuole giungere alla sapienza: la sapienza si comunica dopo aver messo alla prova l’uomo giusto (cfr. Sir 4,17-19). L’esperienza sofferta del proprio limite umano è il vestibolo della sapienza. Anche la prima di Pietro va in questa linea: “Dopo una breve sofferenza, Dio vi confermerà” (1 Pt 5,10). Lo stesso Cristo, in quanto uomo, ha raggiunto la pienezza della sua maturità mediante la sofferenza (cfr. Eb 2,10). L’Apostolo Paolo distingue anche lui due modi di essere tristi: “La tristezza secondo Dio produce il pentimento che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10). Analogamente, vi sono pure due modi totalmente diversi di rallegrarsi; vi è l’allegria dello stolto: “Guai a voi che ora ridete” (Lc 6,25), ma vi è pure l’esultanza del saggio: “Il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1,47).
- Il vero senso della beatitudine dell’afflizione va quindi cercato in quel particolare tipo di sofferenza, di cui le Scritture dicono che porta alla scoperta della sapienza e introduce nell’esperienza della salvezza.
- La beatitudine della mitezza. La mitezza è una virtù che sboccia sul terreno di un’altra virtù che si chiama “dominio di sé”. L’Apostolo Paolo cita tra i frutti dello Spirito, l’una accanto all’altro, la mitezza e il dominio di sé (cfr. Gal 5,22). Ciò significa che tanto l’una quanto l’altro possono esistere solo nel quadro della vita di chi cammina secondo lo Spirito. L’uomo che pensa e agisce in modo puramente naturale non sa neppure che cosa siano la mitezza o il dominio di sé, e spesso, vedendoli in una persona che vive il Vangelo, li fraintende, credendo che la mitezza sia in realtà debolezza, e il dominio di sé lo scambia con l’indifferenza. In verità, questo succede con tutto il resto delle manifestazioni dell’uomo spirituale; Dice S. Paolo che “l’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle” (1 Cor 2,14). Dunque, solo chi vive pienamente la vita nello Spirito sa che cos’è effettivamente la mitezza. Ai miti, Cristo promette la terra, cioè la creazione, come eredità. La virtù della mitezza si inquadra nella stessa logica di tutte le altre virtù evangeliche, la logica indicata da Cristo ai suoi discepoli, e che potremmo definire “logica imitativa”: siate perfetti come è perfetto il Padre (cfr. Mt 5,48). La fisionomia spirituale del discepolo si costruisce lungo la maturazione di un processo imitativo per il quale il battezzato diventa tanto più cristiano quanto più agisce come agisce Dio. Al discepolo è richiesta la mansuetudine non perché essa fa parte delle “buone maniere”, ma perché Dio stesso è mansueto. Dio si comporta con noi in maniera dolce e indulgente, governa tutto con mansuetudine, e si può permettere di essere mansueto non perché non ha forza, ma, al contrario, Lui è Amore. Ciò significa che la mansuetudine, come virtù evangelica, è autentica solo quando scaturisce da un animo reso forte dalla Presenza dello Spirito di Dio. Infatti, esiste anche una mansuetudine che non è virtù ma è semplice debolezza; è molto facile però distinguerle, perché chi cammina profondamente nella via del Vangelo, non è mai debole, perché lo Spirito di Dio gli dà una statura morale molto grande, e se non si impone lo fa solo per scelta.
Già il Salmo 45 presenta il Messia avanzare “per la verità, la mitezza e la giustizia” (v. 11). Anche il profeta Zaccaria si muove nella stessa linea: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile…” (9,9). E Isaia: “Quando sarà estinto il tiranno… allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine” (16,5). Finché ci viene svelata la volontà del Maestro, per il Quale la scelta della mansuetudine, prioritaria per Lui, deve esserlo anche per i suoi discepoli: “Imparate da Me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,29). Il vertice della sua divina mansuetudine è rappresentato dal modo con cui Egli ha affrontato la sua Passione, rimanendo in silenzio dinanzi alle accuse e alle ironie di chi gli chiedeva un prodigio per dimostrare a tutti di non essere un impostore (cfr. Mt 27,39-40.49; Lc 23,8.37.39).
Il grande valore della mansuetudine è fortemente radicato nella coscienza degli Apostoli. La mansuetudine è infatti la scelta di fondo del ministero dell’Apostolo Paolo: “Io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo” (2Cor 10,1). Quanto all’eredità della terra è un concetto che Cristo riprende dal Salmo 37, e questo particolare ci fa pensare che la promessa di entrare nella nuova creazione sia strettamente legata al rispetto della natura, che presuppone appunto la scelta della mitezza. Il contrario della mitezza è infatti la violenza, ossia la violazione anche sulle cose, l’usare male di esse. Ogni atto violento va a colpire i diritti di Dio nelle sue creature. Per questo, il disprezzo dell’ecosistema, e la violazione degli equilibri su cui si regge la terra, è uno stile di vita che rende la persona inaffidabile; vale a dire: dal punto di vista di Dio, la creazione nuova che ci è stata promessa, difficilmente potrà essere affidata alle mani di chi ha rovinato la creazione precedente, nella quale ci stiamo attualmente muovendo.
- Il mite sceglie di trattare ogni cosa creata con grande delicatezza e rispetto. Per questo, Dio gli affiderà la prossima, meravigliosa creazione (cfr. Ap 21,1).
- La beatitudine di chi attende il compimento della giustizia. Nella Bibbia, una delle caratteristiche dell’uomo giusto è la sofferenza dovuta al male che egli vede intorno a sé. Ne abbiamo una toccante testimonianza nel libro del profeta Abacuc: “Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti… Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? … L’empio infatti raggira il giusto e il giudizio ne esce stravolto” (1,2-4). La seconda lettera di Pietro dice che Dio “liberò il giusto Lot, angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto, infatti, per ciò che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno” (2,7-8). La persona giusta è sempre accompagnata da questa spina nel fianco: il fatto di essere spettatrice del trionfo dell’ingiustizia e il più delle volte perfino impotente a fare qualcosa. E in ogni parte della terra avrà regolarmente la prevalenza sulla giustizia. Dio stabilirà la giustizia definitiva quando questo cielo e questa terra saranno passati. Proprio questo è l’anelito della seconda lettera di Pietro: “Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta… E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,10.13). Cristo infatti promette giustizia a quelli che soffrono nel vedere il dilagare del male intorno a sé, e lo fa nella qualità di Re del Regno che viene. Il futuro grammaticale “saranno saziati” allude al futuro esistenziale dell’instaurazione del suo Regno che nel tempo attuale è presente solo in germe. In altre parole, il Re del Regno futuro non lascerà sospesa la giustizia e restaurerà tutti gli equilibri turbati da una storia umana fatta di soprusi, guerre, conquiste, genocidi, pulizie etniche, ingiustizie sociali e individuali. Anche qui il discepolo è invitato a imitare Cristo che “rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia” (1 Pt 2,23).
- Ai discepoli è richiesta una grande capacità di fede, di sopportazione, di sofferenza, di attesa, di pazienza, di perdono fino alcompimento della giustizia (cfr. Mt 13,24-30)
- La beatitudine dei misericordiosi. Qui il discepolo si può dire che tocchi il punto più vicino allo stile di vita realizzato da Gesù. Gli uomini e le donne che sanno perdonare sono infatti coloro che gli somigliano di più. Non è la capacità di soffrire ciò che ci fa rassomigliare a Cristo: infatti, la sofferenza non ha neppure un valore evangelico, qualora sia sopportata da un animo non riconciliato, risentito o ribelle. La Misericordia di Cristo sgorga dal cuore stesso della sua sofferenza, cioè dalle ferite aperte della Croce, e perciò ogni misericordia autenticamente evangelica è sempre qualcosa che somiglia a un perdono che fluisce da una ferita aperta. La misericordia è un atteggiamento possibile solo a coloro che vivono nella sapienza della croce. Taluni dicono di non riuscire a perdonare, nonostante i loro sforzi; ed è vero perché a volte si cresce nella sapienza umana ma non nella grazia battesimale.
Il discepolo deve in sostanza “riprodurre” lo stile dell’agire di Dio, e il suo comportamento, nella sfera delle relazioni interumane. Questo significa dare un’idea visibile della rivelazione. Il discepolo è dunque una “rivelazione personale” di Dio alla portata degli uomini. È il modo di essere del discepolo che deve “dire” qualcosa di Dio, prima ancora delle sue singole azioni o delle sue singole parole. Sotto questo aspetto, l’atteggiamento della misericordia è un canale privilegiato di rivelazione, perché la Misericordia è appunto una nota costante dell’agire di Dio.
La misericordia di Dio si personifica nella persona di Gesù. La sua offerta di misericordia è fondata infatti sulla propria morte di croce. Questo è esattamente il senso delle parole che Egli pronuncia sul calice durante l’Ultima Cena: “Bevetene tutti, perché questo è il mio Sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,27-28). L’Apostolo Pietro, riprendendo un oracolo di Isaia, esprime proprio questa medesima idea nella sua prima lettera: “Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1 Pt 2,25).
- Il discepolo deve in sostanza “riprodurre” lo stile dell’agire di Dio, e il suo comportamento, nella sfera delle relazioni interumane.
- La beatitudine dei puri di cuore.Ai puri di cuore è promessa la visione di Dio. Ci si deve chiedere a quale visione Cristo qui intenda riferirsi: se a quella che si ha di Dio dopo la morte, oppure anche a qualcosa d’altro. La visione di Dio dopo la morte è comunque inclusa necessariamente in questo enunciato, come parte integrante della fede biblica; si può ricordare a questo proposito il libro di Giobbe: “senza la mia carne vedrò Dio” (19,26), oppure la prima lettera di Giovanni: “Lo vedremo così come Egli è” (3,2). La Scrittura insomma afferma in più punti che Dio può essere visto dall’uomo in visione diretta, ma non con gli occhi del corpo; di conseguenza, la visione diretta di Dio è possibile solo dopo che l’anima umana si è liberata dai limiti della corporeità.
Secondo le Scritture, però, questo non è l’unico modo di “vedere Dio”. Per esempio, in Es 24,10 si dice che Mosè e gli anziani “videro il Dio di Israele”. Il profeta Isaia, nel giorno della propria vocazione, avverte una particolare cognizione della gloria di Dio: “Io vidi il Signore seduto su un trono… i miei occhi hanno visto il Re” (6,1.5). Infine, Gesù stesso, nel suo dialogo notturno con Nicodemo, afferma la possibilità di “vedere” il Regno di Dio, ancor prima di morire, ma a condizione di essere rinati dall’alto (cfr. Gv 3,3). Ai suoi discepoli, poi, Cristo dice: “Fin da ora avete visto il Padre… chi ha visto Me, ha visto il Padre” (Gv 14,7-9).
La beatitudine dei puri di cuore, va allora interpretata in entrambe le direzioni: Dio e il suo Regno sono visibili già su questa terra, anche se non a tutti. La purezza di cuore si presenta perciò come la condizione della visione di Dio in questa nostra dimensione umana: è puro quel cuore che cerca Dio senza seconde finalità. In sostanza, la radice della purezza di cuore è cercare Dio senza cercare se stessi. A questi, Dio dà la visione di Sé, già in questa vita. Vedere Dio in questa vita equivale a riconoscere il suo passaggio e i suoi “segni”. Cristo piange su Gerusalemme proprio perché non ha saputo “vedere” Dio che l’ha visitata a suo tempo (cfr. Lc 19,41-44).
- La radice della purezza di cuore è cercare Dio senza cercare se stessi. A questi, Dio dà la visione di Sé, già in questa vita. Vedere Dio in questa vita equivale a riconoscere il suo passaggio e i suoi “segni”.
- La beatitudine degli operatori di pace.La riconciliazione e la pacificazione rappresentano delle attività specifiche del Figlio e sono anche gli obiettivi prioritari nella sua missione terrena. È quindi bello che Dio consideri suoi figli coloro che portano avanti nel mondo la medesima opera del Figlio. Da questo punto di vista si capisce che si diventa figli di Dio se si ha la disponibilità personale a consegnarsi per la causa della pace. L’Apostolo Paolo sottolinea a più riprese il fatto che Dio è il datore della pace: “Il Dio della pace sia con tutti voi” (Rm 15,32); “La pace di Dio custodirà i vostri cuori” (Fil 4,7); perciò, il Vangelo stesso è innanzitutto annuncio di pace: “… avendo come calzatura lo zelo per propagare il Vangelo della pace” (Ef 6,15). La pacificazione è dunque l’opera principale di Dio in Cristo, nel quale il Padre ha riconciliato il mondo a Sé (cfr. 2 Cor 5,18 e Col 1,20). Tutti quelli che vi aderiscono, sono figli di Dio, e tutti coloro che sono figli sono inconfondibilmente pacificatori. Va però ricordato che i discepoli saranno odiati proprio per essere tali e questo è un segno evangelico molto consolante (cfr. Mt 5,11-12 e Lc 6,26). L’opera di pace portata avanti nel mondo dai figli di Dio è identica a quella del Figlio: essa si esprime innanzitutto nell’offerta della propria vita e della propria preghiera di intercessione per tutti gli uomini, e nella capacità di accettare e accogliere tutti nel proprio cuore così come sono.
- Tutti quelli che vi aderiscono, sono figli di Dio, e tutti coloro che sono entrati nella Paternità di Dio, si riconoscono in base a questa caratteristica inconfondibile di pacificatori.
Riflettiamo:
- Se dovessi tracciare il mio ritratto alla luce delle Beatitudini ne uscirebbe il ritratto del Discepolo?
- Con quale delle beatitudini mi identifico meglio?
- Sento in me l’urgenza di vivere le beatitudini?
sr. Renata Conti MC