“Pole, pole tutafika” (piano piano arriveremo)

Suor Helen ci racconta i primi passi della nuova comunità di Kilwa in Tanzania

Kilwa è il nome del distretto e anche della provincia dove la nostra nuova comunità di Suore Missionarie della Consolata in Tanzania è situata. Masoko è il nome specifico della città dove si trova la parrocchia “Stella Maris”. Qui nell’antichità c’era il mercato degli schiavi che venivano da tutte le parti dell’Africa Orientale, ed erano venduti ai grandi mercanti per essere trasportati in nave alle destinazioni internazionali. Di fatto la parola “masoko” si traduce con “mercati”. Quelli che allora erano ritenuti non idonei per l’esportazione, erano abbandonati in un’isola dove molti morivano. I sopravvissuti, non sapendo tornare a casa, sono poi diventati gli antenati degli abitanti di questo luogo. Non hanno una tribù e non portano nessun cognome o nome del clan di appartenenza. Una piccolissima percentuale di abitanti, sparsi a gruppetti qua e là, è della tribù Makonde, sfollata dal Mozambico durante la Guerra. Altri sono provenienti da diverse tribù e qui lavorano come operatori civili, quindi temporaneamente. Questi formano la maggioranza dei cristiani/cattolici.

In questo contesto siamo arrivate nel mese d’aprile 2018. Ci siamo sentite subito molto consolate dall’accoglienza cordiale e sincera della chiesa locale, cominciando dal Vescovo Monsignor Bruno Pius Ngonyani, dal Parocco Don Ferdinard Mpemba e tutta la comunità cristiana. Anche i nostri fratelli musulmani ci davano il benvenuto vedendoci per la città. Difatti ancora oggi se non ci vedono in giro per qualche giorno, ci chiedono, poi, come mai non c’eravamo e dove eravamo andate. Vogliono sapere notizie della consorella che non hanno visto per un po’, se ha viaggiato, se non sta bene… Questo ci fa capire che la nostra presenza è valida anche se non facciamo niente di speciale.

Quando passa la nostra vecchia Toyota vedi manine sventolare e le tenere voci dei bambini pronunciare: “masista, masista” (cioè “le suore, le suore”). A nostra volta noi salutiamo piccoli e grandi che anche loro sorridono vedendo i loro bambini felici. Questo saluto ci incoraggia molto perché è l’unica base di comunicazione con tanti nostri fratelli.

L’altro giorno, mentre tornavo a casa, mi corre incontro con le braccia aperte il bambino dei nostri vicini di casa e mi abbraccia calorosamente. La sua famiglia è musulmana ma quando sente la nostra auto Kam si precipita sulla strada per salutarci. E così tramite lui si è stabilito un rapporto di amicizia con i suoi familiari, specialmente con sua mamma.

Siamo arrivate qui senza un progetto ben definito. Subito ci siamo messe a visitare e pregare con le comunità di base e ad ascoltare ciò che si aspettavano da noi. Essi continuano a ripetere che la nostra presenza ha portato loro speranza.

La minoranza cristiana qui è discriminata in tanti modi. Venendo da fuori, molti non osano farsi riconoscere come cristiani e presto assumono un atteggiamento di indifferenza per non essere emarginati. Anche i bambini della scuola soffrono per il fatto che i loro compagni ridono di loro finché molti alla fine non vogliono più andare in chiesa e scelgono addirittura di iscriversi alla scuola di Corano con i loro compagni. Quindi la comunità cristiana ha accolto il nostro arrivo come segno di speranza. Vedendoci girare come suore cattoliche si sentono anche loro incoraggiati a essere ciò che sono. Ci hanno subito chiesto di radunare i bambini ed insegnare loro catechismo così che possano crescere nella loro identità. Abbiamo incominciato l’oratorio e il numero di quelli che lo frequentano è in aumento. Andiamo anche nelle scuole primarie dove raduniamo i bambini cristiani di tutte le denominazioni. Così facciamo ecumenismo di base. Nella scuola secondaria raduniamo solo i cattolici.

Vedendo che noi abbiamo appeso la corona del Rosario nella nostra macchina, i cristiani hanno incominciato ad uno ad uno a fare lo stesso. Quando siamo arrivate, se vedevi qualche macchina con la corona del Rosario ti dicevano subito che era una macchina che arrivava da fuori.

Partecipiamo ai raduni del consiglio parrocchiale. Qui suggeriamo, incoraggiamo e diamo supporto alle loro iniziative. Sono felici di vedere che sono capaci di fare molto insieme pur con la scarsità di mezzi e nella loro piccolezza come chiesa locale.

Anche nelle scuole ci accolgono bene. Per lungo tempo si sentivano abbandonati a sé. Essendo la diocesi molto povera e quindi anche la parrocchia, ogni scuola cappella che vuole servizi religiosi deve dare un contributo per gli spostamenti del sacerdote. In questi villaggi si trovano gruppetti di Makonde sfollati che sono molto poveri. Da quando siamo qui, li abbiamo visitati diverse volte ed essi apprezzano la nostra presenza anche se non diamo loro nessun aiuto materiale.

Le visite alle famiglie e ai malati costituiscono un altro modo di vivere la nostra missione. Un giorno siamo andate a visitare una donna cattolica, Mamma Bonde. Per noi era solo una cosa normale. Ci accolse molto calorosamente e si mise a piangere dalla gioia dicendoci che in noi vedeva l’amore di Dio che si era ricordato di lei quel giorno. Con difficoltà ci siamo congedati, Aveva tanto da raccontare. Così fu di Bibi Auleria King, una nonna ammalata che vive da sola con una nipotina.

Come le prime missionarie viviamo la missione soltanto con la nostra presenza. Osserviamo e percepiamo i bisogni spirituali e materiali della gente. Padre Allamano voleva che i suoi missionari evangelizzassero tutto l’uomo: vogliamo fare proprio questo, non dare alla gente cose materiali, ma essere presenza di consolazione. Trasformare la loro situazione per il meglio. Questo richiede tempo, dialogo, incontro con la gente e anche mezzi. Ma, come dicono qui: “pole pole tutafika”“piano piano arriveremo”.

Suor Helen Gechiko Ngondi, mc

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