Che cosa sia un vangelo, sicuramente tutti i cristiani e molti non cristiani lo sanno. Come spesso ci accade, è più facile avere un’idea di che cosa è, che saperlo spiegare. Anche se, a volte, se fossimo costretti a offrire delle spiegazioni, potremmo scoprire altre cose che magari avevamo davanti agli occhi, ma non riuscivamo a vedere.
Ad esempio, potrebbe venirci da dire che un vangelo è la biografia di Gesù. Ma a pensarci bene, in ben due dei vangeli a noi arrivati si inizia a raccontare la vita di Gesù già da grande, non c’è nessuna traccia di una cronologia chiara e al suo ultimo giorno di vita si concede uno spazio spropositato. Siamo sicuri che si tratti davvero di una biografia?
Il vangelo secondo Marco
Prendiamone in mano uno in particolare. Facciamo quello di Marco. Preferiamo questo perché, secondo i biblisti, è il primo a essere stato scritto, così che gli altri hanno copiato il suo stile. Oltre tutto è di gran lunga il vangelo più corto, quindi risulta anche più maneggevole.
I lettori smaliziati sanno che spesso si possono capire già tante cose da un libro, soprattutto se non è un romanzo, leggendone l’indice. Ma i vangeli, si può obiettare, un indice non ce l’hanno, o se ce l’hanno non è certo stato scritto dagli evangelisti.
In realtà, però, se è vero che nell’antichità i libri non avevano indici, né la possibilità di evidenziare delle parti in grassetto o corsivo o con impaginazioni complesse, esistevano dei trucchi che permettevano ai lettori di allora di orientarsi. Si trattava di fare attenzione a particolari piccoli, è vero, ma, in un mondo attento a vederli, con molti meno libri a disposizione e quindi con più attenzione quando leggeva, erano particolari che anche chi scriveva poteva ragionevolmente pensare che sarebbero stati notati.
L’indice di Marco
Torniamo, allora, al vangelo di Marco. Anzi, alla sua prima riga, il primo versetto: «Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio» (Mc 1,1).
Intanto, ci sembra strano iniziare un libro dicendo che quello è l’inizio? Be’, sì, è strano. È come se l’autore ci offrisse già subito un enigma, che prima o poi andrà risolto. Ma di questo enigma ci occuperemo forse un’altra volta.
Parla poi di “vangelo”. Noi, appunto, pensiamo di sapere già che cosa vuol dire. Ma di solito, se qualcuno presenta con una determinata definizione un proprio lavoro, pensa che quella definizione voglia dire qualcosa per chi legge. Se il primo vangelo è quello scritto da Marco, in effetti, quella parola era conosciuta da tempo. Sappiamo che vuol dire “bell’annuncio”, ma era utilizzata solitamente dagli araldi che andavano in giro per una città ad annunciare che era salito sul trono un nuovo re, il quale, per l’occasione, quasi sempre decideva di annullare i debiti, di liberare quindi dalla prigione quelli che non erano riusciti a pagare i loro, e poi offriva banchetti gratuiti per tutti. Il “vangelo”, insomma, era un annuncio che riguardava un re, ma poi anche tutti i suoi sudditi, che venivano liberati: chi dai debiti, chi dal carcere, chi almeno dalla fame. La “bella notizia” di Gesù comporterà di essere liberati e di vivere nella gioia.
La notizia riguarda Gesù, che è un nome proprio. Solo che “Cristo” non è il suo cognome: nell’antichità i cognomi non esistevano, al massimo si indicava il nome del padre e il paese di origine. “Cristo”, in greco, significa “unto”, come si ungevano i re e i sacerdoti nell’Antico Testamento. Non alla prima lettura, forse, ma alla seconda o terza rilettura, ci si sarebbe accorti che “Cristo” viene ripetuto nel vangelo solo quando Pietro riconoscerà Gesù come tale (Mc 8,29, alla fine di un episodio strano, che quindi attira l’attenzione) e, come domanda, nell’interrogatorio davanti al sommo sacerdote, la notte del venerdì santo (Mc 14,61). E Gesù viene poi anche detto “Figlio di Dio”, che a sua volta sarà ripreso in bocca a un demonio (Mc 3,11) e subito dopo la sua morte (Mc 15,39). L’episodio di Mc 8,27-29, dicevo, attira l’attenzione: subito prima Gesù ha guarito un cieco, e con fatica (Mc 8,22-26), poi inizierà a parlare della passione, tema che fino ad allora non era entrato nel vangelo e che diventerà invece ossessivo nella seconda parte. E, non a caso, è l’unica volta in cui Gesù pare preoccuparsi di che cosa pensino di lui, con una specie di “sondaggio d’opinione”.
Sembra insomma che Marco ci suggerisca che nel suo vangelo ci saranno due parti: dapprima analizzerà Gesù come “Cristo”, poi come “Figlio di Dio”. “Cristo” era la traduzione greca di “Messia”, della figura divina attesa. La prima parte risponderà alle attese umane su Dio, per vedere come Dio avesse intenzione di ascoltarle, la seconda parte, “Figlio di Dio”, a quello che Dio ha da aggiungere come nuovo.
(Sia “Cristo” che “Figlio di Dio” vengono anche citate una volta per uno nella “parte sbagliata”. Un po’ serve a dire che comunque queste due parti devono andare insieme, un po’ che anche sapere quei contenuti non basta: a chiamare Gesù “Figlio di Dio” è un demonio, a chiedere se Gesù è il “Cristo” è quel sommo sacerdote che lo manderà a morte. Conoscere Gesù è importante, ma è solo la prima tappa… Forse cominciamo a intuire qualcosa su quella prima parola del vangelo, “Inizio…”).
Quale Dio per l’uomo?
Ci è già capitato di rileggere i primi tre capitoli del vangelo di Marco (cfr. marzo 2017). Gesù subisce il fascino di una proposta religiosa che rimanda ai profeti e che invita a entrare in una relazione personale con Dio (Mc 1,2-11), attraversa anche una fase di faticoso chiarimento (Mc 1,12-13) e poi inizia a predicare il “regno” (si direbbe che sia quello annunciato dal “vangelo”: Mc 1,14-15) e a chiamare alcuni a stare con lui, perché non può vivere da solo (Mc 1,16-20).
Il Dio che si presenta per l’uomo è innanzi tutto un Dio che fa i conti con chi è venuto prima di lui, con la storia alle sue spalle, e poi anche con la propria interiorità, per poi andare a compiere la sua missione, ma non da solo.
E che cosa fa? Potremmo immaginare che inizi a rimproverare la cattiveria degli uomini del suo tempo, o a far conoscere meglio Dio. Noi, al posto suo, probabilmente avremmo iniziato a parlare, a predicare. Lui guarisce. Guarisce un indemoniato, respinto dagli altri uomini “sani” perché imprevedibile e pericoloso (Mc 1,23-27), guarisce la suocera di Pietro che così può riprendere il proprio ruolo di servizio in mezzo agli altri (Mc 1,29-31), guarisce un lebbroso, che secondo la legge religiosa doveva essere evitato (Mc 1,40-45), e guarisce, anche se subito sembra non volerlo fare, un paralitico (Mc 2,1-12). E certo! Perché quel paralitico, portato da quattro amici, non vive la sua malattia come un’esclusione dagli altri; piuttosto, ad allontanarlo è il peccato, che Gesù provvede a guarire.
Insomma, quando Dio si presenta nel mondo, non lo fa per rimproverare né per insegnare, ma per guarire. E non perché pensi che la perfetta efficienza fisica sia necessaria per essere credenti: guarisce solo ciò che impedisce agli uomini di entrare in relazione con gli altri! Dio che entra nel mondo mette gli uomini in grado di incontrare altri uomini.
Contro ogni esclusione
Gesù, secondo Marco, non si ferma qui. Sembra prendersela contro tutto ciò che impedisce alla vita umana di esprimersi appieno, anche quando sulla carta sarebbero cose buone. Se la prende con la legge religiosa, che è buona ma che può diventare una gabbia che impedisce agli uomini di relazionarsi con gli altri: è una legge sul digiuno che impedisce di cogliere chi si ha davanti (Mc 2,13-22), o una analoga legge sul sabato (Mc 2,23-3,6). Quando la regola, pur buona, diventa più importante della relazione con Dio (e con gli altri), per Gesù è diventata dannosa.
Se la prende con i legami parentali, quando non lasciano liberi di compiere le proprie scelte, e ai suoi familiari che vengono a riprenderlo, risponde che ha ormai un’altra famiglia (Mc 3,20-25).
Se la prende con l’efficientismo, con la voglia che tutto funzioni benissimo, che non è un tarlo soltanto contemporaneo. Tutto il capitolo 4, con le sue parabole, sembra in effetti avere di mira quell’atteggiamento, che è un principio buono ma che può renderci la vita invivibile. Spiega infatti che si può seminare senza preoccuparsi del seme che sembra “sprecato”, perché la resa di quelli che renderanno è straordinaria (Mc 4,1-20: ricordiamoci che in Palestina una resa del 9 o 10 era già eccezionale: Gesù promette fino al 100 per uno!); spiega che la luce illumina senza che facciamo niente (Mc 4,21-23), che il seme cresce senza stare a tirarlo fuori dalla terra (Mc 4,26-29), che anche ciò che sembra esageratamente piccolo e insufficiente, potrebbe diventare enorme (Mc 4,30-33).
Il Dio che viene nel mondo, insomma, sembra preoccuparsi in primo luogo che riusciamo a vivere bene, dove “vivere bene” è soprattutto entrare in relazione con gli altri. Potrà stupirci che non si parli praticamente mai di Dio, in un vangelo. Ma il vangelo è la bella notizia di Dio all’opera. E Dio non è interessato a sé, a farsi bello e a farsi onorare: gli sta invece a cuore l’uomo, che viva bene. E a questo scopo interviene, spiega e sana. Il Dio del vangelo è interessato solo a noi.
Angelo Fracchia